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Professionalità come uso consapevole di sé

2. La professionalità nel servizio sociale

2.4 Etica e professionalità

2.4.1 Professionalità come uso consapevole di sé

L’uso consapevole che l’assistente sociale fa di sé nella pratica professionale è un altro aspetto in cui il tema della professionalità è trattato nella letteratura internazionale fin dalle origini della professione per la natura relazionale tipica del lavoro(Overstreet, 1925 in Young 1935; Young, 1935; trad. it.1952; Hamilton, trad. it. 1953, Perlman, 1960 e Hollis trad. it. in Dal Pra Ponticelli 1985). Questo aspetto può essere suddiviso in due dimensioni: una emotivo-affettiva come necessità per il professionista di aver consapevolezza dei propri bisogni; e una relazionale che mette l’enfasi, da un lato, sul desiderio di aiutare dell’assistente sociale come autentico interesse nei confronti della persona; dall’altro lato, sull’importanza che questo

84 Il peso delle culture della meritevolezza sedimentate nelle pratiche di intervento dei servizi sociali è evidenziato da anche in: Bosco N., Negri N. (a cura di) L’abile povero tra diritti e obbligazioni, Inserto in Animazione sociale n.6/7, 1997, pp31-67; De Leonardis O. Principi, culture e pratiche di giustizia

desiderio sia percepito come genuino dalla persona che chiede aiuto, in altri termini sul coinvolgimento.

Per quanto concerne la prima dimensione, la necessità di dominare le proprie emozioni, di essere consapevoli dei propri bisogni e di esercitare un controllo del coinvolgimento emotivo è presente da sempre nel servizio sociale. Nella letteratura del servizio sociale italiano molti autori pongono l’enfasi sulla consapevolezza dell’assistente sociale nel suo coinvolgimento come persona (Milana, Pittaluga, 1983; Cellentani, 1997; Allegri, 1997, 2000; Zini, Miodini, 2006) e considerano che l’assistente sociale possa sviluppare un agire relazionale autentico nel ruolo di professionista solamente se ha raggiunto una profonda consapevolezza di sé. Secondo questi autori tale percorso non è solo relativo alla storia personale e lavorativa che il professionista ha vissuto, ma va sempre ri-attualizzato, perché il quotidiano incontro con la sofferenza può risvegliare ricordi e ferite che sembravano dimenticate. Per questi autori, la supervisione è considerata come luogo per eccellenza di consapevolezza critica dell’agire (Cellentani, Ramoscelli, 1988), infatti come Allegri sostiene permette:

“una distanza equilibrata dall’azione per analizzare con lucidità affettiva85 sia la dimensione emotiva, sia la dimensione metodologica dell’intervento, per ricollocarla in una dimensione corretta con spirito critico e di ricerca”

(1997:35).

Per altri autori, invece, la dimensione emotiva che emerge nella supervisione professionale è solo una delle modalità per giungere all’uso consapevole di sé (Dal Pra Ponticelli, 1987, 1991; Ferrario, 2004). In questo filone di pensiero, mentre per alcuni l’uso consapevole di sé è una premessa per la pratica del servizio sociale (Falck, 1998 trad.it.1994), per altri, Ferrario (2004) accanto alla supervisione rivestono una fondamentale importanza anche altri strumenti professionali. Infatti l’autrice riconosce, accanto a un livello emotivo che riprende da Pincus e Minahan (1973) come capacità di essere consapevoli e saper gestire i propri bisogni, altri due livelli: uno legato alla relazione con i colleghi come capacità di lavorare in abbinamento con altri, dove evidenzia l’importanza del lavoro in équipe e della supervisione come momenti di confronto per i professionisti che permettono di non essere soli nella gestione della

85 Con l’espressione lucidità affettiva l’autrice intende la ricerca costante di un equilibrio consapevole tra razionalità ed emozione, tra pensiero e azione, tra capacità progettuale e di intervento e capacità

complessità86; l’altro relativo al modo di porsi che l’assistente sociale assume in termini di accoglienza/rifiuto, ma anche trasmissione di carica, esaurimento, motivazione. Per quanto concerne la seconda dimensione, individuata in quella relazionale, anche il desiderio di aiutare dell’assistente sociale e la percezione di questo desiderio da parte dell’utente è al centro di un vivace dibattito. L’ importanza di una sensibilità emotiva intesa come desiderio genuino di aiutare e calore umano (Hamilton, 1953), anche tramite la “scoperta di qualcosa che si possa ammirare nei modi o nell’esperienza dell’utente” (Overstreet, 1925:289, Young, 1935 trad.it.1952:72) sono aspetti fondamentali per i primi teorici di servizio sociale e considerati come base per stabilire un autentico rapporto con l’altro, tanto che questo tipo di coinvolgimento umano connota non solo un atteggiamento professionale, ma è anche visto come necessario ai fini dell’efficacia dell’intervento stesso. Sul fronte dell’utenza le ricerche effettuate (citate in Fargion, 2006) rilevano come proprio la dimensione del coinvolgimento, inteso come percezione che l’utente ha dell’impegno del professionista nell’aiuto, è già di per sé rilevante fonte di aiuto per le persone che si rivolgono ai servizi. Si vuole qui evidenziare come, negli anni, vi sia stata la tendenza ad associare professionalità con la capacità di “prendere le distanze” nel rapporto con l’utente. Dominelli (2005:95) nota come proprio “l’espressione dei sentimenti” sia poco ri-conosciuta agli operatori sociali di oggi e rileva come ci sia accordo sul mantenere una “certa distanza” nel rapporto professionale. Anche nel servizio sociale italiano si rileva la messa in atto di questa tendenza come strumento di difesa del professionista di fronte alla sofferenza della persona che chiede aiuto, che dà solo l’illusione di un coinvolgimento emotivo minimo, ma ostacola l’essere nella relazione del professionista, aspetto quest’ultimo, che connota l’unico vero percorso possibile ai fini dell’aiuto (Cellentani,1991,1997). Inoltre, pur nel riconoscimento dell’importanza che l’assistente sociale abbia un autentico desiderio di aiutare la persona che chiede aiuto, vari autori contemporanei (Cellentani,1997, Campanini, 2008a, Dominelli, 2005) hanno rilevato come rischio presente nei servizi sociali il prevalere il bisogno dell’assistente sociale ad aiutare e non

86 Scrive Ferrario “Nella realtà si ricercano delle condizioni di lavoro che garantiscano la riflessione e

la critica, mentre riducono l’ansia, ed aiutino ad adottare una produttiva distanza, che non si traduca in distacco: ci si riferisce al lavoro di abbinamento con altri operatori, al confronto-verifica all’interno di un’équipe in cui siano presenti oltre a competenze complementari, una disponibilità allo scambio, o ancora al ricorso alla supervisione professionale, che rompono l’isolamento professionale.” (1999:103). Sul lavoro di gruppo vedasi anche:

Bianchi E.(a cura di) Servizio sociale e lavoro con i gruppi, Franco Angeli, Milano, 1993; Bolocan P. L., Gervasio C. V., Viciani B. A., Il lavoro di gruppo, Carocci, Roma, 1998; Zini M.T. , Miodini S. Il gruppo. Uno strumento di intervento nel sociale, Carocci, Roma, 1999; Ferrario F. Il lavoro di gruppo nel servizio sociale. Prospettive teoriche e metodi di intervento, Carocci,

il porsi come opportunità per l’utente di essere aiutato, favorendo così da un lato una dipendenza dell’utente dal servizio e dall’altro il rischio di burn out per il professionista. L’autentico desiderio di aiutare, unito alla consapevolezza dei propri bisogni e alla capacità di gestione delle proprie emozioni, sono quindi aspetti fondanti la professionalità dell’assistente sociale e come tali essenziali per istaurare un rapporto professionale corretto con le persone che si rivolgono al servizio coniugando, nell’interesse per l’altro, la dimensione della professionalità e quella dell’ umanità.

PARTE SECONDA