5.3 La prima macrofase
5.3.3 Anziani e valutazione
Nella pratica lavorativa dell’assistente sociale un altro passaggio considerato fondamentale in fase valutativa consiste nella conoscenza diretta dell’anziano, necessaria per capire il punto di vista del beneficiario dell’intervento stesso.
L’interazione tra l’assistente sociale e l’anziano avviene prevalentemente tramite la visita domiciliare. Si dà, quindi, importanza alla centralità dell’anziano da conoscere direttamente nel suo ambiente di vita e non solo tramite la rappresentazione che ne dà la persona che si rivolge al servizio che spesso è un parente, come emerge da questo racconto di un’assistente sociale:
155 Tra gli altri vedasi Parton e O’Byrne (2005) e in particolare il contributo di Milner e O’Byrne (2005).
156 Gli autori anglosassoni parlano di assessment che, benché qualora tradotto venga considerato affine alla valutazione, accentua maggiormente il carattere di accertamento di fatti, in vista di un giudizio discrezionale e una successiva presa di decisione ponderata (Folgheraiter, 1998: 288), mentre il termine valutazione sottolinea il processo di costruzione di significato attraverso il quale si esprime un giudizio
“Due nipoti mi parlano della zia, che vive da sola, e non è coniugata. Loro le sono affezionati perché sono cresciuti nell’appartamento collocato nello stesso condominio, al piano sotto. Mi riferiscono che ultimamente la zia si gestisce in modo ancora abbastanza autonomo, ma è peggiorata sotto il profilo mentale. Mi parlano addirittura di Alzheimer, in realtà, approfondendo, pare più una demenza senile. Non fa più le pulizie della casa è pressappochista nell’igiene che la riguarda e dicono che hanno già preso dei provvedimenti. Infatti, in passato, avevo parlato loro, quando la zia aveva rotto il femore, della realtà dei centri diurni. Loro si sono ricordati di questa risorsa e hanno attivato la frequentazione al centro diurno integrato dove la zia va tutti i giorni da lunedì a venerdì.
I nipoti portano una grossa preoccupazione sullo stato in cui la zia si trova a vivere: brucia pentolini, i vicini di casa dicono che lascia accesa televisione tutta la notte, il centro diurno sostiene che spesso arriva vestita un po’ trascurata, con cerniere rotte, bottoni mancanti. A volte perde il pulmino e va a piedi al centro diurno.
I nipoti non sono tranquilli, al di là della telefonata quotidiana e delle visite durante la settimana, riferiscono che non riescono a fare altro. Alla fine del colloquio decidiamo insieme che prendo i contatti attraverso il centro diurno. Vado lì, conosco la sig.ra e parlo anche con la responsabile che mi dà il quadro del centro diurno integrato anche con la parte sanitaria perché c’è un medico. Poi la presa in carico è un po’ da organizzare a seconda della situazione.
Qui era importante non farle perdere un giorno di centro diurno che è in realtà la situazione assistenziale principe in questo momento” (I, 2 :1).
Come si evince dal caso sopra riportato, gli strumenti utilizzati in fase valutativa non sono rigidamente determinati in termini procedurali, ma vengono declinati nella situazione specifica, rispetto alla peculiarità del caso, come emerge anche dalle seguenti parole di un’assistente sociale in un’intervista:
“Poter dire di avere una gamma di strumenti professionali da poter agire flessibilmente per arrivare a un obiettivo dà un po’ più di libertà e creatività al lavoro e funge da stimolo.
Il librone delle procedure non è mai stato un dictat così rigido, è stato preso come una linea che indica la procedura standard, cioè, in genere si fa così, si fa il colloquio, poi la visita domiciliare, si conoscono i figli, poi se tu prima fai una cosa o l’altra non fa niente, l’importante è che tu rispetti una serie di cose: in primo luogo l’adesione del diretto interessato al progetto, non è che si fa il progetto con il figlio e l’anziano non lo sa.
Inoltre è fondamentale avere tutti gli elementi per fare la valutazione: se si attiva un intervento di assistenza domiciliare non si può non essere andato al domicilio perché se la richiesta è di un’assistenza per l’ igiene e la casa è pulitissima qualche dubbio ti viene” (I, 2:6).
Benché ciò possa avvenire in modo differente, vi sono aspetti condivisi dal gruppo professionale all’interno del servizio che portano, non solo alla definizione del lavoro di presa in carico in relazione alla tipologia di servizio erogato, ma anche alla
ripetizione delle stesse azioni nel tempo che hanno portato alla stabilizzazione della pratica di presa in carico. Tale pratica può essere considerata, seguendo la teorizzazione di Gherardi, una pratica di comunità, ossia una pratica dove la ripetizione delle “azioni situate nel tempo fanno emergere un contesto in cui le relazioni tra persone e tra persone e mondo materiale e culturale si stabilizzano e divengono sostenute normativamente” (2008a:61).
La conoscenza diretta dell’anziano da parte dell’assistente sociale è un elemento che riveste un’importanza fondamentale nella valutazione della situazione soprattutto in assenza di un caregiver (Costa, 2009). Spesso si tratta di situazioni non semplici da approcciare e che richiedono agli assistenti sociali la messa in atto di almeno due strategie: la prima si realizza con l’aiuto di una persona che facilita il contatto con l’anziano (intermediario), la seconda prevede la messa in atto di accorgimenti che favoriscono il diretto mantenimento del rapporto tra l’assistente sociale e l’anziano stesso157.
La prima strategia pone attenzione alle modalità relazionali per favorire l’inizio del rapporto tra l’assistente sociale e la persona anziana (Zini, Miodini, 2006:122); infatti l’intermediario viene scelto sia per il suo privilegiato rapporto con l’anziano, sia per la fiducia che riveste nei confronti dell’intervento dell’assistente sociale 158 . E’ fondamentale, infatti, che l’intermediario oltre ad essere un punto di riferimento per l’anziano, sia convinto che la presenza l’assistente sociale possa essere di aiuto alla persona anziana. Questi due aspetti si rilevano essenziali perché facilitano l’inserimento dell’assistente sociale nella vita dell’anziano; in questo senso, l’intermediario ha una funzione di facilitatore nel rapporto tra l’assistente sociale e l’anziano. Inoltre, può favorire anche una migliore comunicazione tra i due, in altri termini può assumere un ruolo di traduttore: può facilitare la comprensione del linguaggio utilizzato dall’assistente sociale nel rivolgersi all’anziano. Può capitare, infatti, che l’assistente sociale, senza accorgersi, utilizzi un linguaggio o dei termini che l’anziano non conosce e di fronte ai quali può spaventarsi. In questi casi, il contributo dell’intermediario-traduttore può essere davvero molto prezioso per spiegare all’anziano il significato di
157 Di norma gli assistenti sociali sostengono che l’utilizzo di queste strategie funziona con gli anziani che spesso soffrono di solitudine e/o con gli anziani che rifiutano l’aiuto da parte di coloro che appartengono alla rete di relazioni sia parentale che amicale o di vicinato. Solo in alcuni rari casi gli assistenti sociali dichiarano di aver tentato molte strategie e di non essere riusciti a entrare in contatto con le persone.
158 L’ intermediario può essere il segnalante, ma può anche essere un’altra persona che l’assistente sociale individua con il segnalante. In ogni caso, l’interazione tra il segnalante e l’assistente sociale è
alcune parole che il professionista utilizza. Ciò permette all’anziano di partecipare attivamente alla visita domiciliare, di esserne maggiormente coinvolto e magari anche tranquillizzato. Anche nella comunicazione tra anziano e assistente sociale il traduttore riveste un ruolo cruciale: può aiutare l’utente ad articolare la domanda di aiuto in termini di necessità, ma anche desideri. Capita, infatti, che gli anziani fatichino a riconoscere i propri bisogni, o magari se ne vergognano. In questi casi, il traduttore può aiutare a “dar voce” a ciò che l’anziano pensa e che magari gli ha confidato più volte durante il loro rapporto, come emerge da questo caso:
“Si presenta al servizio sociale la nipote della sig.ra Bruna su consiglio del medico di base per chiedere al servizio sociale di aiutare la zia. Recentemente ha notato un decadimento cognitivo nella zia in seguito al quale anche il loro rapporto si è deteriorato. Inoltre la zia lamenta di essere continuamente derubata: dopo che ha prelevato i soldi in banca sostiene di non trovarli più. Dato che il rapporto tra la zia e la nipote non è buono, alla richiesta dell’assistente sociale di conoscere la zia, la nipote propone di coinvolgere il medico di base, unica persona in cui la zia ha fiducia. L’assistente sociale contatta telefonicamente il medico di base e su manifestata disponibilità di quest’ultimo, gli propone di effettuare insieme una visita domiciliare. Il medico presenta l’assistente sociale alla sig.ra Bruna che l’accoglie calorosamente. Durante la visita domiciliare, quando la sig.ra Bruna chiede all’assistente sociale qualcuno che la possa aiutare nella gestione della casa, l’assistente sociale le propone “la custode sociale”. Tale linguaggio è sconosciuto alla sig.ra Bruna che si irrigidisce e ripete “custode?” L’intervento del medico permette di spiegare all’anziana che “custode significa solo che è una sig.ra, che non va pagata, che le manda il comune per qualche ora per aiutarla in quello che ha bisogno.” Il medico aiuta anche la Sig.ra Bruna a spiegare meglio la sua richiesta all’assistente sociale: infatti quando l’anziana chiede qualcuno che la aiuti per la casa, il medico le ricorda come spesso si sente sola e l’aiuta a parlare del problema della solitudine” (N, 18:3,2).
Una volta che è stata favorita la conoscenza tra l’assistente e l’anziano, viene messa in atto la seconda strategia che si articola in due pratiche di intervento: dapprima si facilita l’emersione dei punti di forza e successivamente, si individuano le difficoltà. La valorizzazione delle capacità dell’anziano (prima pratica) è descritta nella seguente nota osservativa:
“Gli assistenti sociali e gli ausiliari socio-assistenziali chiamano corteggiamento quella particolare interazione tra professionista e utente dove l’assistente sociale rinforza le capacità della persona.
Dopo aver osservato la casa, l’ordine e la pulizia dell’ambiente e della persona, l’assistente sociale coglie gli elementi “che funzionano” e li verbalizza all’anziano.
Il corteggiamento consiste nel “fare i complimenti” di ciò che funziona: se la casa è in ordine, se la persona è ben vestita e curata. Inoltre il corteggiamento consiste nell’ascoltare, nel mostrare interesse per quello che la persona dice, ma anche nel stimolare il racconto della storia di vita dell’anziano magari a partire da elementi di realtà (come una fotografia presente in casa e in vista)”
(N, 20:3).
Si crea così un clima di ascolto e dialogo tra assistente sociale e anziano dove prevale la propensione a capire il mondo dell’anziano, i suoi interessi, i suoi vissuti, la sua organizzazione di vita. Tali attenzioni, generalmente, fanno piacere alle persone anziane che lamentano spesso di non trovare qualcuno con cui parlare e di sentirsi poco ascoltati (Mémin, 2002).
Il secondo momento trova il suo focus nell’individuazione delle difficoltà a partire dalle quali si propone l’aiuto, come si evince da questo stralcio di intervista:
“Durante la visita domiciliare si vede come è la sig.ra, come si orienta nel suo ambiente, come deambula, se l’ alloggio è trascurato o se è pulito. Ci si può agganciare all’ambiente di vita e capire cosa la persona riesce o non riesce a fare da sola. Si può andare a vedere il bagno, magari c’è una vasca con un bordo altissimo e si può dire: “Ma sig.ra ce la fa ad entrare nella vasca?” E magari la Sig.ra, dopo essere stata messa di fronte a questa evidenza, può dire che non ce la fa, o magari può dire più facilmente come fa a fare il bagno, se lo fa in piedi, se lo fa fuori dalla vasca, ti fa vedere come, o se sono presenti barriere architettoniche. Magari si scopre che fa fatica a fare il bagno da sola e allora si può proporre un’ausiliaria (ASA) per aiutarla e di andare a presentargliela la settimana successiva” (I, 1:5).
L’osservazione diretta della persona nel suo ambiente di vita, definisce la base dell’interazione tra l’assistente sociale e l’anziano; in questo senso, il domicilio dell’anziano diviene il luogo privilegiato per effettuare la valutazione a partire da dati di realtà.
La rilevazione di queste strategie porta a cogliere il sapere concreto che caratterizza la pratica lavorativa dell’assistente sociale, ossia il saper fare riferito all’azione, il sapere pratico, cioè quel sapere che si materializza in comportamenti, in capacità di azione, in conoscenza-in-azione ossia competenza che “contiene” il sapere tecnico (Gherardi, Bruni, 2007). Tale sapere è fortemente intrecciato al contesto in cui si sviluppa, è un sapere tacito e pratico appreso sul lavoro, che vede confermato ciò che è emerso anche in altri studi (Lorenz, Trivellato, 2010), in cui si rileva che nella pratica lavorativa degli assistenti sociali vengono valorizzati accanto ai saperi disciplinari acquisiti tramite lo
studio, anche questo tipo di sapere. Ciò è particolarmente importante in tutte quelle situazioni in cui l’anziano non si fida di nessuno. In questi casi l’assistente sociale facilita l’acquisizione della fiducia nei suoi confronti cercando di “agganciarlo”, in altri termini cercando di diventare un estraneo di fiducia (Pittaluga, 2000). L’aggancio è quindi un momento fondamentale per la costruzione di una base fiduciaria con l’anziano come racconta un’assistente sociale:
“La Sig.ra Sara viene conosciuta al servizio sociale in seguito alla segnalazione dei vigili del fuoco che, intervenuti nell’incendio della casa, hanno riscontrato la presenza di una situazione igienico-ambientale precaria. L’assistente sociale e l’ausiliaria socio-assistenziale (ASA) conoscono la sig.ra Sara alle dimissioni dall’Ospedale, perché durante l’incendio era stata accompagnata dai vigili del fuoco in Pronto Soccorso. La pessima igiene personale fa ipotizzare al servizio sociale anche la necessità di un intervento che aiuti la sig.ra a lavarsi. Alla proposta dell’intervento, la sig.ra Sara rifiuta di lavarsi e spesso insulta l’ASA anche con ingiunzioni offensive che rendono maggiormente difficoltoso istaurare una relazione di aiuto.
A casa, gli operatori notano la presenza di vestiti “belli”, di marche rinomate, che anche se la sig.ra Sara non indossa, fanno ipotizzare un interesse per l’aspetto estetico.
Si pensa così di provare a proporle non tanto di mandarle l’ASA per “aiutarla a fare il bagno”, ma di “mandarle una ricercata estetista per farsi bella”. Di fatto l’ASA ha competenze specifiche anche relative al taglio unghie e pedicure e tale proposta è più facilmente accettata dalla sig.ra Sara.
Così, a partire dai piedi, l’ASA riesce ad avere accesso alla cura delle ulcere sulle gambe e successivamente, con gradualità, al corpo della sig.ra Sara effettuando l’intervento di igiene. Questo aggancio ha permesso alla fatidica estetista di accompagnare in tribunale la Sig.ra Sara quando il giudice la convoca per la nomina dell’amministratore di sostegno” (N, 12:3,12).
Per agganciare l’anziano capita che l’assistente sociale lavori per mesi mettendo in atto strategie già sperimentate in passato e funzionanti, ma anche inventando, con creatività, ciò che può essere utile nella specifica situazione, come racconta un’assistente sociale:
“Qualche anno fa ho seguito la Sig.ra Carola e ho fatto lavoro di strada. La seguivo per strada, sapevo che andava in un bar e mi facevo trovare al bar. La sig.ra Carola era sola, non aveva parenti e si barricava in casa mettendo la legna sulla porta. Una mattina, al bar, le ho chiesto come avrei fatto ad entrare se stava male e mi ha detto che dovevo sfondare la porta e entrare. Lì ho capito che voleva essere aiutata” (I, 4:3).
L’individualizzazione dell’intervento se si concilia bene con l’utilizzo creativo di risorse, rischia anche di portare gli interventi di servizio sociale a esperienze
temporanee, sporadiche, che per quanto funzionanti nella specifica realtà territoriale, tendono ad essere relative solo a pochi casi. Si tratta, infatti, spesso non solo di pratiche che nascono in specifici contesti, ma anche legate alla disponibilità del singolo assistente sociale a attivare risorse alternative a quelle istituzionalizzate. In queste situazioni emerge il sapere pratico, legato allo spirito solidaristico, che caratterizza la pratica lavorativa dell’assistente sociale (Gui, 2008) anche con caratteristiche di creatività, che proprio perché legata alla singolarità del caso di cui ci si occupa, la rendono difficilmente trasferibile e generalizzabile in altri contesti lavorativi. Ciò può portare a mettere in atto comportamenti che gli assistenti sociali stessi non considerano consoni alla rappresentazione che hanno del loro ruolo professionale e, in alcuni casi, anche a non rispettare le regole formali dell’Ente, come sostiene un’assistente sociale durante l’intervista:
“Con la Sig.ra Sara ho fatto cose da non fare: una volta le ho dato un passaggio sulla mia auto, poi mi sono trovata a andarle a comprare i vestiti al mercatino dell’usato perché dopo l’incendio, quando la casa non era agibile, lei non aveva nulla per vestirsi.
Un giorno le ho portato la convocazione per l’appuntamento intanto che passeggiavo con il mio bambino: non aveva il telefono e bisognava comunicare con i bigliettini.
Non mi sentivo tanto nel ruolo… ma cosa fai, se serve lo fai. Poi la responsabile mi ha richiamata perché per trasportare le persone si usa l’auto del comune e non la propria auto personale” (N, 18:3,11).
Si nota, quindi, a conferma di quanto emerso in recenti ricerche (Lorenz, Trivellato, 2010), un forte grado di identificazione con il lavoro di aiuto e una predisposizione a spendersi senza risparmio alla ricerca non tanto di obiettivi strumentali, ma più espressivi, probabilmente finalizzati a una realizzazione personale anche attraverso l’attività professionale (Facchini, 2010).