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I NUOVI CARATTERI DEL LAVORO INDIPENDENTE NEL CONTESTO ITALIANO

In questo capitolo in cui si è cercato di illustrare le principali dinamiche riscontrabili all’interno del mercato del lavoro indipendente. La lettura che ne emerge è alquanto eterogenea, pertanto, l’obiettivo del prossimo paragrafo è quello di fornire un’interpretazione di sintesi, che metta ordine nel quadro finora descritto, anche attraverso le chiavi di lettura fornite dalle recenti trasformazioni del lavoro.

Le analisi proposte da alcuni autori (Barbieri 1999; Fellini 2010; Ranci 2012) classificano i lavoratori indipendenti in base a due dimensioni principali: da un lato l’aspetto “imprenditoriale” dall’altra “l’autonomia organizzativa”. L’indicatore che definisce la prima caratteristica è la presenza di lavoratori alle dipendenze ovvero la possibilità e la capacità di utilizzare il lavoro altrui, organizzando la produzione e lo scambio di beni e servizi. Da questo punto di vista, quindi, i lavoratori 108Ad esempio il Rapporto sulla coesione sociale (Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali 2013) evidenzia come nel 2012, tra i collaboratori esclusivi che erano stati avviati nel 2000, il 7,7% svolgeva un’attività di lavoro autonomo.

indipendenti possono essere classificati come a “carattere imprenditoriale” o a “carattere individuale”. L’aspetto interessante è che tra i primi rientrano non solo gli imprenditori in senso stretto ma anche i professionisti e i lavoratori autonomi che impiegano almeno un dipendente: come è stato evidenziato nel corso del capitolo essi sono prevalentemente di genere maschile, con un titolo formativo medio basso (anche se i professionisti e gli imprenditori sono più istruiti), con una precedente esperienza professionale. Al lavoro indipendente a carattere imprenditoriale viene contrapposto il lavoro indipendente individuale: questi appaiono più giovani (il 55 è under 45), più istruiti, più femminilizzati e più concentrati nel terziario non commerciale.

Per quanto riguarda la seconda dimensione analizzata (Tabella 22), ovvero l’autonomia, essa è definita in base al numero di committenti a cui fa riferimento il lavoratore indipendente e alla presenza o meno di vincoli organizzativi imposti dal committente/i (Barbieri 1999; Fellini 2010; Ranci 2012). Infatti, alcuni studi hanno messo in evidenza come non sempre il lavoro indipendente sia sinonimo di autosufficienza economica: con il termine economically dependent self-employed, infatti, L’Oecd (2000) identifica un’area grigia di lavoratori giuridicamente autonomi, ma a tutti gli effetti dipendenti dal punto di vista economico (e talvolta anche operativo-organizzativo) da un unico cliente. Si è in precedenza accennato a come tale situazione sia molto diffusa tra i collaboratori, tuttavia essa coinvolge in parte anche le forme più tradizionali di lavoratori autonomi e di professionisti a carattere individuale. Le interpretazioni relative alla mancanza di autonomia in questa tipologia di lavori sono molteplici. Alcuni si concentrano sull’analisi degli effetti della presenza di un unico committente, richiamando in parte le teorie relative ai costi di transizione (Williamson 1996). Infatti, da un lato la presenza di un unico cliente è indicatore di un rapporto stabile e basato su relazioni di fiducia da entrambe le parti. Al contrario la presenza di più committenti potrebbe veicolare più facilmente comportamenti opportunistici, con il rischio che la relazione si interrompa, generando quindi situazioni di discontinuità e frammentarietà: in questo senso, la capacità di sviluppare e non deteriorare il capitale relazionale in presenza di più clienti diviene una risorsa centrale per restare nel mercato.

Altre riflessioni si focalizzano sulle condizioni che si celano dietro rapporti contrattuali con diversi vincoli economici e organizzativi, mettendo in evidenza come spesso essi siano veri e propri lavori subordinati, la cui esternalizzazione presenta il vantaggio di non costituire costi fissi per l’azienda (Reyneri 2011). In quest’ottica, anche i contratti di outsourching e di subappalto permettono di trasferire parte del rischio di impresa sul lavoratore, in virtù della maggiore flessibilità offerta da tali posizioni: per questo motivo alcuni autori (Fellini 2010, Reyneri 2011, Ranci 2012) hanno sottolineato come i collaboratori -e in alcuni casi anche i professionisti e i lavoratori autonomi- possano trovarsi in condizioni lavorative più o meno simili a quelle dei lavoratori dipendenti.

Rispetto alle due dimensioni individuate (autonomia e carattere imprenditoriale/individuale), Ranci (2012) elaborando i dati Istat sulle forze lavoro evidenzia come, nel 2010, tra gli indipendenti a carattere individuale solo il 5% non avesse alcuna autonomia109: tuttavia esistono delle notevoli differenze a seconda della tipologia di lavoratore (Tabella 22). Infatti, il 44,4% dei collaboratori si trovava in questa situazione, mentre tra i professionisti e i lavoratori in proprio la percentuale diminuisce notevolmente (rispettivamente il 2,9% e l’1,5%). Analogamente anche gli indipendenti che godono di una parziale autonomia sono costituiti per il 50% da collaboratori, che prevalentemente si trovano in situazioni di monocommittenza.

Tabella 22 – Mappa analitica del lavoro indipendente: imprenditorialità, autonomia e posizione professionale (2010) Lavoratori indipendenti Di cui (%) (in migliaia) % ImprenditoriProfessionisti Lav. In proprio Collaboratori A carattere imprenditoriale* 1.524 28,5 100 16,3 30,6 -A carattere

individuale Completa autonomia**Parziale 1.676 31,3 - 46,6 31,5 5,0 autonomia Con vincoli organizzativi 1.038 19,4 - 17,6 22,4 11,5 Monocommittenti 846 15,8 - 16,6 14,1 39,0 Totale 1.884 35,2 - 34,3 36,4 50,6 Nessuna autonomia 265 5,0 - 2,9 1,5 44,4 Totale 3.825 71,5 - 83,7 69,4 100 Totale 5.349 100 100 100 100 100

* Con personale alle dipendenze.

** Nessuna: chi lavora per un solo committente, non sceglie né la sede né l’orario di lavoro. Parziale: chi o lavora per un committente o sceglie o la sede o l’orario. Completa: chi lavora per più committenti, sceglie sia la sede sia l’orario di lavoro.

Fonte: ns adattamento su elaborazioni microdati Istat, Forze lavoro , 2010, in Ranci (2012)

Dal punto di vista dell’autonomia organizzativa quindi gli indipendenti mostrano un elevato grado di articolazione ed eterogeneità, che si ripercuote anche in un’eterogeneità di posizioni sociali in cui numerosi studi collocano i lavoratori indipendenti. Cobalti e Schizzerotto (1994) tradizionalmente collocano i lavoratori indipendenti in due grandi gruppi:

 da un lato la borghesia indipendente composta da grandi imprenditori e liberi professionisti;

109Per autonomia gestionale nella Rilevazione sulle forze lavoro si considera la seguente scala: “nessuna” per coloro che non scelgono né la sede né l’orario di lavoro, “parziale” per coloro che scelgono o la sede o l’orario e “completa” per coloro che scelgono sia la sede sia l’orario.

 dall’altra la piccola borghesia composta da microimprenditori110e lavoratori in proprio che mescolano la proprietà dei mezzi di produzione con il lavoro diretto.

In questa classificazione Barbieri e Bison (2004) introducono una variante, individuando all’interno della piccola borghesia indipendente un’area definita dai lavoratori qualificati. Al tempo stesso, verso il basso, identificano un gruppo individuabile con il lavoro non qualificato, che potenzialmente si colloca sotto quello che può essere definito come ceto medio. Recentemente Ranci (2012) suddivide ulteriormente tali livelli, introducendo una maggiore articolazione nella categoria più elevata. Al di là delle diverse classificazioni, ciò che ci preme sottolineare è la grande articolazione di questo segmento di lavoratori, che vede uniti sotto la categoria dell’indipendenza veri e propri imprenditori, professionisti più o meno riconosciuti, ma anche bottegai, piccoli artigiani, commercianti e collaboratori. Si tratta di figure molto diverse in termini di reddito disponibile, prestigio sociale ad esso associato e caratteristiche del lavoro111, che hanno visto una riarticolazione interna a fronte di una relativa stabilità del numero di autonomi in Italia nel corso del tempo (Ranci 2012).

Le dinamiche descritte nel corso del capitolo possono quindi essere lette nel contesto della più ampia transizione del mercato del lavoro verso un’organizzazione produttiva di tipo post-fordista, che introduce elementi di individualizzazione e atomizzazione nelle organizzazioni. Ciò si concretizza in percorsi lavorativi discontinui e più flessibili sia nella tipologia sia nei contenuti dell’occupazione. In particolare quindi il mondo del lavoro si caratterizza sempre più per contratti meno uniformi e più individualizzati (Rizza 2003). D’altro canto ciò corrisponde, come numerosa letteratura mette in luce, ad un incremento generalizzato dell’autonomia organizzativa nei contesti lavorativi, anche dipendenti, per cui “la qualità dipende dal contributo del lavoratore stesso” (Accornero 2000). A questa maggiore autonomia, inoltre, si associa un più alto livello di interdipendenza tra soggetti che svolgono compiti e ricoprono ruoli diversi, generando di conseguenza una maggiore complessità nella quotidianità lavorativa.

110In questo studio Cobalti e Schizzerotto (1994) identificavano i microimprenditori con coloro che hanno meno di 14 addetti.

111 Rispetto all’eterogeneità e alla non univocità di questa tipologia di lavoratori è significativo richiamare quanto afferma Ranci (2012) sugli aspetti spesso contradditori richiamati nell’immaginario collettivo da piccoli imprenditori, lavoratori autonomi e liberi professionisti, Infatti, accanto a connotazioni positive -quali “lavoratori indefessi, operosi e intraprendenti, capaci di attraversare mari e continenti per realizzare i loro affari, piccoli ma concreti, generosi con i loro collaboratori […] disponibili ad aiutarsi nei momenti di difficoltà, perseguitati dallo stato, senza diritti e senza voce …”- ve ne sono altrettante di negative –“parassiti, individualisti, antistatali, evasori fiscali, guidati dall’opportunismo verso tutti, egoisti, meschini, separatisti per convenienza, corporativi, arroganti con i deboli e servili con i potenti, indifferenti per non dire amorali […] profittatori…”-.

Le interpretazioni relative a queste dinamiche si collocano su una dicotomia tra autonomia intesa da un lato come fonte di instabilità e precarietà –anche esistenziale- (Sennett 2001, Bauman 2003), dall’altra come opportunità e spazio di autorealizzazione (Catania, Vaccaro e Zucca 2004). Il diverso approccio dipende sia da variabili personali, legate al progetto di vita di ciascuno, sia da variabili esterne – legate alla natura istituzionale del mercato del lavoro. In particolare, un mercato del lavoro con scarse opportunità genera più insicurezza rispetto ad un contesto dinamico e propositivo (Rizza 2003). La correlazione tra continuità occupazionale e insicurezza non è quindi lineare, ma ad essa concorrono sia componenti di natura cognitiva (quali la percezione delle probabilità di perdere il lavoro e ritrovarlo successivamente), istituzionali (quali la condizione del mercato e la presenza di politiche attive del lavoro) e personali, legati la diversa valutazione delle conseguenze sulla propria vita della perdita del lavoro. In particolare, Anderson e Pontusson (2007) descrivono l’insicurezza lavorativa come affective job insecurity. Per quanto riguarda quindi la condizione dei lavoratori indipendenti è quindi opportuno precisare alcuni elementi, partendo dalla distinzione tra natura oggettiva e soggettiva della potenziale instabilità e insicurezza lavativa. Con il primo aspetto si intendono quei lavoratori che risultano instabili rispetto alle condizioni del proprio lavoro, mentre nel secondo viene chiamata in causa la percezione che ciascuno ha della sicurezza del proprio impiego (Ranci 2012). Come evidenziato anche in precedenza i lavoratori indipendenti appaiono meno a rischio di instabilità “oggettiva” rispetto ai dipendenti, in quanto la chiusura dell’attività costituisce l’estrema ratio in caso di difficoltà economica. Da questo punto di vista, inoltre, l’area della parasubordinazione e dei lavoratori meno qualificati è più penalizzata, poiché maggiormente condizionata dal contesto esterno. Tuttavia, analizzando la percezione di sicurezza del proprio lavoro, gli indipendenti si ritengono mediamente meno sicuri della stabilità del proprio lavoro rispetto ai dipendenti: ciò è dovuto alla natura stessa del lavoro indipendente, che vede connaturato in sé l’elemento del rischio (Ibidem).

Le profonde trasformazioni che hanno investito il mondo del lavoro sono state descritte da Borghi attraverso uno schema che incrocia due assi di polarizzazione (Figura 10). Sull’asse orizzontale si trova la dimensione attinente al contenuto e alle condizioni concrete in cui il lavoro si svolge (asse autonomia – eteronomia): infatti, come è stato più volte evidenziato nel corso del capitolo, si può far riferimento al grado di autonomia del lavoratore in termini di ampiezza della committenza e del livello di inserimento in un’organizzazione. Questo non corrisponde necessariamente con quanto definito a livello giuridico e contrattuale: non tutti i lavoratori con un’occupazione formalmente indipendente hanno un’ampia autonomia nell’organizzare il proprio processo lavorativo. È chiaro, infatti, che saranno i professionisti, i commercianti e gli artigiani ad avere con più probabilità una vasta clientela, mentre il “lavoro autonomo di seconda generazione” (Bologna e Fumagali, 1997) composto da professionisti non tutelati da ordini, collaboratori

autonomi, partite iva, presenta spesso gradi di autonomia limitati, lavorando dove i committenti sono pochi o anche uno solo. Quest’ultima condizione, inoltre, è valida anche per i coadiuvanti familiari. Sull’asse verticale, invece, si sviluppa il continuum che si riferisce alla situazione occupazionale degli attori sul piano formale e contrattuale, in cui gli estremi sono il lavoro tradizionale indipendente e il lavoro subordinato (Borghi 2000, Borghi e Rizza 2006).

Figura 10 – Trasformazioni della natura e delle forme del lavoro

Fonte: ns. adattamento da Borghi, Rizza (2006, 8)

Pur con la dovuta astrazione, lo schema di sintesi richiama la difficoltà nel descrivere dei tipi ideali puri di lavoro, giacché vi sono continui sconfinamenti tra i vari quadranti: sempre più le combinazioni tra le due dimensioni sono diversificate. In particolare, Borghi e Rizza evidenziano la progressiva contaminazione tra il quadrante C, che si rifà all’ideale fordista del lavoro dipendente, e i quadranti B e D, che rappresentano le diverse forme di lavori atipici, tra indipendenza e parasubordinazione. Al tempo stesso, però, alla luce di quanto illustrato nel corso dell’intero capitolo è plausibile anche il passaggio inverso. Da un lato i confini delle forme classiche del lavoro indipendente e autonomo si sono progressivamente allargati verso la dipendenza organizzativa ed economica. Dall’altra, alcune tipologie specifiche di lavoratori dipendenti da diversi punti di vista si indirizzano verso una maggiore autonomia e indipendenza. Una condizione occupazionale formalmente autonoma quindi può convivere con una sostanziale dipendenza dal committente nell’organizzazione dei tempi e delle modalità del proprio lavoro, dall’altra un’attività subordinata o parasubordinata potrebbe avere autonomia

Indipendente

Subordinato

Eteronomia Autonomia

A B

gestionale e operativa tale da essere assimilabile a un lavoro autonomo, senza il rischio d’impresa.

Nel tentativo di ricomporre la complessità del lavoro indipendente Panichella (2013) propone una tipologia in cui la dimensione verticale è data dal grado di regolazione del mercato in cui sono inseriti i lavoratori indipendenti: infatti, come è stato evidenziato in precedenza, esistono diversi livelli di riconoscimento sociale e legislativo in base alla tutela, ad esempio, da parte degli ordini professionali e delle associazioni di categoria. Una seconda dimensione considerata da Panichella (2013) è il grado di qualificazione. Si tratta di una tipologia utile per comprendere in che ambito si muoverà la ricerca empirica, presentata nel capitolo finale di questo lavoro. Infatti, la varietà di soggetti presi in considerazione rientra prevalentemente nell’ambito della “microimpresa tradizionale” e delle “nuove professioni e microimprese innovative”. Di conseguenza il lavoro parasubordinato che, di fatto, non costituisce attività imprenditoriale, e i professionisti che nelle forme classiche presentano – pur con le dovute distinzioni richiamate nel corso del capitolo – un caso a sé stante, non sono stati considerati ai fini della ricerca.

Figura 11 – Tipologia di lavoratori indipendenti.

Grado di qualificazione

+

+

Livello di regolazione

_

Professioni tradizionali Micro impresa tradizionale (artigianato, commercio)

Nuove professioni e microimprese

innovative Lavoro parasubordinato

N. Machiavelli

Capitolo terzo

Strumenti e politiche per la diffusione

dell’imprenditorialità

Il presente capitolo mira a mettere in luce lo stato dell’arte riguardo agli strumenti e alle misure finalizzate alla diffusione dell’imprenditorialità nel contesto italiano. Come è stato illustrato nel primo capitolo, la rivitalizzazione dello spirito imprenditoriale costituisce uno degli obiettivi perseguiti dall’Unione Europea nell’ambito della programmazione 2020. Come evidenziano numerosi autori, il declino economico di molti territori è attribuibile alla diminuzione delle risorse imprenditoriali: una società incapace di generare nuovi imprenditori o in cui il flusso di nuova imprenditoria tende a rallentare, si impoverisce (Pontarollo 2007). Per questo motivo, le istituzioni pubbliche sono sempre più attente ad inserire nelle loro agende strumenti formativi ed educati volti a creare un clima favorevole per lo sviluppo dell’imprenditorialità, accanto a misure concrete finalizzate al sostegno delle nuove imprese.

I percorsi di formazione e accompagnamento imprenditoriale vengono spesso indicati come una strategia efficace di rafforzamento della cultura imprenditoriale (Drucker 1985). Infatti, nonostante sia un’opinione comune che l’imprenditorialità e lo spirito imprenditoriale siano elementi ascritti nel carattere e nella personalità degli individui, diversi autori (Brockhaus 2001) sostengono il contrario ovvero che si possa imparare a diventare imprenditori. È chiaro che alcuni fattori come l’esperienza giocano in ogni caso un ruolo rilevante, ma anche la formazione può contribuire a fornire degli strumenti utili in tal senso, andando ad agire su aspetti legati sia alla motivazione sia alle competenze trasversali. Infatti, le capacità che comunemente vengono attribuite all’imprenditore sono legate alla presenza di

un’idea vincente, alla leadership, all’autonomia, alla tenacia, all’abilità nel coltivare relazioni sociali proficue nonché alla propensione al rischio e alla presenza di un certo capitale di investimento. Tuttavia, è raro che tutte le caratteristiche sopra evidenziate si concentrino in un unico soggetto: ciascuno avrà dei punti di forza, ma anche dei punti di debolezza da sviscerare e superare. Pertanto, le politiche possono agire a diversi livelli proprio su questi elementi di criticità, al fine di facilitare e supportare chi vede, nel proprio futuro lavorativo, un potenziale percorso come lavoratore autonomo.

E’ chiaro che una delle maggiori problematicità nell’avvio di un’impresa è data dalle barriere di ingresso e dalla difficoltà di accesso al credito, amplificate dall’attuale contesto di crisi economica. Ciò non toglie che sia rilevante anche agire sull’area delle competenze trasversali e sull’accompagnamento nelle fasi di startup e dei primi anni di avvio dell’attività. Infatti, la letteratura economica e aziendale mette da sempre in evidenza come i tassi di mortalità delle nuove imprese siano elevati, in particolar modo nei primi tre anni di attività, che solitamente vengono considerati il punto di volta per la stabilizzazione dell’impresa. Da questo punto di vista, quindi, attuare scelte strategiche adeguate appare particolarmente rilevante. Inoltre, un possibile supporto esterno deve prendere in considerazione attitudini, motivazioni e conoscenze tecniche del soggetto proponente. Questo permette di rafforzare la tenuta delle imprese, con delle ricadute anche nel lungo periodo in termini di crescita dimensionale e di fatturato delle stesse, che come è stato evidenziato anche nel secondo capitolo, costituiscono le maggiori problematiche del tessuto imprenditoriale europeo e in particolare italiano (Scarpetta 2003).

Nel corso del presente capitolo, quindi, ci si ripropone di fornire un inquadramento delle politiche sull’imprenditorialità così come descritte a livello europeo e nazionale. Successivamente ci si soffermerà su alcuni aspetti specifici riguardo la formazione imprenditoriale e il ruolo degli incentivi per l’imprenditorialità. Si farà riferimento ad alcuni specifici target a cui l’Unione europea indirizza questo tipo di politiche (donne, disoccupati e stranieri) nell’ottica di rendere la carriera imprenditoriale accessibile a tutti i membri della società.