Le migrazioni femminili latinoamericane
Grafico 5: Stima dei nati stranieri per comunità di riferimento e totale dei non comunitari Serie storica 2010 – 2016.
2.4 Percorsi di mobilità femminile e ruoli di genere
Come evidenzia Morokvasic (1983), fino agli anni Settanta, negli studi sulle migrazioni le donne sono escluse dall’analisi: i soggetti migranti vengono considerati “unità senza sesso” (1983: 13). Le prospettive femministe hanno interpretato la migrazione delle donne sulla base del concetto di genere mettendo al centro le disuguaglianze prodotte dal capitalismo a livello globale, il razzismo e il sessismo, le gerarchie sociali fra donne migranti e occidentali (Foner, 1975; Scott, Tilly, 1975). L’approccio femminista alle migrazioni, sviluppato intorno agli anni ’80, pone attenzione al ruolo delle donne rimanendo però ancorato a visioni stereotipate e riduzionistiche che “impediscono di cogliere le soggettività delle donne, le loro sfere di significato e azione” (Pinelli, 2019:114). Secondo la critica di Morokvasic (1983), infatti, nello studio sulle donne migranti è possibile distinguere diverse fasi: in un primo momento, si guarda con interesse la relazione fra donne e migrazioni nel tentativo di mostrare il ruolo centrale delle donne nel mondo sociale, economico e politico. L’immagine proposta risulta quella delle donne migranti come vittime, oggetto di oppressione nel contesto di origine, nella sfera domestica e nel mercato del lavoro nel paese ricevente. In seguito, le donne sono rappresentate come soggetti dipendenti privi di autonomia decisionale: i percorsi degli uomini determinano le traiettorie migratorie femminili. Successivamente, le donne si configurano come pioniere della migrazione. In questo caso, si pensa che, tramite la mobilità, le donne migranti raggiungano forme di emancipazione e l’accesso alla modernità. Ancora oggi, nel dibatto politico e mediatico, nel senso comune, è possibile notare la persistenza di tali rappresentazioni riduzionistiche e discriminatorie che interessano le donne migranti latinoamericane in Italia.
Il carattere femminile delle migrazioni non costituisce un fenomeno nuovo (Kofman, 2014; Kofman, Raghuram, 2006). Come nota Mirjana Morokvasic (1983, 1984), l’invisibilità delle donne all’interno dei processi migratori corrisponde al ruolo dominate esercitato da uno stereotipo di genere che individua la donna come economicamente inattiva e dipendente dall’uomo. Non si tratta di una questione numerica di presenze ma della pervasività di una prospettiva basata sul pregiudizio androcentrico: l’esclusione del femminile dallo studio delle migrazioni ha radici nel modello familiare patriarcale che assegna all’uomo il ruolo di principale sostegno economico del nucleo familiare. Nell’ambito della mobilità internazionale, in una prima fase, le prospettive femministe si focalizzano sul binomio donne e migrazioni nel tentativo di evidenziare il punto di vista delle donne
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nell’esperienza migratoria. Tale approccio viene criticato in quanto si basa su una nozione di differenza sessuale fissa e innata che riproduce stereotipi e categorie analitiche, al contrario, occorre mettere in evidenza che l’ingresso delle donne migranti avviene in uno scenario post-crisi contrassegnato da dinamiche di ristrutturazione sociale. A seguito dell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, nel settore della cura si genera uno spazio lasciato vuoto che viene colmato dalle donne migranti provenienti dalle periferie del mondo.
In una seconda fase degli studi sulla migrazione, in corrispondenza con la seconda ondata del femminismo e dell’antropologia di genere, si sviluppa una critica alle categorie analitiche utilizzate, in favore di un nuovo approccio orientato ad evidenziare il legame fra l’organizzazione del sistema economico e i ruoli di genere. In particolare, Morokvasic (1983, 1984) propone una critica all’essenzialismo di genere negli studi sulla mobilità umana individuando tre obiettivi principali: scalfire “immaginari destoricizzanti”, decostruire l’essenzialismo di genere; evidenziare la relazione reciproca fra genere e migrazioni. Hondagneu-Sotelo (2000) ricorda che le prospettive teoriche sulle migrazioni in questo periodo considerano il genere come una variabile strutturante le migrazioni e allo stesso tempo, il concetto di genere viene modellato dalla mobilità delle persone.
Questa linea di ricerca si focalizza sulle migrazioni femminili contemporanee come espressione di processi di ristrutturazione globale delle funzioni della riproduzione sociale. La crescente domanda di cura è legata alle trasformazioni socio-demografiche tra paesi che producono uno scarto fra lavoro di cura atteso e manodopera disponibile. Ciò determina una mobilitazione di lavoratrici straniere che accentua la divisione del lavoro di riproduzione sociale. Sassen (2000, 2010), Ehrenreich e Hochschild (2004), Parrenas (2004) mettono in luce gli effetti del processo di divisione internazionale del lavoro nel mercato dei servizi: le mansioni di cura alla persona sono dequalificate, la domanda è in continuo aumento, il settore dell’assistenza domestica e familiare è riservato alle donne straniere. La crescente domanda di colf e badanti ha origine in uno scenario contrassegnato dall’aumento del tasso di occupazione femminile nei paesi occidentali e da sistemi normativi che assegnano al femminile competenze nell’ambito della sfera domestica e di cura. In questo senso, le ricercatrici affermano che le donne occidentali possono dedicarsi alla carriera lavorativa senza che il maschile partecipi o assuma competenze in ambito domestico e di cura grazie alle donne straniere che si sostituiscono alle italiane.
Le ricerche condotte da Ehrenreich e Hochschild, (2004) e Parreñas, (2001) sostengono che i processi di segmentazione del mercato del lavoro, la contemporanea divisione e globalizzazione del lavoro domestico rappresentano una nuova forma di assoggettamento ed espropriazione di diritti e risorse delle donne migranti. In primo luogo, il lavoro di cura è socialmente svalorizzato, equivale ad un
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lavoro servile in ambito domestico fondato su rapporti di tipo asimmetrico che si rifanno al modello dominante di superiorità del maschile. In questo modo, l’inserimento delle donne migranti nel lavoro domestico stabilisce e rafforza le disuguaglianze di genere, classe e razza. In secondo luogo, si tratta di un’espropriazione delle risorse affettive delle madri migranti che vengono trasferite dai destinatari legittimi ad altre persone nei paesi ricchi. Ciò determina una nuova forma di imperialismo: le donne straniere vengono separate dalla famiglia e dal contesto di origine per offrire amore e cura in contesti occidentali e, allo stesso tempo, le famiglie autoctone si appropriano di manodopera, materie prime e affetto delle donne migranti come capacità “naturali”, espressione della cultura di cui sono portatrici. All’interno della cornice strutturalista, i processi di segmentazione del lavoro sono considerati centrali nell’indagine poiché mettono in luce i processi di inclusione subordinata che interessano la categoria delle donne migranti (Decimo, 2008).
Gli studi sulla mobilità delle donne mostrano l’accesso ad un mercato del lavoro segmentato che prevede la preclusione dei settori più qualificati mentre la richiesta è forte nei settori più bassi. Infatti, secondo il modello indicato da Kofman (2003) gli stranieri trovano lavoro nel settore delle 3 d, ovvero sono chiamati a svolgere mansioni in settori dirty, degrading, dangerous. Tale fenomeno è l’effetto di dinamiche discriminatorie indirette occultate da una visione distorta del migrante considerato adatto per “natura” al lavoro domestico, in cui esprime una “vocazione culturale” (Lagomasino, 2006: 37). L’analisi del rapporto fra donne migranti e mercato del lavoro implica la necessità di considerare le relazioni sociali di domino risultato della combinazione fra criteri di genere, classe ed etnia. In particolare, numerose ricerche mostrano il ruolo esercitato da dinamiche di razzializzazione e processi di categorizzazione sociale che incidono sull’inserimento lavorativo delle donne migranti. Kofman (2006, 2012, 2014) afferma che le donne migranti sono inserite nel lavoro domestico e di cura per effetto di dinamiche di razzializzazione che attribuiscono all’appartenenza culturale un ruolo determinante. Le dinamiche di gerarchizzazione interna del settore attribuiscono alle migranti il ruolo di donne esotiche e sottomesse configurando la presenza di un razzismo implicito. Inoltre, emerge il ruolo rilevante esercitato da processi di categorizzazione sociale. Mediante la costruzione di immagini stereotipate veicolate dal discorso politico e mediatico, le donne migranti sono viste come appartenenti ad un’unica categoria indifferenziata e stabile nel tempo.
Se il contesto europeo si configura come una meta privilegiata per le donne migranti che si inseriscono facilmente nel settore del lavoro domestico e di cura, allo stesso modo, in Italia, il lavoro di cura è il primo settore di impiego per le donne migranti latinoamericane a livello nazionale e locale. A partire dalla metà degli anni ’90, nella città Genova, aumenta la richiesta di personale straniero nel settore domestico e di cura. Tale fenomeno è interpretato come conseguenza della combinazione di alcuni
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fattori socio-economici: un processo di invecchiamento della popolazione, la carenza di progetti e risorse per il welfare, i costi elevati per i servizi di cura privati, l’inserimento delle donne italiane nel mercato del lavoro, in particolare a seguito della crisi economica del 2008.
Alcune etnografie sul tema delle migrazioni latinoamericane (Pedone, 2014; Marchetti, Cherubini, 2019; Lagomarsino, 2014; Pagnotta, 2010; Abbatecola, 2010) osservano la tendenza delle donne migranti ad inserirsi in nicchie di lavoro specifiche secondo il modello dell’integrazione subalterna (Ambrosini, 2010). Si tratta di spazi riservati alle donne migranti a causa di un processo segmentazione del lavoro dovuto alla terziarizzazione dei sistemi economici che contribuisce ad un aumento della flessibilità e segmentazione del mercato del lavoro. In questo modo, si creano lavori desiderabili solo dalle donne migranti che comprendono condizioni di lavoro precarie, salari bassi e scarsa valorizzazione sociale. A ciò si aggiunge il peso esercitato dalle politiche migratorie discriminatorie che considerano l’immigrato esclusivamente come forza lavoro faticando a riconoscere le necessità del migrante in un mercato del lavoro in trasformazione. Si tratta di una visione riduzionistica del fenomeno migratorio poiché si basa su un processo di costruzione della soggettività femminile migrante come inferiore per essenza, per natura. Il fenomeno dell’integrazione subalterna è il risultano dell’intreccio di diversi fattori: il carattere prevalentemente femminile delle migrazioni, la composizione e il ruolo delle famiglie migranti, i modi e le possibilità di inserimento lavorativo e sociale. Tuttavia, emerge la fragilità del modello di inclusione segmentata che non rende conto in modo adeguato del cambiamento nelle dinamiche di gruppo e delle trasformazioni nelle esigenze dei soggetti coinvolti in diversi ambiti (famiglia, scuola, lavoro) (Lagomarsino, 2010; Lagomarsino e Torre, 2007).
Nel caso delle donne migranti inserite nel settore domestico, le condizioni di lavoro precarie sono aggravate da un mancato riconoscimento del peso emotivo insito nel lavoro di cura e della professionalità offerta. Ciò contribuisce ad occultare i diritti fondamentali delle lavoratrici migranti e permette di non prendere in considerazione l’importanza della dimensione privata e affettiva (Vianello, 2009; Lagomarsino, 2006). Il quadro presentato si configura determinante per lo sviluppo di rapporti di lavoro basati sullo sfruttamento in cui non vengono garantiti i diritti fondamentali. Per molte donne migranti l’esperienza di lavoro consiste in relazioni totalizzanti ed esclusive che configurano un carico emotivo difficile da sopportare. Il lavoro domestico risulta l’occupazione prevalente, in particolare in un primo periodo, in quanto viene accettato come opportunità immediata di inserimento nella società di destinazione. Infatti, la possibilità di coabitazione con il datore di lavoro rappresenta una forma di guadagno e di risparmio. Tuttavia, in molti casi, risulta un lavoro difficile da mantenere proprio per le condizioni in cui si svolge. L’imposizione di ritmi e modi di
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lavoro che non considerano la dimensione privata e affettiva del migrante rappresentano forme di costrizione della vita individuale. Per questi motivi, la regolarizzazione consente, in alcuni casi, il passaggio ad altre forme di lavoro (Ambrosini 2010). Inizialmente, la migrazione di donne sole dall’Ecuador verso l’Europa del Sud, in particolare Spagna e Italia, contribuisce allo sviluppo di una rappresentazione dei latinoamericani come popolazione affine per cultura e religione veicolata dai discorsi politici e mediatici. Allo stesso tempo, diversi studi evidenziano nella società di destino l’aspetto dinamico dei processi di rappresentazione simbolica (Queirolo Palmas, Torre, 2005). Se in un primo momento, in relazione ad un flusso migratorio prevalentemente femminile si diffonde lo stereotipo della donna mansueta che facilita l’inserimento lavorativo, successivamente con i ricongiungimenti familiari, l’arrivo dei figli e mariti viene percepito come una presenza turbolenta, problematica e aggressiva. L’indagine etnografica multisituata di Lagomarsino (2006, 2007) fra Ecuador e Genova, mostra inizialmente un percorso è facilitato da un’immagine positiva della donna migrante latinoamericana silenziosa, pacifica, poco visibile e destinata a specifici settori. All’interno di un processo di costruzione dell’identità migrante, la società di accoglienza assegna una posizione inferiore alle donne latinoamericane accettate solo in qualità di domestiche, senza prendere in considerazione i livelli di istruzione, le capacità e le competenze.