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Pratica lavorativa e lavoro situato

3. Lo studio del lavoro come pratica

3.4 Pratica lavorativa e lavoro situato

Nello studio delle pratiche lavorative l’accento viene messo: sul “fare”, sul fine pratico che emerge e sul risultato integrativo delle attività e delle operazioni del “fare” per giungere al fine dentro modalità riconosciute, sostenute socialmente e riprodotte costantemente (Gherardi, Nicolini, 2007).

Le pratiche lavorative contengono almeno tre aspetti: in primo luogo costituiscono la modalità di ordinare il flusso del lavoro, in secondo luogo sono caratterizzate dalla ripetizione (una pratica è tale in quanto continuamente ripetuta da differenti attori e in questo senso, socialmente sostenuta) e, in ultimo, sono connesse con la funzione di riproduzione della società.

Per quanto concerne il primo aspetto, possono essere viste come unità di analisi del lavoro in quanto costituiscono delle modalità che permettono di segmentare il lavoro in sottosistemi di attività coerenti, di codificarlo in modalità riconoscibili, di ordinarlo. Nell’ambito dei servizi sociali, ad esempio, il “passare un caso” a un collega costituisce una situazione codificata e riconoscibile che non vincola le modalità di esecuzione. Anche la ripetizione (secondo aspetto) è un elemento caratterizzante le pratiche lavorative che si collega, da un lato, allo sviluppo di maggiori competenze, dall’altro

lato, al mutamento come rispecificazione per adattamento alle contingenze. I due aspetti non si pongono in contrapposizione ma sono collegati: la riproduzione quotidiana di un’attività genera una dinamica interna, nella comunità di coloro che la praticano, finalizzata a un costante miglioramento, ma anche a un continuo adattamento al cambiamento qualora mutino le condizioni. In altri termini, proprio la caratteristica della ripetizione, ossia l’essere praticata affina il “saper fare” generando sempre una maggior competenza in relazione al contesto di riferimento. Ad esempio, in uno studio condotto recentemente nel campo della riproduzione assistita (Perrotta, 2008) emerge chiaramente come eseguire uno spermiogramma sia un’attività molto più complessa, che è stata affinata dai biologi proprio nella continua pratica, del semplice conteggio di spermatozoi. Le conoscenze rilevanti per riconoscere un “buon seme” vengono così distinte, codificate prima ad occhio nudo e poi tramite il microscopio, trasferite ad altri professionisti del settore tramite la scheda di analisi, interpretate alla luce degli strumenti utilizzati e ancorate alle pratiche quotidiane.

Infine, la stabilizzazione delle pratiche per ripetizione porta in sé due temi rilevanti: da un lato la riproduzione competente della società (terzo aspetto), dall’altro quello che Gherardi chiama “abitualizzazione” (2008b:41). Il primo tema è collegato all’ordine sociale: il lavoro incessante e creativo nel realizzare le pratiche sociali fondamentali nella vita lavorativa contribuisce a creare un ordine sociale che, nella continua riproduzione, costituisce la trama della società. In altri termini è attraverso l’azione e l’interazione nelle pratiche che la vita sociale si organizza, si riproduce e si trasforma. L’altro tema, quello dell’abitualizzazione, vede la stabilizzazione strettamente correlata all’economizzazione di tempo e di energie che le pratiche sociali familiarizzate portano con sé. In altre parole, le pratiche continuano ad essere praticate perché sono sostenute socialmente da una comunità che le ritiene non solo efficaci, ma anche eticamente e esteticamente appropriate. Questo modo di vedere le pratiche sociali sottende l’idea che, all’interno delle differenti comunità professionali, vi sia un modo considerato “giusto” di operare sostenuto dai valori fondanti la professione, dai dibattiti sulla dimensione etica e negoziato con la legislazione vigente, che genera, all’interno delle stesse comunità, differenti scuole di pensiero spesso contrastanti anche tra loro sulle modalità “più giuste”. Ciò significa che all’interno delle differenti comunità di pratiche, gli aspetti professionali sono sostenuti e riprodotti grazie alla negoziazione quotidiana di aspetti etici ed estetici che vengono espressi nello svolgimento del lavoro, fermento che rende la pratica dinamica pur nella sua ripetitività.

Negli studi basati sulla pratica il lavoro è considerato un’attività situata, ossia localizzata nel tempo, nello spazio, in un contesto, e mediata nelle forme di conflitto e collaborazione dalle persone e dalle tecnologie, che si realizza grazie a pratiche discorsive. Definire il lavoro come attività situata per Gherardisignifica:

“focalizzare l’analisi sociologica del lavoro sulle pratiche lavorative quali modalità di azione e conoscenza che emerge in situ dalla dinamica delle interazioni” (2007:23).

Il lavoro “situato” può essere quindi definito come un’attività collettiva che si svolge in un tempo e in un luogo circoscritti e assume tutta la variabilità connessa al contesto; esprime quindi una razionalità contestuale cioè una forma di azione e di ragionamento pratico legato al contesto, all’interazione con gli altri, all’oggetto di lavoro. In altri termini, il contesto non è visto come contenitore dell’azione, ma come situazione in cui gli interessi degli attori e le opportunità dell’ambiente si incontrano e si definiscono reciprocamente. La pratica lavorativa, di conseguenza, viene considerata la modalità di azione e di conoscenza che emerge dalla dinamica delle interazioni contestualizzate. Lavorare è, quindi, un processo collettivo perché l’esperienza condivisa nelle pratiche lavorative produce identità collettiva e sedimenta quel sapere pratico che viene trasmesso attraverso i racconti che rafforzano lo spirito comunitario e incorporano l’esperienza rendendola trasferibile oltre la temporalità dell’avvenimento. Considerare il lavoro come attività mediata significa riprendere il concetto di mediazione: la stessa radice etimologica della parola “mediazione” rimanda all’ “essere nel mezzo” e quindi anche a mettere in relazione e in comunicazione, infatti una mediazione si stabilisce quando “l’essere nel mezzo” è uno strumento, una risorsa per la stessa relazione 102.

102 Il concetto di mediazione deriva dalla teoria dell’attività, nata nella psicologia culturale, per dar conto della natura culturale dei processi psicologici. Vygotskij (1990), ritenuto il padre fondatore di questa teoria, sostiene che i processi psicologici possono essere compresi solo alla luce dei fattori culturali e degli strumenti attraverso cui sono mediati come ad esempio il linguaggio. Successivamente Engeström (1995, 1999) estende la teoria dell’attività alla comprensione e alla descrizione del mondo materiale e quindi anche dei contesti lavorativi dando centralità all’oggetto che media la relazione del soggetto con il mondo lavorativo.