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Seguire per grandi linee la storia della Lega Calcio equivale a ripercorrere le tappe di avvicinamento delle società calcistiche – e del fenomeno-calcio nella sua visione complessiva di vero e proprio fenomeno di costume – ad una dimensione sempre più “aziendale”, laddove l’aspetto economico-finanziario finisce quasi col sopraffare l’aspetto meramente ludico o spettacolare, pur intrecciandosi strettamente ad esso.

Nel 1981 l’assemblea dei presidenti di serie A e B decide la liberalizzazione delle sponsorizzazioni. Come scrive Fabio Monti nel suo saggio6 sulla nascita della Lega Calcio, la Lega nella primavera del 1981 «si trova di fronte alla prima occasione per alzare il prezzo della cessione dei diritti tv.

La Fininvest annuncia pubblicamente di essere disposta a offrire molto di più della Rai, ma i tempi non sono ancora maturi per cedere i diritti a un’

emittente che non ha la diretta e di cui ancora non tutti si fidano, nonostante l’ultimo test del Mundialito. Così, per tre anni la Rai si tiene il calcio, ma deve versare 5 miliardi, 816 milioni e 147 mila lire».

6 Monti F., I Quaderni del Calcio, Lega Calcio, n.x, 1998

Prima della discesa in campo delle televisioni e degli sponsor, e del loro irrefrenabile predominio economico, per le squadre di calcio le uniche fonti di ricavo erano gli incassi al botteghino, per la singola partita o per gli abbonamenti di inizio stagione. In questa ottica, il numero dei tifosi che si recava allo stadio per seguire l’evento-partita rappresentava il “bacino d’utenza” in senso stretto. E i tifosi erano i soli “clienti” della società di calcio: in cambio del pagamento di un biglietto o di un abbonamento ricevevano la contropartita di un servizio, la visione della partita.

Evidentemente anche in questa fase la forza economica dei singoli presidenti di club e la disponibilità dei rispettivi “portafogli” rappresentava una discriminante decisiva nel valutare il valore di ogni formazione calcistica e la rispettiva “forza” nel campionato e nei fatturati, ma il divario tra “grandi” e “piccoli” non era tanto accentuato come oggi. E’ evidente che, ampliandosi la torta dei ricavi con l’entrata in campo delle telvisioni private, fette sempre maggiori sono andate alle società più ricche.

Se esaminiamo, come esempio, la prima annata in cui il pagamento dei diritti televisivi cominciò ad impennarsi, vale a dire quella successiva ai mondiali italiani dell’estate 1990, troviamo che il divario fra il fatturato complessivo della squadra più ricca (il Milan) e quello della più povera (il Cesena) era di quasi 5 volte. Nella stagione 1990-1991 i rossoneri incassarono 66,3 miliardi di lire contro i 13,8 dei romagnoli.

In poco più di un decennio questa “forbice” si è più che raddoppiata, raggiungendo un valore pari a 11,2: nell’esercizio 2002-2003 la società più ricca (la Juventus) ha fatturato 218,32 milioni di euro, la più povera (l’Empoli) appena 19,5.

Ma la vera “mutazione genetica” resta quella dei fruitori dell’evento-calcio.

Gli spettatori da stadio sono stati declassati, per i bilanci delle squadre, al ruolo di “clienti secondari”, sostituti nel ruolo di “clienti primari” da sponsor e televisioni.

«Sta in questi dati la mutazione genetica: la perdita di importanza dei tifosi da stadio è stata controbilanciata dall’ascesa alla ribalta di quelli da salotto, che costituiscono il cosiddetto “bacino d’utenza allargato”. Ma questi ultimi non sono più “clienti” della società di calcio, bensì della televisione criptata a cui pagano l’abbonamento per il campionato. E, addirittura, i tifosi da salotto del calcio in chiaro, quello gratuito, non sono mai stati clienti: senza saperlo, sono proprio loro il prodotto venduto, visto che la Tv commerciale gratuita ottiene i propri ricavi dagli inserzionisti pubblicitari, che sono dunque i suoi veri clienti. E qual è il prodotto venduto? Sono i telespettatori che assistono alla partita, ai quali gli inserzionisti pubblicitari possono propinare i loro “consigli per gli acquisti”».7

1.4.1. Lievitano i fatturati, esplodono gli indebitamenti: le plusvalenze e il decreto spalmadebiti

La concezione del calcio come business porta a snaturare del tutto la filosofia di gestione aziendale “sana” che aveva caratterizzato la storia dei club – in linea di massima – sino a tutti gli anni Ottanta. La regola di una

7 Napolitano, Liguori, Il pallone nel burrone, Editori Riuniti, 2004.

certa proporzione fra introiti e uscite salta del tutto. Il vero circolo vizioso si instaura con l’incremento continuo dei fatturati e l’aumento esponenziale del “costo del lavoro”, ovvero gli stipendi pagati ai giocatori più famosi, l’acquisto del loro cartellino, le percentuali versate ai loro procuratori.

Significativi esempi di gestione dissennata possono essere l’Inter e la Lazio, società per le quali, nella stagione 2001-2002, le entrate complessive non riuscirono nemmeno a coprire gli stipendi dei rispettivi tesserati. L’Inter era arrivata a versare per emolumenti il 108.42% del fatturato, la Lazio il 108.24%.

Nella stagione 2002-2003 Juventus e Milan non hanno duellato solo per vincere il campionato e la Coppia dei Campioni, ma si sono sfidate anche sino all’ultimo centesimo per vincere la speciale classifica del fatturato.

Nessuna società italiana aveva mai sfondato il tetto dei 200 milioni di euro di ricavi complessivi: ci sono riuscite sia la Juventus (218 milioni) che il Milan (200 milioni). Il resto delle formazioni di rango si sono dovute accontentare di guardare da lontano questa marea di ricavi: l’Inter ha chiuso il fatturato a 163 milioni di euro, la Roma a 134, la Lazio a 100. Le formazioni minori si sono dovute accontentare di fatturati compresi fra i 19 e i 30 milioni di euro.

Tutte queste storture hanno provocato una crescente situazione di collasso del sistema economico-finanziario, accrescendo a dismisura il numero dei bilanci societari chiusi con passivi più o meno pesanti. I conti in rosso della gestione ordinaria della serie A è cresciuto dai 150 milioni di euro della stagione 1995-1996 ai 222 del ’97-’98, ai 406 del ’99-2000, ai 710 del 2000-2001. Sino ad assestarsi, nei bilanci chiusi al 30 giugno 2002, alla quota di 900 milioni di euro.

Conti che sarebbero stati ancora più drammatici se, in molti casi, i bilanci delle società non fossero stati “addomesticate” applicando il geniale artifizio contabile delle “plusvalenze” fittizie. In realtà il concetto di

“plusvalenza” occupa un ruolo importante nel diritto commerciale e societario, e non rappresenta una frode. Esemplificando al massimo, se acquisto un oggetto a 50 e lo rivendo a 200, avrò realizzato un guadagno, cioè una plusvalenza, pari 150; in realtà, se nel frattempo ho anche utilizzato quell’oggetto, sfruttandone parte del suo valore, potrò iscrivere nella contabilità aziendale quel valore d’uso alla voce “ammortamenti”.

L’oggetto, dopo l’uso, non varrà più 50 come quando era nuovo, ma 30: e dunque rivendendolo a 200 la plusvalenza sarà di 170.

Nel mondo del calcio le plusvalenze esistono da sempre. Quando esse erano

“reali”, si concretizzavano nella politica delle società minori, impegnate ad allevare in casa campioni in erba che, una volta cresciuti, venivano trasferiti alle società più grandi facendo affluire nelle casse del club proprietario ingenti somme di danaro liquido. Agli inizi degli anni Novanta, anche i grandi club calcistici si accorsero del fascino contabile della plusvalenza, incalzati dal progressivo deterioramento dei bilanci, dall’aumento dei costi e dall’impossibilità di presentarsi al cospetto del “mercato” con cifre in rosso. Essendo ovviamente impossibile realizzare plusvalenze a senso unico, il vero colpo di genio fu quello di mettere in atto le cosiddette

“plusvalenze incrociate”, dando origine ad un frenetico scambio di giocatori fra le varie società con quotazioni assolutamente al di fuori degli ordinari parametri di valutazione.

Meri artifici contabili, come si diceva in precedenza, che non arrecavano nessun beneficio tangibile alle casse delle società, ma contribuivano ad alleggerirne i bilanci alla voce “perdite”. L’operazione è semplice, ai limiti dell’ovvio. La società “X” vende alla società “Y” il giocatore “Tizio” per un miliardo, ma acquista dalla stessa società il giocatore “Caio”, sempre per un miliardo. Ognuna delle due squadre ha realizzato una plusvalenza di un miliardo, senza spostare materialmente nemmeno un centesimo, ma iscrivendo in bilancio – grazie all’ipervalutazione del giocatore ceduto – un introito “virtuale” che è ossigeno per i conti in rosso. I costi sostenuti per l’acquisto, al contrario, non incidono direttamente sull’esercizio in cui è stata realizzata la plusvalenza: trattandosi di beni ammortizzabili, essi verranno ripartiti in più anni. Un giochetto contabile ripetuto all’infinito, con un vortice di scambi in serie che non risparmia nessuna squadra e che quasi sempre, quando è fittizio, riguarda giocatori a fine carriera o di nessun impatto sul pubblico, prelevati dalle aree più marginali e misconosciute della “rosa” – sempre molto ampia – della formazione.

Storicamente, la prima plusvalenza incrociata fittizia fra grandi squadre risale alla stagione 1998-1999: lo scambio fu architettato da Lazio e Milan e fruttò a ciascuna delle due società una plusvalenza di circa 10 miliardi di lire. La Lazio cedette al Milan l’attaccante Alessandro Iannuzzi, il Milan cedette alla Lazio il centrocampista Federico Crovari. Iannuzzi, arrivato a Milano nel gennaio 1999 non giocò neppure un minuto, fu spedito sei mesi dopo a Reggio Calabria e successivamente a Monza e Messina. Crovari ebbe a Roma eguale destino: senza aver giocato mai in serie A, fu trasferito a metà del 1999 a Treviso e l’anno seguente a Vincenza.

Si tratta, insomma, dell’esempio classico della plusvalenza fittizia incrociata: uno scambio senza nessuna finalità tecnica e realizzato a prezzi enormemente superiori alla valutazione corrente dei giocatori coinvolti. Da allora, la politica degli “scambi” è proseguita con una escalation inarrestabile, nel frenetico – quanto vano – tentativo di porre un argine, almeno virtuale, alle voragini contabili dei bilanci societari.

A conferma della valenza crescente del pianeta-calcio nel costume nazionale e della sua importanza sotto l’aspetto economico, va citato il decreto legge approvato d’urgenza dal Governo Berlusconi nel dicembre 2002, poi convertito in legge dal Parlamento il 21 febbraio 2003. Il decreto – significativamente definito dai mezzi di informazione “spalmadebiti” - nasce in virtù delle pressioni esercitate da tutti i grandi club di serie A e di serie B, allarmati dal progressivo deflagrare delle proprie perdite di bilancio. La nuova norma consente di calcolare nuovamente il valore del patrimonio calciatori, ovvero il valore dei diritti di utilizzo delle loro prestazioni. La differenza fra la cifra iscritta a bilancio e il nuovo calcolo genera ovviamente una perdita, considerati gli eccessi nelle valutazioni all’atto degli acquisti: ma tale perdita non deve essere più contabilizzata

interamente nell’esercizio in cui essa affiora, bensì può essere “spalmata”

nell’arco di dieci anni.

Una sorta di “falso in bilancio legalizzato”, come ebbe a definirlo il prof.

Victor Ukmar, uno dei maggiori tributaristi italiani nonchè ex presidente della “Co.vi.soc.”, la commissione di vigilanza sulle società di calcio.

Una norma che ha sollevato anche l’interesse della Commissione europea:

nel novembre del 2003 è stata formalmente aperta la procedura d’infrazione contro l’Italia. Infrazioni sono state ipotizzate sia dal Commissario alla concorrenza, Mario Monti, che da quello al mercato interno, Frits Bolkestein, mettendo sotto accusa l’irregolarità degli aiuti di Stato, non consentiti dalla normativa comunitaria, e la violazione del codice civile quanto al modo di redigere i bilanci.

1.5. L’AUTODIFESA DEL MONDO DEL CALCIO ED IL CALCIO