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Le prime proposte del Tribunale genovese

1. Nascita del danno biologico

1.1. Le prime proposte del Tribunale genovese

L’incipit della vicenda interpretativa che ha portato negli anni ’80 alla formazione della categoria del danno biologico si può far risalire a circa una decina di anni prima, precisamente nel biennio che va dal 1974 al 1976. L’espressione “danno biologico” era diventata d’uso tra la dottrina che si occupava della responsabilità civile in seguito all’affermazione di un nuovo indirizzo giurisprudenziale che modificava i criteri di valutazione del danno alla persona tradizionali, inserendo tra le varie voci di cui si deve tener conto per l’accertamento dell’ammontare complessivo del danno anche la lesione alla salute del danneggiato. Le prime pronunce genovesi sul danno biologico sono il riflesso del conflitto tra due modelli interpretativi del medesimo fenomeno: si crearono infatti due orientamenti, uno che possiamo definire liberale perché auspicava un progressivo ampliamento dell’area della risarcibilità grazie all’inserimento nei parametri di valutazione della categoria del danno biologico, l’altro al contrario maggiormente restrittivo dal momento che era propenso a un restringimento della medesima area. Le pronunce del Tribunale di Genova riflettono temi e problemi che sono ancora oggi vivi nel dibattito sul ruolo e sulla funzione della responsabilità civile. Al di là dei casi concreti da cui poi nacquero le sentenze del ’74 e ’75, è interessante notare è che queste si occuparono non solo della possibilità di moltiplicare le ipotesi di applicazione dell’art. 2043 cod. civ.326

e di ridefinire la formula del danno ingiusto inglobando in essa contenuti nuovi e più ampi di quelli che le sono tradizionalmente riservati (nella specie, comprensivi della lesione al bene della salute), né si esaurirono in una più o meno auspicabile revisione dei parametri di valutazione del danno alla persona, ma investirono problemi decisamente di maggior portata quali l’applicabilità diretta delle norme costituzionali (sempre nel caso di specie, dell’art. 32 Cost.) alla disciplina dei rapporti privatistici e l’individuazione di criteri sulla base dei quali selezionare gli interessi di cui tener conto nel giudizio di responsabilità. La sentenza del 25 maggio 1974 in particolare è stata oggetto di dibattito in seguito alla risposta che diede la Corte d’Appello327

di Genova presso la quale era stata impugnata. Il

326 Art. 2043 cod. civ. “Risarcimento per fatto illecito.

Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

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giudice di secondo grado rileva l’incongruenza dell’indirizzo inaugurato dal Tribunale di Genova di una proposta di modifica delle tabelle di valutazione del danno in quanto operata sulla base di parametri “ispirati a una concezione materialistica dell’uomo e del lavoro”, in cui l’uomo è considerato come un vero e proprio “bene economico”. La Corte d’appello non negò che il sistema di valutazione corrente dovesse essere modificato, anzi, essa sottolinea la necessità di modificare e correggere i metodi di valutazione del danno alla persona. Al di là di questa concessione tuttavia la critica che la Corte muove al giudice di primo grado si basa sull’illogicità del nuovo modello di valutazione e sulla contraddittorietà che si crea tra scopi e risultati. Non era possibile, secondo la Corte, far riferimento a una categoria di “danni biologici” classificata tra i danni extrapatrimoniali disciplinati dall’art. 2059 cod. civ. e poi stabilire un meccanismo di valutazione che traeva il proprio fondamento giuridico dall’art. 2043 cod. civ., né di conseguenza era immaginabile creare nuovi strumenti di tutela della persona e della salute individuale per poi utilizzare un sistema di valutazione che della persona fa un oggetto suscettibile di valutazione pecuniaria.

In realtà la critica del giudice d’appello poggia su di un equivoco di fondo: l’idea che per evitare una “mercificazione della persona” occorra rifuggire da ogni valutazione economica dell’uomo, non tenendo conto del fatto che ogni danno, anche non patrimoniale, deve per forza di cose essere monetizzato al fine di poter essere risarcito. Tuttavia bisogna considerare che il nuovo modello di valutazione del danno alla persona elaborato dal Tribunale di Genova conteneva un’argomentazione superflua che è stata opportunatamente criticata dalla Corte d’Appello; quella che, in riferimento al danno alla salute inteso come lesione di un bene di cui ciascun soggetto dell’ordinamento è titolare, si rifaceva alle teorie emerse sul danno morale per affermare che nell’ambito del danno risarcibile non si debbano calcolare soltanto i danni patrimoniali, né operare una distinzione tra danni patrimoniali e danni morali (secondo il combinato disposto dell’art. 2059 cod. civ. e dell’art. 185 c.p.328), ma occorre anche individuare un tertium genus, cioè il danno “extrapatrimoniale” nel quale ricomprendere tutti i danni non “patrimoniali” risentiti da un soggetto in seguito a un evento329. Di questa categoria residuale andava a far parte il danno biologico. Argomentare in termini di “danno morale” o “extrapatrimoniale”

328 Art. 185 c.p. “Restituzioni e risarcimento del danno.

Ogni reato obbliga alle restituzioni a norma delle leggi civili.

Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”.

329 G. A

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non era necessario, proprio perché è ciò che maggiormente ha esposto alle critiche del giudice di secondo grado: o si da al concetto di danno un significato più ampio di quello comunemente usato di sacrificio patrimoniale o si rischia di creare nell’area del danno risarcibile un eccessivo proliferare di categorie che fanno perdere di vista il significato concreto degli artt. 2043, 2056330 e 2059 cod. civ..