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2. La professionalità nel servizio sociale

2.3 Le teorie: dalle origini all’attualità

2.3.3 Sviluppi recenti

L’evoluzione del dibattito relativo alla professionalità ha portato a evidenziare nei suoi più recenti sviluppi due filoni di pensiero: coloro che vedono la professionalità dell’assistente sociale fortemente collegata all’acquisizione di conoscenze teoriche (Dal Pra Ponticelli, 1985, 1987, 1991; Campanini, 1999, 2008a; Allegri, 2000) e coloro che, senza sminuire la valenza teorica, valorizzano l’operatività come luogo in cui si costruisce e arricchisce la professionalità (Fargion, 2002, 2009a; Sicora, 2005; Marzotto, 2002; Dente 2000). La differenza tra i due filoni non sta tanto in una contrapposizione, quanto invece nella rilevanza assegnata alla centralità assunta, in quello che si è individuato come primo filone dagli aspetti teorici e nell’altra corrente da altri aspetti da sempre considerati, seppur in modo meno rilevante, come caratterizzanti l’agire professionale dell’assistente sociale. Tra gli ultimi, si riportano, in questa sede, quelli ritenuti più significativi.

Un primo tema in cui si è sviluppato recentemente il dibattito sulla professionalità dell’assistente sociale è relativo all’importanza della riflessività, come aspetto che connotante la professionalità. In un altro contributo (Riva, 2009) si è messo in evidenza come la riflessività, nel servizio sociale, ha assunto prevalentemente tre direzioni. Una prima direzione, definita tradizionale, trova le sue radici in autori classici del servizio sociale (Richmond, 1962; Perlman, 1965), il ruolo dell’assistente sociale è quello di potenziare la capacità riflessiva nell’altro e, solo quando quest’ultima viene meno, la prospettiva si amplia con l’introduzione della co-riflessione tra assistente sociale e utente finalizzata al fronteggiamento della situazione di disagio (Folgheraiter, 1998, Marzotto, 2002). Un’ altra direzione, denominata etico-giuridica, vede l’assistente sociale operare come agente di cambiamento per favorire la giustizia e l’equità sociale (Dominelli, 2005). In questa accezione, l’agire riflessivo dell’assistente sociale parte da un diretto confronto con l’utente che permette di ri-orientare la professione decostruendo le politiche e le pratiche inadeguate con lo scopo di favorire un maggior benessere delle persone stesse. In questo senso, l’essere riflessivo dell’assistente sociale porta a assicurare i diritti di cittadinanza alle persone escluse dalla società. Una terza e ultima direzione è quella denominata ermeneutica: la riflessività si sviluppa nella costruzione di senso e di significati comuni sulla relazione tra assistente sociale e utente e sulla sua evoluzione (Parton, O’Byrne, 2005, Taylor e White, 2005).

Si può quindi notare che gli inviti alla riflessività sono molteplici nella letteratura del servizio sociale e vedono l’interrogarsi sull’operato come momento qualificante della professionalità finalizzato al miglioramento dell’intervento in termini di efficacia. A questo proposito Dal Pra Ponticelli parla di “riflessione critica sul proprio lavoro alla luce di schemi di riferimento teorici” (1987:78) inteso come riflessione sull’azione sia con colleghi o anche con l’aiuto di un consulente esterno.

L’accezione di riflessività maggiormente caratterizzante il pensiero nel servizio sociale italiano è la capacità del professionista di pensare criticamente e confrontare la riflessione teorica con la visione che l’utente ha, le sue aspettative, le soluzioni che propone (Gui, 2004; Sicora, 2005; Pieroni, Dal Pra Ponticelli, 2005)74. Tra i teorici che hanno sviluppato il tema appare prezioso il contributo di Sicora (2005, 2006), che in una ricerca condotta sulla formazione permanente agli assistenti sociali giunge a sostenere che:

“saper attivare processi di riflessività e, conseguentemente, di continua crescita professionale è una delle caratteristiche essenziali di un’assistente sociale in grado di affrontare le continue sfide che emergono dai contesti operativi in divenire”(Sicora, 2006:59).

L’idea di professionalità riflessiva risiede nella consapevolezza che gli assistenti sociali non si trovano ad affrontare situazioni definite in modo chiaro, ma, al contrario situazioni incerte, confuse, definite dai soggetti coinvolti e che vanno trasformate in situazioni in cui sia possibile intervenire rendendo il problema affrontabile. Tale concezione trova la sua radice nella nuova epistemologia della pratica di Schön (1993) che individua come “professionista riflessivo” colui che conosce nell’azione, riflette

sull’azione e nel corso dell’azione (1993:76-80). Per l’autore, una pratica riflessiva permette di prestare maggior attenzione al comportamento esperto che spesso è dato per scontato e recuperare le competenze tecniche e professionali che spesso, nell’interpretazione della pratica, vengono tralasciate perché l’enfasi viene posta maggiormente sulle dimensioni emotive e interpersonali.

74 Gui sostiene che la riflessività sta nell’utilizzo in modo critico degli assunti di una teoria o un modello, nel capire la realtà operativa, nel confronto con l’utente e con i dati di realtà: “in un processo circolare di

influenzamento reciproco tra pensiero e azione, di influenzamento relazionale tra operatore e utente che permetta di analizzare criticamente una situazione e trovare gli aggiustamenti necessari per intervenire professionalmente su di essi, attraverso un costante processo di riflessività in base allo schema metodologico del realismo critico (2004:142).

In questo modo di vedere, la professionalità non può essere limitata all’utilizzo della “razionalità tecnica” perché si è chiamati a fare costantemente i conti con l’imprevisto, il nuovo, il problematico (Schön, 2006). La categoria della professionalità, vista in questi termini, è estesa da Fargion (2009a) come “professionalità riflessiva e critica”, ossia come impegno dell’assistente sociale sia dal punto di vista sia teorico, sia dal punto di vista pratico nel mettere in discussione teorie e modi di vedere esplicitando assunti, credenze e i loro collegamenti con le dinamiche sociali.

Un altro tema rilevante attiene al “sapere pratico” ossia quel sapere per agire caratterizzato da un “rigore senza esattezza” (Botturi, 2002:31) dove i punti di forza sono la conoscenza per l’azione e la spendibilità in situazioni concrete. Si tratta, quindi, di un sapere legato all’esperienza, che per Botturi assume la caratteristica di un “sapere tipologico” perché attinge dalla cumulazione di esperienze concrete e procede nella costruzione di tipologie con il coinvolgimento attivo del professionista:

“Un tipo è un singolare che ha caratteri tali da ricomprendere in sé molti possibili individui. Infatti il sapere tipologico ha sempre una componente figurale, non procede per essenze concettualmente ben distinte, ma per figure ricomprensive… il sapere pratico non è il sapere dell’universale in astratto, né quello del puro particolare, ma il sapere di figure tipiche che servono ad orientare il rapporto operativo al particolare” (2002: 32-33).

Nel servizio sociale il sapere pratico, accanto al sapere teorico, è da sempre stato ritenuto aspetto fondante la professionalità; basti pensare durante la formazione alla professione all’importanza dell’esperienza del tirocinio, ambito privilegiato in cui l’esperienza pratica è vista come sorgente di apprendimento (Raineri, 2004, Gui, 1999). Il fare contingente e operativo che ha caratterizzato la disciplina del servizio sociale nella tensione all’agire in situazione alla ricerca di un “come fare” (Gui, 2009:237), unita alla consapevolezza che il lavoro dell’assistente sociale si fonda su episodi concreti, ha condotto la professione, fin dalle origini, a salvaguardare accanto a un sapere teorico, un sapere pratico, orientato a un “saper fare” in modo competente, centrato sul “come fare” nel contesto organizzativo di appartenenza75. Il sapere pratico

75 Gherardi e Bruni (2007:42) nello studio del sapere pratico come connotante le pratiche professionali, rilevano come caratteristiche salienti di questo tipo di sapere: l’orientamento pragmatico, finalizzato al fare, al risolvere il problema e la temporalità specifica emergente dalla situazione; entrambi aspetti facilmente riscontrabili nel servizio sociale.

Scrive Gui “Più di quanto sia accaduto per altre professioni storicamente consolidate, la disciplina

professionale del servizio sociale pare essere cresciuta nella tensione all’agire in situazione, alla ricerca del “know how” (come fare) contingente ed operativo, orientato – come si legge negli atti storici

del servizio sociale è un quindi un sapere in azione, in un contesto organizzativo in cui saperi e processi sono interconnessi e mutualmente indipendenti.

A questo si collega un altro aspetto collegato al sapere pratico e tipico della conoscenza professionale è legato alla natura tacita della conoscenza (Polanyi, 1958) per cui il professionista è in grado di riconoscere complesse entità, ma riesce a comunicare solo in parte i criteri che sottendono agli atti di comprensione. L’autore individua così, accanto a una conoscenza sostantiva che si caratterizza per l’essere esplicita e trasmissibile, anche l’esistenza di una conoscenza tacita, incarnata nelle azioni. Quest’ultima dimensione, proprio a partire dalla teorizzazione di Polanyi, è applicata al servizio sociale da Kondrat (1992:249) che giunge a dimostrare come anche nel servizio sociale, la conoscenza tecnica è solo una parte, per quanto valida, della conoscenza professionale, ma che vi è anche l’esistenza di una conoscenza costruita nel corso della pratica professionale, aspetto considerato fin dai primi sociologi delle professioni come aspetto connotante le professioni in quanto tali 76.

Un terzo tema è relativo alla centralità assunta, in alcuni studi, dalla creatività e dall’immaginazione come componenti della professionalità dell’assistente sociale (Fargion, 2002, Dente, 2000).

Applicando il modello degli stili di pensiero di Mannheim alle rappresentazioni del lavoro degli assistenti sociali, Fargion (2002) rilegge il rapporto tra gli aspetti teorici del servizio sociale e l’operatività cogliendo, accanto all’impostazione teorica, anche un agire basato sull’istinto e sull’intuizione, afferente quindi a aspetti creativi che nascono e si sviluppano nei contesti di lavoro (Facchini, 2010).

Il dibattito attuale riconosce così, accanto a una professionalità connotata principalmente da aspetti teorici che comunque rimangono essenziali e rilevanti, anche altri aspetti ascrivibili alla natura operativa del lavoro professionale dell’assistente sociale.

Internationale de Service Social, Paris, 1929 4^sez. (atti), citata in AA.VV., Le scuole di servizio sociale

in Italia, Fondazione Zancan, Padova 1984, p.150.

76 Per Wilensky (1964) è proprio la misura tacita della conoscenza professionale che conferisce un’atmosfera di mistero alle professioni e contribuisce a spiegare, da un lato, il conseguimento dell’esclusività della giurisdizione, dall’altro lato il tradizionalismo. La base ottimale di conoscenza per una professione, per questo autore è una combinazione di sapere intellettuale e pratico, dove una parte è esplicita e si può apprendere tramite lezioni e testi di studio; una parte è implicita e si può acquisire tramite la pratica guidata e l’osservazione. Scrive Wilensky: “Gli aspetti teorici della conoscenza

professionale e gli elementi taciti del sapere intellettuale e di quello pratico si combinano nel rendere necessaria una lunga formazione e nel persuadere il pubblico del mistero che avvolge il mestiere” (1964,