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3. Lo studio del lavoro come pratica

3.7 Le teorie di riferimento

Questo modo di vedere la pratica lavorativa trova le sue radici teoriche in diverse scuole di pensiero, in particolare nella fenomenologia sociale, nell’interazionismo simbolico e nell’etnometodologia. Il lavoro non è, quindi, più visto nella prospettiva storico-culturale che varia al variare delle variabili sociali e economiche (Reyneri, 2005), ma considerato secondo una prospettiva di analisi che trova la sua origine nella definizione fenomenologica di lavoro di Schutz (1979). Secondo questo autore il lavorare è costituito:

“dall’azione nel mondo esterno basata su un progetto e caratterizzata dall’intenzione di portare a compimento lo stato di cose progettato attraverso movimenti corporei” (Schutz, 1979:186).

Schutz (1979) conferisce un ambito privilegiato al mondo lavorativo e concepisce il lavoro come attività orientata verso il mondo, ancorata nello spazio, intesa a portare a compimento un progetto che presuppone il corpo umano: il lavoratore non è più concepito come “forza lavoro”, ma come corpo materiale e simbolico. Inoltre, per Schutz, il soggetto non è semplicemente “nel mondo”, ma proprio perché ne fa parte,

costituisce il mondo stesso. Il soggetto è, infatti, inconoscibile nella sua realtà ultima, ma si mostra alla coscienza all’interno delle categorie in cui essa lo inquadra; tra queste vi è la categoria della vita quotidiana in cui il mondo del lavoro acquista, per il sociologo austriaco, la maggior rilevanza. Studiare la pratica lavorativa alla luce della fenomenologia sociale significa vedere il lavoro per dirla con Schutz come “un mondo

alla mia portata” ossia un’attività che, proprio perché inserita in un contesto, costituisce il contesto stesso. In altre parole, significa dare rilevanza al contesto in cui la pratica lavorativa è esercitata come luogo non solo dove il soggetto è inserito, ma anche costituito dal soggetto: il contesto di lavoro, così inteso viene concepito come una risorsa per l’azione.

Anche per l’interazionismo simbolico, con riferimento a Blumer (2008), il contesto è la cornice entro la quale ha luogo l’azione sociale. Secondo l’autore, infatti, gli esseri umani agiscono nella realtà in funzione del senso che le attribuiscono; l’azione è quindi il risultato di un processo continuo di attribuzione di senso. L’individuo inserito in un contesto sociale e, quindi, anche in un contesto lavorativo, costruisce valutazioni, considera i vantaggi e gli svantaggi delle sue azioni, negozia, allinea la propria azione con quella degli altri, cerca di dirigere le impressioni che gli altri hanno di lui, di rappresentare un ruolo, di influenzare la definizione della situazione da parte degli altri. Costruisce, così, il modo in cui gli altri possono agire in tale circostanza e il modo in cui egli stesso potrebbe agire. Vale a dire che, secondo Blumer, l’azione si forma e si costruisce attraverso l’interpretazione della situazione. Per comprendere l’agire sociale è quindi necessario esplorare il processo mediante il quale diversi individui adattano reciprocamente diverse linee d’azione in base alle loro interpretazioni del mondo. L’interazione simbolica è quindi un processo continuo di interpretazione delle azioni degli altri e di azione sulla base di tale interpretazione. Secondo questa teoria i significati sono costruiti attraverso il processo di interazione sociale che il singolo ha con i suoi simili e sono elaborati e trasformati in un processo interpretativo messo in atto da una persona nell’affrontare ciò in cui si imbatte. Ciò significa che in questa prospettiva, le caratteristiche strutturali come la cultura, il sistema sociale, la stratificazione sociale, i ruoli, pongono le condizioni per l’azione ma non la determinano; in altri termini, si pone enfasi sulle attività dei soggetti che interagiscono e che possono condizionare i mutamenti del contesto in cui sono inseriti. Anche nelle teorie riconducibili all’interazionismo simbolico, nate con Mead nel campo della psicologia sociale, poi estese alla sociologia e che concentrano l’interesse sull’interazione tra numeri limitati di persone, acquista fondamentale importanza la valenza interpretativa del soggetto.

Sempre in questa corrente teorica, un altro riferimento rilevante per gli studi sul lavoro è costituito da Hughes (1958), che concepisce il lavoro come interazione sociale. Un esempio che permette di cogliere la posizione di questo autore, è lo studio della divisione del lavoro che, tradizionalmente, viene considerata come la condizione prima del lavoro, dalla quale discendono i ruoli lavorativi e le responsabilità individuali e collettive. Negli studi di Hughes (1958) la divisione del lavoro non consiste solo nel differenziare i compiti tra le persone, ma implica l’interazione; in altri termini, lo studioso, propone una prospettiva in cui l’interazione tra le persone in ambito

lavorativo si sviluppa continuamente. Proprio tramite l’interazione si interpreta la realtà nella quale si agisce e si genera così il lavoro come prodotto collettivo. Tra gli studi che si collocano in questa corrente vi è anche quello di Strauss et al. (1963) che rileva l’importanza del negoziato, delle procedure di compromesso che caratterizzano la vita organizzata negli ospedali psichiatrici. Per giungere all’obiettivo comune del personale che lavora in Ospedale (infermieri, medici, volontari) di “rimandare i pazienti nel

mondo esterno in forma migliore” (1963 trad.it. 1980:196), l’autore mette in evidenza come di fronte a ogni specifico paziente nascano, tra il personale interno all’ospedale, pareri discordi che necessariamente danno luogo a un complicato processo di negoziazione. Tale processo investe, a diversi livelli, i rapporti tra il personale infermieristico, tra medici e infermieri, tra professionisti e coloro che prestano la loro attività nell’ospedale senza possedere specifiche qualifiche.

Anche Becker (1951), appartenente alla corrente interazionista, nello studio condotto tra i musicisti jazz sottolinea i compromessi, anche creativi, a cui i musicisti arrivano quando hanno a che fare con il pubblico, con i committenti e nelle relazioni esistenti tra i diversi musicisti che suonano insieme un brano musicale.

Sulla base di questo approccio teorico, la pratica lavorativa dell’assistente sociale viene vista come costruita e definita processualmente in base a ciò che i diversi soggetti, individuabili nell’assistente sociale, in altri professionisti e nelle persone che si rivolgono ai servizi, effettuano interagendo tra loro. Di conseguenza, appare come un processo continuo di interpretazione delle azioni degli altri e di azione basata su tale interpretazione: i significati sono costituiti attraverso il processo di interazione sociale tra i soggetti coinvolti e sono elaborati e trasformati in un processo interpretativo (Blumer, 2008). Acquistano notevole rilevanza la capacità di comunicare, di interagire, di interpretare le situazioni e l’attenzione viene posta sul piano cognitivo più che su quello materiale.

La tesi di Schutz (1979) è ripresa anche da Berger e Luckmann (1969, trad.it. 1995) che si inseriscono così nella tradizione fenomenologica. Secondo questi autori occorre rivalutare il punto di vista che porta generalmente a dare per scontata la “realtà” della nostra vita ordinaria come se fosse la “realtà” per eccellenza e utilizzarla come unità di analisi delle attività e delle esperienze che occupano la maggior parte del nostro tempo; in altri termini, si tratta di indagare il mondo della vita quotidiana, ambito, al quale, di solito, non si presta attenzione. Si mette così in luce come si possa considerare

“reale” solo ciò che le persone comunicanti condividono in ogni momento quando, cioè, vi è una corrispondenza tra i significati del soggetto conoscente e i significati di chi condivide la relazione (Berger e Luckmann (1969: 44). La materialità e l’oggettività della realtà lasciano spazio alla partecipazione soggettiva di ciascun soggetto alla costruzione della vita quotidiana, l’accento si pone sulla competenza pragmatica a collocarsi in modo appropriato nel proprio contesto, quindi, anche in quello lavorativo e a formare un bagaglio sociale di conoscenze che consente di usare gli schemi di tipizzazioni richiesti per le principali routine. Si tratta, in quest’ultimo caso, di una conoscenza utile finché non sorge un problema che non può essere risolto. Applicato al lavoro dell’assistente sociale, la sociologia costruttivista attribuisce alla pratica lavorativa il valore soggettivo e interattivo riconosciuto da ogni contesto sociale non solo nel rapporto tra la persona e il suo ambiente di vita (Passera, 1985), ma anche nel rapporto tra il professionista e i vari attori con cui interagisce. Professionisti assistenti sociali, persone che si rivolgono ai servizi, operatori di differenti professionalità, in questa luce vengono visti come co-costruttori della realtà, come co-artefici della definizione dei problemi e dell’identificazione delle soluzioni. In questo senso, la pratica lavorativa dell’assistente sociale si costruisce e si definisce tra i soggetti interagenti che partecipano all’attribuzione di significati (Parton, O’Byrne, 2005; Milner, O’Byrne, 2005).

E’ a partire dagli anni Sessanta del Secolo scorso, che la scoperta della conoscenza quotidiana come fenomeno sociologico acquista importanza anche tramite un’attività di ricerca sul campo. Garfinkel (in Dal Lago et al., 2002) ritenuto il fondatore dell’etnometodologia, ha fornito alcune indicazioni su come analizzare le attività più comuni: tutti i dettagli della vita ordinaria, anche quelli considerati apparentemente banali, possono infatti, secondo lo studioso, diventare rivelatori di dinamiche che rendono possibile l’ordine sociale. Per l’etnometodologia, il lavoro è una competenza esperta e le pratiche sociali sono costruite come procedure, metodi e tecniche che gli attori sociali mettono in scena con differenti modalità legate al contesto. Negli studi sul lavoro, la corrente etnometodologica è considerata innovativa perché pone attenzione a aspetti trascurati dagli studi sul lavoro e identificabili nel “cosa le persone concretamente fanno quando lavorano e come passano il loro tempo al lavoro” come pratiche che gli individui impiegano per riportare l’ordine sociale.

E’ tramite l’interesse per ciò che gli attori fanno e dicono di fare in situazioni, in contesti, in occasioni, che si possono scoprire le norme che regolano la vita lavorativa,

ma anche le regole che gli attori aggirano, modificano o violano. Proprio per questo, lo studioso suggerisce al ricercatore di assumere una distanza da quello che si ritiene “ovvio”, per cercare di comprendere come il mondo quotidiano viene socialmente costruito. La pratica lavorativa è, quindi, per l’etnometodologia un complesso organizzato di pratiche esperte che va studiato partire dalla logica della pratica situata e riflessiva. La ricerca etnometodologica si approccia alle competenze esperte e quindi anche a quelle degli assistenti sociali, nella loro esecuzione in contesti di lavoro e di interazione. Le situazioni, infatti, possono essere costruite in modo diverso dagli attori e il significato delle regole e del contesto a cui si applicano non sono stabili, ma si elaborano reciprocamente (Giglioli, Dal Lago, 1983:19)107. Esplicitate le radici teoriche della prospettiva proposta in questa ricerca, si intende ora procedere, nel prossimo capitolo, con l’illustrazione di uno studio che può essere considerato esemplare ai fini di questo lavoro.