• Non ci sono risultati.

Il settore manifatturiero

3. I DIVERSI VOLTI DEL LAVORO AUTONOMO E INDIPENDENTE

3.1. Il settore manifatturiero

Come evidenziato all’inizio di questo paragrafo, accanto ai commercianti, un secondo settore che storicamente ha caratterizzato il lavoro indipendente in Italia è quello manifatturiero (Ranci 2012). Anche in questo caso, l’evoluzione storica si caratterizza per la presenza costante di micro, piccole e medie imprese, che dagli anni Settanta si sono affermate soprattutto nelle aree dei distretti industriali. In particolare, esse si contraddistinguono nella produzione del cosiddetto made in Italy, dal settore alimentare, all’abbigliamento, all’arredo della casa, a quello dell’automazione.

In termini numerici (Tabella 7), secondo i dati censuari le imprese manifatturiere nel 2011 erano 422.067, per un totale di 3,9 milioni di addetti: di queste il 94,5% ha meno di 50 addetti, impiegando però il 55,1% degli operatori del settore. Negli anni Ottanta la loro crescita è avvenuta a discapito delle grandi impese e in concomitanza con l’indebolimento dell’impresa fordista, che vedeva l’emergere di

nuovi modelli organizzativi basati sulla flessibilità, sull’adattamento e sull’innovazione incrementale (Trigilia 1998). Da questo punto di vista, sul finire del ventunesimo secolo, esse hanno svoluto un ruolo fondamentale nel sostenere l’occupazione: ancora nel 2011, anche se in leggera diminuzione rispetto al 2001, all’interno delle piccole aziende manifatturiere opera il 55,1% degli addetti del settore, mentre poco meno di un terzo (il 21,9%) in medie imprese. Confrontando i dati a livello europeo, l’Italia si caratterizza non tanto per il maggior numero di micro e piccole imprese, quanto per il numero di addetti da esse impiegate. In particolare, mettendo a confronto l’Italia con gli stati europei aventi il maggior valore aggiunto nel settore manifatturiero, si nota che la differenza più consistente tra il contesto italiano e quello estero è proprio il numero di addetti impiegati nelle grandi aziende (cfr. parte inferiore della Tabella 7).

Tabella 7- Imprese e addetti del manifatturiero per classe dimensionale (Italia e principali stati europei).

0-9 10-49 50-249 250 e più Totale Totale

% v.a. IMPRESE Italia 2001 82,2 15,5 2,0 0,3 100 527.155 Italia 2011 82,4 15,2 2,1 0,3 100 422.067 Var. 2011/2001 -22,7 -21,5 -18,3 -17,2 -19,9 -105.088 UE (28 paesi) 81,7 14,1 3,4 0,8 100,0 2.130.827 Germania 61,3 28,8 7,9 2,0 100,0 207.847 Spagna 82,5 14,6 2,5 0,4 100,0 182.162 Francia 84,9 11,4 3,0 0,7 100,0 206.998 Regno Unito 75,9 18,0 5,1 1,1 100,0 122.650 ADDETTI Italia 2001 24,0 31,8 21,4 22,8 100,0 4.810.674 Italia 2011 24,2 30,9 21,9 22,9 100,0 3.891.983 Var. 2011/2001 -18,2 -21,4 -17,1 -18,7 -19,1 -918.691 UE (28 paesi) 14,3 20,1 25,4 40,1 100,0 304.000 Germania 7,0 16,2 24,5 52,3 100,0 7.135.934 Spagna 20,3 27,7 23,2 28,8 100,0 1.927.095 Francia 17,5 17,8 22,5 42,2 100,0 3.059.770 Regno Unito 9,9 20,7 28,3 41,0 100,0 2.510.840

Fonte: ns. elaborazioni su dati Eurostat (dati SBS) e Censimento dell’industria e dei servizi 2001 e 2011

Tuttavia lo sviluppo delle microimprese del manifatturiero non è lineare e già nella prima metà degli anni Novanta mostrava alcuni segnali di difficoltà, legati principalmente alla concorrenza estera e alla difficoltà per le piccole realtà di realizzare economie di scala (Ranci 2012). Inoltre, come evidenzia l’Istat la crisi del 2008 ha messo in evidenza tutte le criticità in cui possono incorrere le piccole aziende: solo tra il 2008 e il 2009, infatti, il numero di addetti impiegati nel settore manifatturiero è sceso del 5,4%, mentre il numero delle imprese del 4,5% (Istat 2011). Come evidenziato in precedenza, anche i dati censuari (Istat 2013) confermano il calo dell’occupazione nella manifattura, sintomo di una tendenza alla de-industrializzazione a fronte di una terziarizzazione del mondo produttivo: infatti, al contrario, il confronto intercensuario testimonia rispetto al 2001 un

aumento significativo degli addetti nel settore del commercio, alberghi e ristorazione e dei servizi alle imprese.

Tale processo di rallentamento della crescita industriale manifatturiera è dovuto a molteplici fattori. La letteratura evidenza come un ruolo primario sia stato rivestito dall’accresciuta competizione internazionale che ha spinto le imprese medio grandi verso politiche di esternalizzazione. In questo modo alcune imprese sono cresciute assumendo il ruolo di leader, mentre altre sono state rilegate a un ruolo di subfornitura (Grandinetti e De Marchi 2012). Queste ultime, caratterizzate da dimensioni ridotte, una maggiore precarietà e minore autonomia, sono state particolarmente penalizzate dal fenomeno della delocalizzazione della produzione attuata dalle imprese maggiori e dal contesto di crisi economica (Ranci 2012). Un secondo aspetto che caratterizza la piccola imprenditoria italiana è il radicato familismo che ha avuto un ruolo rilevante nella formazione e riproduzione del tessuto imprenditoriale in termini di attivazione di risorse finanziarie, relazionali e di competenze. Come rileva Bonomi (2013), infatti, per i piccoli imprenditori i legami familiari e di comunità sono stati fonte di sostegno e sviluppo vocazionale. Tuttavia, a partire dagli anni Novanta tale modello è entrato in crisi: nelle giovani generazioni, infatti, la spinta all’imprenditorialità si è indebolita. Il maggior livello di istruzione e l’elevata preparazione hanno fatto propendere le nuove coorti di lavoratori verso un lavoro di natura dipendente. Ciò vale non solo per le seconde generazioni che si allontanano dall’attività imprenditoriale familiare, ma anche per chi non ha nella famiglia di origine alcuna esperienza di lavoro autonomo ed ha maggiori difficoltà nel individuare i modelli di riferimento.

Nonostante ciò, la famiglia continua ad essere una facilitazione importante per l’avvio della carriera imprenditoriale, in quanto permette di attivare dei passaggi generazionali di tipo lineare (Ferraro e Marini 2005): in questo contesto alcuni studi hanno messo in evidenza come la successione non abbia effetti positivi sulla reddittività, al contrario del caso in cui i successori non appartengano alla stessa famiglia del fondatore (Cucculelli e Micucci 2008). Al di là delle questioni di merito sui fattori di successo o meno dei passaggi generazionali, ciò che preme sottolineare in questa sede è la problematicità di tale aspetto per le imprese italiane sia per l’età media degli impeditori sia per la mancanza nelle strategie di gestione di molte imprese di una linea definita per affrontare l’uscita dall’attività del capostipite80(Toschi 2013). Tutti questi elementi aumentano quindi notevolmente le probabilità di chiusura dell’azienda con conseguenti ricadute in termini di occupazione.

80Pur con dimensioni diverse, questo è un problema comune alle imprese europee. Infatti, se ne trova traccia fin dagli anni novanta in alcune raccomandazioni della Commissione Europea che evidenziano l’importanza di norme razionali ed efficienti per facilitare le successioni aziendali, soprattutto quelle di natura famigliare (Europea 2009). Anche successivamente nel 2008 con il Small Business Act auspica una semplificazione legislativa a maggiore supporto per le PMI nell’avvicendamento delle generazioni (Europea 2008).

Un ulteriore elemento critico rispetto alle dimensioni delle imprese italiane e alla loro gestione familiare riguarda la capacità di crescita delle stesse, sia in termini di volumi sia di innovazione: queste, infatti, sono in parte limitate dalle risorse finanziarie e gestionali della famiglia stessa (Ranci 2012). La dimensione familistica di molte imprese che era stata un punto di forza nel passato, presenta al tempo stesso elementi di resistenza nella propensione all’automantenimento e alla stabilità, non puntando quindi alla crescita di dimensione. Nel contesto attuale, le imprese italiane si muovono su un terreno difficile in cui la piccola dimensione costituisce uno degli elementi di maggiore criticità: infatti, oltre a quanto finora esposto, la piccola dimensione non favorisce l’accesso al credito, né attraverso il canale bancario, né attraverso incentivi e finanziamenti pubblici. Nel primo caso, le difficoltà maggiori si riscontrano nei livelli di standardizzazione e nelle limitazioni delle norme di concessione di finanziamenti; nel secondo caso, le problematicità fanno riferimento ai vincoli normativi e burocratici che definiscono le modalità di partecipazione a bandi pubblici e che spesso fanno desistere il piccolo imprenditore ancor prima di richiedere il finanziamento81(Ibidem).

Ma la persistenza dell’elemento familistico e di idealtipi imprenditoriali tradizionali non sono gli unici aspetti rilevanti nel panorama industriale italiano: infatti, Bagnasco e Storti (2008) mettono in evidenza come vi siano alcuni imprenditori che puntano soprattutto sull’innovazione, sull’aggiornamento delle tecniche di produzione e sulla ricerca di nuove nicchie di mercato, rispondendo in questo modo alle sfide della competizione globale dei mercati. Emerge quindi in questi casi una concezione più manageriale dell’attività imprenditoriale, con particolare attenzione alle strategie di marketing adottate per la realizzazione e la collocazione del prodotto sul mercato. Accanto a ciò, Grandinetti e De Marchi (2012) mettono in evidenza come vi siano alcune imprese dei distretti industriali che stanno operando un salto dimensionale, assumendo un ruolo dominante a discapito dei concorrenti locali e creando rete di imprese lunghe e transnazionali. In entrambi i casi, si evidenzia una graduale perdita di posizione da parte delle imprese che hanno minore autonomia nei confronti dei committenti e meno capacità concorrenziale.