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La riproduzione come configurazione frattale: ricerche etnografiche sulla bassa natalità Parallelamente all’introduzione di tecnologie biomediche, durante gli anni Novanta, diversi stud

1.3 L’approccio culturale e politico-economico alla fertilità: i comportamenti riproduttivi come pratiche sociali situate

1.3.2 La riproduzione come configurazione frattale: ricerche etnografiche sulla bassa natalità Parallelamente all’introduzione di tecnologie biomediche, durante gli anni Novanta, diversi stud

sulla riproduzione (Jordanova, 1995; Martin, 1991; Maher, 1992) si focalizzano sul ruolo svolto da istituzioni e Stati nel determinare i modi in cui “le persone immaginano e vivono la sessualità e costruiscono legami parentali” (Mattalucci, 2017: XVII). A partire dal 2000, per indagare la gestazione, la nascita e l’allevamento dei figli, molte ricercatrici evidenziano gli aspetti che circoscrivono l’accesso alle possibilità di cura: classe, razza, etnicità, fede religiosa, nazionalità e orientamento sessuale (Ginsburg, Rapp, 1995; Rapp, 1999, 2001; Riberio Corrosacz, 2004). Il concetto di stratificazione della riproduzione introdotto da Colen (1986) indica le situazioni in cui le forze economiche, politiche e sociali strutturano il lavoro riproduttivo delle donne in relazione alle gerarchie di classe, razza, etnia, nazionalità e genere, a livello locale e globale. In questo modo, “mentre la riproduzione di alcuni soggetti è sostenuta e premiata, il lavoro riproduttivo di altri è svalutato” (Mattalucci, 2017: XVII). Un secondo aspetto introdotto nelle scienze sociali è l’espressione “fratture della riproduzione” (Rapp, Ginsburg, 2001; Inhorn, 2007). A fronte dell’idea diffusa sulla riproduzione come processo lineare, privo di ostacoli e imprevisti, Rapp e Ginsburg si propongono di evidenziare le fratture che alterano il corso “naturale” del processo procreativo. Le gravidanze indesiderate, l’infertilità, gli aborti spontanei o volontari, il ricorso alla medicina riproduttiva, rappresentano le “esperienza che interrompono le traiettorie ideali, dove al desiderio di genitorialità e al concepimento seguono la nascita e lo sviluppo di bambini sani, che garantiscono la formazione di famiglie e continuità fra generazioni”. Oltre ad avere cause organiche, le fratture della riproduzione dipendono da forze strutturali, risorse economiche, politiche, attese e desideri sulla famiglia. Come suggerisce Inhorn (2007) il concetto di riproduzione “naturale” è l’esito di un discorso sviluppato in base al sistema culturale dominante che identifica e classifica forme di famiglia e di procreazione come sane o patologiche (Cfr. Mattalucci, 2017).

Il termine riproduzione rimanda in modo immediato al dato biologico e a fatti di natura, rivelando una neutralità ambigua (Jordanova, 1995). Il processo riproduttivo è rappresentato in modo parziale in quanto viene tralasciato il ruolo dell’intervento umano prescindendo dai corpi delle persone coinvolte. Due aspetti sono centrali per Jordanova: le procedure tecniche che intervengono nel processo procreativo e le rappresentazioni simboliche. In particolare, a partire dal XIX secolo, nel mondo occidentale la riproduzione assume una connotazione legata profondamente alla razionalità scientifica. Emerge il contrasto fra le rappresentazioni prodotte dalla scienza medica, le esperienze e gli immaginari costruiti nel contesto socio-culturale di riferimento. Il concetto di neutralità del processo riproduttivo, infatti, occulta i rapporti di forza e le asimmetrie di genere e, allo stesso tempo,

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gli immaginari diffusi sulla procreazione (D’Aloisio, 2007). Gli studi scientifici sui processi riproduttivi producono e rafforzano precise visioni di genere che vengono occultate dalla presunta neutralità del discorso filosofico-medico.

Un secondo filone esamina il lavoro riproduttivo come lavoro femminile necessario per la riproduzione biologica e lavoro di cura. in particolare, alcune hanno messo al centro i rapporti di riproduzione, concetto introdotto dall’antropologia marxista che considera il lavoro riproduttivo e il suo sfruttamento nell’economia capitalistica. Per Rubin (1975) i rapporti di produzione si basano su relazioni e attività misconosciute, svalutate e non retribuite che si organizzano in base al sistema sesso/genere e dalle sue combinazioni con le gerarchie di razza, classe, nazionalità. Si sviluppano indagini riguardo al rapporto fra riproduzione e sistemi economici, politici e sociale con l’intento di sottolineare il ruolo assunto dai molteplici interessi contrapposti portati avanti dalle istituzioni, da gruppi religiosi, movimenti sociali che agiscono sui corpi, modellando le pratiche e le percezioni sulla sessualità e sui legami di parentela. Un ulteriore aspetto riguarda la circoscrizione dell’accesso alle risorse e possibilità in relazione alla razza, classe, etnicità, fede religiosa, nazionalità, orientamento sessuale (Rapp, 1999; Riberio Corrosacz, 2004). Da più parti si sottolineano le molteplici interconnessioni fra migrazione e riproduzione tramite ricerche che pongono attenzione agli effetti prodotti sulla riproduzione delle categorie di genere, classe, etnia, nazionalità che si rafforzano reciprocamente6. In questo ambito si inseriscono le ricerche condotte da Parrenas (2000) e Hochschild (2004) che si focalizzano, in particolare, sulla divisione internazionale del lavoro riproduttivo e sulle forme transnazionali di cura e delle relazioni parentali. Nei paesi europei e negli Stati Uniti, infatti, alle donne migranti viene delegata parte del lavoro di cura, a causa del progressivo inserimento delle donne della classe media nel mercato del lavoro extra-domestico. A fronte di un salario spesso inadeguato, le lavoratrici-madri-migranti devono ricorrere al lavoro di altre donne per la cura dei propri figli rimasti nel paese di origine.

Come suggerisce Claudia Mattalucci (2017), un altro settore di studi indaga il rapporto migrazioni e riproduzione a partire dell’impatto delle politiche migratorie sui comportamenti procreativi delle donne migranti, sottolineando la negoziazione continua tra desideri e scelte procreative legate a processi di incorporazione di norme di genere e sulla famiglia. In particolare, alcune ricercatrici si concentrano sull’analisi delle leggi, sulle forme di categorizzazione e le procedure di “accoglienza” nei paesi di destinazione (Decimo, Gribaldo, 2017) mentre per altre, occorre rivolgersi alle attese, le esortazioni e i sospetti che si riflettono sui migranti per comprenderne i comportamenti riproduttivi. Tra questi ultimi, è possibile inserire lo studio di Bledsoe (2004) in cui viene affrontato il tema della

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riproduzione nei contesti migratori analizzando i modi in cui i figli assumono un valore diverso in relazione alla posizione assunta dal soggetto. L’autrice introduce il concetto di “legittimità culturale” (ibidem: 88) per analizzare le traiettorie riproduttive dei soggetti migranti collocati ai margini nel contesto europeo. Bledsoe sottolinea il condizionamento esercitato dalle “aspettative di legittimità” proiettate sulla nascita. Diversamente, i soggetti che si posizionano al centro dell’Europa assumono comportamenti considerati nel passato illegittimi. Bledsoe riprende il concetto di complesso culturale onore/vergogna introdotto da Mary Douglas (1966) per indicare il timore di contaminazione dei soggetti nel superamento dei confini tra le categorie culturali stabilite. Dallo studio di Douglas emerge che la reputazione della famiglia è legata alla condotta sessuale delle giovani donne: l’immoralità delle donne è evidente nei casi in cui non viene rispettato l’ordine temporale specifico. In particolare, si ritiene che l’unione coniugale debba precedere la gravidanza e si indica una precisa distanza temporale fra l’arrivo dei figli. Nello studio di Bledsoe sul rapporto fra riproduzione e legittimità culturale, emerge che le logiche nazionali producono e definiscono i margini di ciò che viene considerato moralmente appropriato. Sul concetto di legittimità Moore (1978) specifica che le norme sociali non agiscono in modo automatico e costrittivo ma rappresentano uno sfondo ideologico a cui gli individui e i gruppi attingono nel processo di negoziazione che costituisce la realtà sociale. In questo modo, appellandosi alle norme culturali e morali dominanti l’individuo tenta di legittimare le proprie decisioni e azioni.

Bledsoe ipotizza l’esistenza di una relazione dinamica fra i comportamenti riproduttivi adottati in Paesi occidentali e non. Le scelte procreative delle famiglie migranti e di quelle europee rappresentano due facce della stessa medaglia: mentre per le prime si evidenzia il tentativo di ottenere legittimità in un nuovo contesto socio-culturale attraverso la procreazione, le famiglie europee mostrano la tendenza ad una bassa fertilità e alle nascite fuori dal matrimonio. L’analisi di Bledsoe indica che la fertilità migrante arriverà ad assumere le caratteristiche del paese di immigrazione soltanto quando la condizione socio-economico diventerà stabile e sicura. Concentrare l’analisi sulle dinamiche di fertilità ai margini sociali e legali rappresenta uno strumento essenziale per comprendere le dinamiche di bassa fertilità che si sviluppano “al centro” del contesto europeo. In questo modo, sostiene Bledsoe, è possibile superare la convenzionale nozione di confini nazionali.

Le ricerche etnografiche condotte in Italia da Fulvia d’Aloisio (2012) e Elizabeth Krause (2012)7 si

propongono di analizzare il peso di conoscenze condivise, orizzonti normativi e di valori che incidono sulle scelte procreative delle donne nell’epoca della bassa fecondità. La tendenza alla riduzione della natalità riscontrata a partire dagli anni Novanta in Italia, si inserisce all’interno di un contesto più

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ampio. A seguito del boom post-bellico delle nascite, dalla metà degli anni Sessanta, nei Paesi Occidentali si nota un processo di calo drastico della fecondità definito dai demografi “Seconda Transizione demografica”. Nel corso degli anni Novanta, il fenomeno della bassa natalità è presentato come un problema sociale legato a questioni economiche e sociali. In particolare, nel dibattito emergono preoccupazioni circa la possibilità di un ricambio della popolazione, sull’assetto del welfare in relazione all’invecchiamento progressivo. Negli ultimi dieci anni, nel dibattito politico e mediatico si osserva il calo delle nascite con preoccupazione “eminentemente cattolica” (D’Aloisio, 2012: 60) per il futuro della famiglia8. Sulla base degli studi condotti da Foucault il discorso assume il valore di una pratica sociale capace di produrre credenze, significati e sapere. Allo stesso tempo, il discorso produce effetti reali: modifica le percezioni, favorisce o ostacola certi tipi di relazioni e orienta i comportamenti. Il potere del discorso consiste nel suo effetto performativo che procede attraverso la retorica per legittimare specifiche linee politiche trasmettendo una serie di idee sulle migrazioni, sullo straniero.

L’etnografia di D’Aloisio si basa sull’osservazione partecipante condotta nei corsi di accompagnamento al parto in un consultorio napoletano. Nel saggio di d’Aloisio per comprendere le traiettorie riproduttive delle donne in un contesto di bassa natalità risultano centrali da un lato, i processi di mutamento culturale che interessano la famiglia, i ruoli genitoriali e la cura dei figli, dall’altro i saperi in merito alla nascita e al parto caratterizzati da un crescente iper-specializzazione. Dalle interviste raccolte, emerge un “eccesso di saperi, non sempre convergenti e talvolta contrastanti” (Ranisio, 2012: 22) che riguardano la maternità: il sapere medico-scientifico, le conoscenze tradizionali e gli stimoli consumistici. Il tentativo di mediazione fra saperi diversi provoca nelle donne uno stato di confusione e tensione, un senso di inadeguatezza per l’acquisizione di competenze diversificate che produce una configurazione della maternità densa, problematica e complessa. Lo scenario illustrato non appare favorevole alla conciliazione tra lavoro produttivo e riproduttivo, né all’assunzione di un ruolo genitoriale soddisfacente da parte delle donne. Infatti, come afferma D’Aloisio (2012: 86) “la figura materna della bassa fecondità attuale è al centro di un’aspettativa sociale molto forte verso i pochi figli ed è protagonista di una domanda di cura che cresce nei tempi e nelle abilità richieste”.

Krause9 analizza in prospettiva critica il concetto di razionalità utilizzato nella scienza demografica

come chiave interpretativa dei comportamenti riproduttivi evidenziando un paradosso: la percentuale notevole di nascite non pianificate (circa un quarto delle nascite totali). Tale fenomeno implica una

8 In particolare, mi riferisco al “Family Day” introdotto nel 2015 da associazioni cattoliche.

9 Cfr. Krause 2001, sul concetto di riproduzione razionale e moderna all’interno del dibattito politico e mediatico sulla

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messa in discussione dell’ipotesi della razionalità nei comportamenti riproduttivi sostenuta da molti studi demografici. L’obiettivo di Krause consiste nell’esaminare “come la razionalità rappresenti una tattica fondamentale nel gioco della biopolitica” (Krause, 2012: 141). Come dimostrano le etnografie condotte da Chavez negli Stati Uniti (2004) sulle scelte procreative delle donne migranti latinoamericane, all’interno di un contesto contrassegnato dalla bassa natalità, nel discorso politico, la riproduzione di alcuni potenziali genitori è meno urgente di altri. In questo modo, si manifesta una dinamica di stratificazione della riproduzione: le scelte procreative di certe donne sono oggetto di stigmatizzazione mentre quelle di altre sono sostenute e valorizzate. Osservare la riproduzione nei contesti di bassa natalità, infatti, permette di svelare le norme culturali, le disuguaglianze e le lotte. Come suggerisce Krause (2012: 141): “i campanelli d’allarme della decrescita demografica risuonano nella tonalità della razionalità, le cui note sono nazionalistiche e le cui ripercussioni sono razializzate”. La metodologia etnografica permette di evidenziare le contraddizioni della modernità con l’obiettivo di un superamento di interpretazioni dicotomiche e scotomizzanti (tradizione/modernità, irrazionalità/razionalità). L’approccio etnografico permette di portare alla luce ambivalenze, emozioni che riguardano la scelta di fare un figlio “rivelando i desideri ambivalenti se non conflittuali del sé moderno” (Krause, 2012: 164). Emerge una frattura nel binomio razionalità- irrazionalità a partire dal caso italiano: “fare figli” rappresenta l’espressione di una “razionalità sospesa” (Krause, 2012:161). Nel caso italiano, è presente un ulteriore possibile punto di rottura nell’opposizione binaria razionalità/irrazionalità: la transizione demografica è avvenuta attraverso l’uso di metodi contraccettivi tradizionali. Infine, considerando la presenza elevata di bambini non programmati, il discorso sulla razionalità si configura come una tecnica di governance che procede alla costruzione dei soggetti occidentali come moderni allo scopo di imporre una separazione netta fra soggetti e altri la cui presenza rappresenta una minaccia per l’omogeneità nazionale e la coesione sociale (Krause, 2012).

I due testi evidenziano la presenza di alcune contraddizioni riguardo al fenomeno procreativo: a fronte di numerose nascite “non programmate”, è rappresentato come l’espressione di un progetto, l’esito programmato e consapevole di una scelta razionale, e allo stesso tempo, l’evento nascita produce “una condizione materna disorientata, in parte problematica e ansiogena” (D’Aloisio, 2012: 86).

Recentemente sono state condotte ricerche etnografiche che affrontano il tema della riproduzione con l’obiettivo di indagare le specificità locali della fecondità italiana, per sottolineare il ruolo esercitato da opinioni, valori e modelli di fecondità veicolati dalle reti amicali, parentali e familiari, nel determinare le scelte procreative (D’Aloisio, 2007; Decimo 2008, 2018; Gribaldo 2016). Decimo (2018) esamina le diverse prospettive di ricerca sulla fecondità degli stranieri in Italia elaborate nell’ambito delle scienze sociali. In particolare, l’autrice analizza i modi in cui si combinano le due

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principali linee di mutamento socio demografico attualmente rappresentate dal declino demografico e dall’aumento della presenza straniera in Italia. Si tratta di due processi legati alle trasformazioni in atto nella famiglia e nel lavoro, a livello locale e globale: da un lato, si osserva un processo di transizione demografica, in corso da alcuni decenni, in cui si assiste al mutamento della struttura della popolazione. Molteplici fattori (bassi tassi di natalità e l’aumento dell’età media della madre) concorrono a determinare un processo di invecchiamento della popolazione, in concomitanza con lo sviluppo socio-economico della nazione. Secondariamente, a partire dagli anni Settanta, si assiste alla crescita di un flusso crescente di migranti come risposta alla richiesta di manodopera a basso costo e per effetto di politiche neoliberiste adottate nei paesi di origine.

Gribaldo (2016), in una recente ricerca sui comportamenti riproduttivi fra le famiglie marocchine migranti in Italia, pone attenzione ai discorsi politici e mediatici sull’identità nazionale in cui si attribuisce un ruolo centrale alla questione delle migrazioni, in un contesto di bassa natalità. In questo modo, secondo Gribaldo, si alimenta un discorso sulla fecondità legato al concetto di identità, classe, razza e genere (Cfr. Krause 2001, 2007). Nel discorso politico-mediatico emergono due interpretazioni dominanti riguardo alla fecondità migrante: le teorie della modernizzazione e le teorie del rimpiazzo. Le teorie allarmistiche si concentrano sulle scelte riproduttive dei migranti sottolineando il pericolo di un’invasione. La percezione di un’emergenza costante è legata all’idea di una popolazione migrante con una fecondità naturale e non controllata. Le teorie del rimpiazzo, invece, prevedono un bilanciamento fra i due regimi di fecondità e nel tempo, una lenta assimilazione dei comportamenti riproduttivi dei migranti verso i comportamenti degli autoctoni. In questo modo, si reifica l’idea di una separazione fra la popolazione migrante residente con una fecondità elevata e una popolazione autoctona con una fecondità molto bassa. Infatti Gribaldo (2016) sostiene si tratti di due fecondità ugualmente considerate patologiche: da un lato, un modello di fecondità italiana che tende alla sterilità, dall’altro un modello di fecondità migrante eccessiva, più prolifica rispetto alle risorse disponibili.

Come suggerisce Decimo (2018) fra le teorie del rimpiazzo si inserisce la ricerca di BIllari e Dalla Zuanna (2008) riguardo alle trasformazioni relative alla fecondità in contesti di migrazione. I due demografi osservano come, in molti casi, si considera l’impatto delle migrazioni risolutivo per la composizione demografica italiana segnata da squilibri strutturali. Dalla Zuanna (2008) sostiene che l’afflusso continuo di lavoratrici e lavoratori migranti consente di mantenere una dinamica di crescita positiva della popolazione italiana. Infatti, in questo modo, si verifica il rimpiazzo della popolazione: la forza lavoro migrante compensa i vuoti demografici e risolve gli squilibri strutturali della popolazione nativa consentendo di mantenere alti standard di sviluppo economico e mobilità sociale

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fra le generazioni. L’autore descrive l’evoluzione positiva del processo del rimpiazzo: la scelta di un numero limitato di figli per famiglia permette di favorire l’incremento di capitale umano e la mobilità sociale. Allo stesso tempo, un flusso continuo di manodopera migrante che si inserisce nelle posizioni più basse della gerarchia sociale, impiegata in lavori umili, garantisce lo sviluppo della produttività nazionale. In base alla prospettiva dell’assimilazione, le famiglie migranti sono indotte ad assumere i comportamenti riproduttivi delle famiglie autoctone per ottenere l’accesso alle risorse e al capitale sociale. Per questo motivo, secondo Billari e Dalla Zuanna (2008), fra le famiglie migranti si osserva la tendenza ad assumere comportamenti riproduttivi simili a quelli delle famiglie native favorendo così la crescita e il benessere della popolazione italiana.

Tramite un approfondimento riguardo alla nozione di modernità adottata nelle teorie della transizione demografica, Gribaldo si propone di decostruire il concetto di modernità come risultato di un processo storico e sociale, capace di assumere molteplici forme. Gribaldo (2016) evidenzia il ruolo assunto dalla nozione di modernità nell’interpretazione delle trasformazioni demografiche. Infatti, negli studi demografici si dà per scontato che la direzione del cambiamento corretto e desiderabile nei comportamenti riproduttivi tenda verso un’assimilazione automatica della elevata fecondità dei migranti alla bassa fecondità degli autoctoni, con il fine di accedere alle risorse e al capitale sociale. Alla luce delle ricerche condotte da Gribaldo (2016) e Decimo (2018) emerge la necessità di ripensare le ipotesi prevalenti formulate riguardo alla fecondità della popolazione migrante. La teoria del rimpiazzo e le teorie della modernizzazione, infatti, sostengono che la trasmissione di pratiche e modelli riproduttivi avvenga in modo lineare dalle popolazioni native ai migranti. Al contrario, la ricerca etnografica permette di evidenziare mentre si osservano molteplici forme di adattamento dal carattere spesso ambivalente.

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CAPITOLO II

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