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I mutamenti del lavoro nella società della conoscenza

3. Lo studio del lavoro come pratica

3.2 Gli studi del lavoro

3.2.1 I mutamenti del lavoro nella società della conoscenza

Le debolezze che hanno messo in crisi le metodologie di studio del lavoro basate sull’analisi dei compiti nel rapporto tra lavoratore e macchina, possono essere sintetizzate, senza un ordine di priorità, fondamentalmente in due questioni.

La prima è che non considerano il divario tra il lavoro prescritto e il lavoro in pratica, ossia tra lo svolgimento di compiti in un contesto perfettamente a norma e i numerosi imprevisti che normalmente il lavoro presenta. Tali studi, infatti, cercano di ridurre al minimo questo divario. Ad esempio, Taylor (1999), per facilitare la creazione di un contesto ottimale di lavoro, individua tra i criteri fondamentali da rispettare la selezione degli uomini: i lavoratori vengono selezionati e formati secondo precisi criteri. Un ruolo fondamentale viene assunto dallo studio e dall’analisi di tutti i movimenti, sia degli uomini sia dei macchinari, con la finalità di poter eseguire con la massima efficienza i compiti lavorativi e eliminare drasticamente ogni tipo di discussione con i datori di lavoro: chi rifiuta di accettare le condizioni poste viene licenziato (Taylor, 1999). Quindi, si può sostenere che l’analisi dei compiti cerca di rendere prevedibile e misurabile il mondo lavorativo: l’imprevisto non deve esistere e conseguentemente si cerca di eliminarlo prevenendolo.

Un altro limite degli studi tradizionali nel mondo del lavoro basati sull’analisi dei compiti è l’enfasi che viene data al lavoro individuale e conseguentemente la sottovalutazione della dimensione cooperativa. Già Mayo aveva riconosciuto la necessità di studiare il “piccolo gruppo spontaneo di lavoro” nel quadro dell’organizzazione produttiva. I continuatori della sua opera tra cui White (1956) e parte e a farsi carico in proprio di una parte del lavoro (Quaglino, 1999). Si possono così sviluppare diversi tipi di commitment che Meyer e Allen (1997, in Quaglino, 1999) suddividono in affettivo, continuativo e normativo che hanno conseguenze nel lavoro. Ad esempio, un “commitment affettivo alto” si configura come attaccamento emozionale al lavoro di cui si condividono i valori e viene favorito da caratteristiche individuali, organizzative, di ruolo e di relazione con i superiori. Tale commitment porterà a un maggior grado di fedeltà al lavoro e conseguentemente a una diminuzione del turn over, ad aiutare i colleghi, ad avere un’alta qualità nel lavoro in relazione ai risultati e a una maggior soddisfazione personale correlata alla diminuzione dello stress. Per una disamina di queste teorie vedasi Quaglino G.P.

Homans (1950) hanno cercato di dimostrare il carattere di sistema sociale unitario, proprio della fabbrica, con i comportamenti collettivi, i gruppi, le motivazioni e le regole. Non si lavora da soli perché i gruppi formali, ma anche i gruppi informali, esercitano un’azione sul rendimento e sugli atteggiamenti dei lavoratori (White, 1956). L’ipotesi fondamentale del lavoro di Mayo riguarda appunto la rilevanza del lavoro nel “piccolo gruppo spontaneo” che è per lo studioso la cellula fondamentale, vittima, nella società industriale, dello stato di anomia descritto da Durkheim (1969) nella ricerca sul suicidio93. Non vi è lavoro organizzato industrialmente che non sia necessariamente correlato al proliferare di “piccoli gruppi informali” che assumono nella fabbrica un ruolo cruciale per la riorganizzazione della società. Gli studi centrati sul gruppo di lavoro, nell’impresa hanno teso a misurare l’incidenza del clima di gruppo sulla produttività e si riferiscono a tutto un filone di ricerche della sociologia americana nato a partire dalla teorizzazione di “gruppo primario” di Cooley (1969)94.

I limiti delle metodologie tradizionali nello studio del lavoro sono emersi maggiormente con il passaggio alla società della conoscenza (Bell, 1973; Castells, 2002), dove il lavoro si dematerializza e i lavoratori sono coloro che incorporano la conoscenza creata negli ambienti lavorativi. L’attività centrale viene compiuta mentre si lavora e consiste nel mettere in pratica la conoscenza posseduta o creata nel corso dell’attività lavorativa. I modi di lavorare cambiano perché la tecnologia e l’impresa si sono fatte più flessibili e reattive e il lavoratore stesso deve esserlo. Questa è la sfida che, negli anni Ottanta del Secolo scorso, il modello giapponese ha portato all’Occidente nel contesto della globalizzazione. Le imprese si strutturano e cercano

93 La divisione del lavoro per Durhheim (1962) produce da sé un sistema che si autoregola in quanto nella continuità delle diverse funzioni i vari organi creano uno stato di dipendenza specifica. D’altro canto lo sviluppo dell’industria con la sua rapidità, non ha ancora potuto creare un sistema di regole ad esso adeguato: l’operaio isolato nella specializzazione del suo lavoro si riduce al ruolo di macchina; occorre così instaurare un sistema di regole e di rapporti tra individui che esercitano diverse funzioni per non farli sentire separati nel loro lavoro e per permettere di cogliere il significato della loro attività nei confronti della collettività. Il rischio della deriva anomica è più che mai presente per la complessità della società: le crisi industriali, i fallimenti, l’iperspecializzazione, sono tutti fenomeni che soffocano lo spirito d’insieme, non permettono l’armonia generale delle funzioni e facilitano così lo stato anomico che può essere superato tramite la regolamentazione del lavoro attraverso il diritto.

94 Dal punto di vista sociologico di Cooley è la distinzione tra “gruppo primario” e “istituzione”. Il gruppo primario è quella caratterizzato da una intima associazione e cooperazione, svolge una funzione fondamentale nella formazione della natura sociale e degli ideali degli individui. Gruppi primari sono la famiglia, il gruppo dei pari, il vicinato, o il gruppo di comunità degli adulti. Sono detti primari perché nel loro ambito avviene il processo di socializzazione primaria che è quel processo attraverso il quale vengono interiorizzate le norme più importanti, fondamentali, per il formarsi dell’essere sociale. L’istituzione (così la chiama Cooley mentre la terminologia di “gruppo secondario” è coniata da altri) è la parte specializzata e relativamente rigida della struttura sociale in cui ognuno entra con una parte preparata e particolare di se stesso: mentre al gruppo primario si partecipa in modo totale e trasformando completamente se stessi nel fluire dei rapporti, all’istituzione si partecipa solo svolgendo specifiche

un’integrazione orizzontale più che verticale diventando così più snelle, con meno diseconomie. Vengono enfatizzati due principi della produzione: il just in time per cui ciascun componente arriva alla linea di montaggio solo nel momento in cui ce n’è bisogno e per quanto serve e l’auto-attivazione del lavoratore che permette alle macchine di arrestarsi automaticamente in caso di anomalia (Ohno, 1978, in Coriat, 1999). Il sistema, in questa logica, deve essere funzionale alla produzione di piccole serie di prodotti differenziati e disparati, esattamente il contrario del sistema concepito qualche decennio prima nel Nord-Est degli Stati Uniti. Si contrappone la produzione in grande scala di prodotti rigorosamente identici alla produzione in piccola scala di prodotti altamente diversificati95. Con l’obiettivo di ridurre la manualità, le tecnologie meccaniche, elettroniche e informatiche hanno portato a una riduzione delle attività manipolatorie e materiali e a una crescita di quelle intellettive e immateriali. Lavorare vuol dire sempre meno “muovere le mani”, ripetere un movimento: anche i lavoratori manuali devono risolvere problemi, decodificare messaggi, registrare segnali. Le tecnologie dell’informazione hanno accelerato tutti questi cambiamenti perché crescono sempre più i lavoratori le cui mansioni consistono nel maneggiare informazioni operando al terminale.

Cambiano così anche le modalità utilizzate dai sociologi per studiare il lavoro: la centralità assunta dal ruolo del computer per supportare il lavoro di gruppo ha sollecitato fortemente gli studi in ambito sociologico. Ci si riferisce ai Computer Support Cooperative Work (CSCW), nati all’inizio degli anni Ottanta del Secolo scorso, che puntano prevalentemente sull’analisi del lavoro cooperativo funzionale alla progettazione dei sistemi (Greif, 1988). Si matura sempre più la consapevolezza che i problemi di funzionamento dei sistemi tecnologici risiedono nella scarsa comprensione, da parte di chi li progetta, dei meccanismi sociali, del funzionamento dell’interazione nei gruppi e delle organizzazioni nelle quali le persone che li utilizzano sono inserite. Un altro esempio sono i Partecipator Design (PD) nati in Scandinavia tra il 1960 e 1970 che si qualificano prevalentemente per il coinvolgimento attivo dei lavoratori nella progettazione delle tecnologie. Si tratta di una progettazione partecipata estesa a coloro che poi utilizzeranno le nuove tecnologie e basata sull’idea che, durante il loro uso, le tecnologie possano effettivamente supportare il lavoro e aumentare la qualità e la

95 La domanda a cui cerca di rispondere il modello giapponese è la seguente: “Come fare per aumentare la produttività quando le quantità prodotte non aumentano?” (Ohno, 1978, in Coriat 1999). Ciò che è interessante sottolineare è che la risposta a questo interrogativo contempla il ruolo fondamentale dato al

quantità (Bødker, 1996). In questo ambito, la logica di analisi del lavoro, caratterizzata tradizionalmente dalla scomposizione in singoli compiti e azioni, viene sostituita da un approccio che cerca di comprendere il punto di vista dei lavoratori e che considera fondamentale sviluppare soluzioni tecnologiche che tengano conto delle pratiche lavorative in atto negli ambienti di lavoro per renderle effettivamente utilizzabili. Nello studio delle pratiche lavorative legate al contesto informatico si è così passati dall’utilizzo di un metodo analitico-prescrittivo all’utilizzo di un metodo interpretativo e descrittivo. Ci si spostati dal “pensare la tecnologia considerata migliore dai tecnici” per applicarla ai differenti contesti lavorativi, al “valorizzare l’esperienza delle persone che lavorano” per mettere a loro disposizione le risorse necessarie nelle differenti situazioni tenendo conto delle specifiche esigenze. In questo filone si collocano anche i

Workplace studies di cui Harper (2000, in Gherardi, Bruni, 2007) è uno dei più autorevoli rappresentanti. Nella ricerca che lo studioso ha condotto, finalizzata a comprendere come si poteva sviluppare un network tecnologico utile per condividere le informazioni, il ricercatore cerca, in primo luogo, di capire la logica di lavoro dei funzionari, economisti del fondo monetario internazionale. Harper, prima tramite interviste, poi con un lavoro sul campo che gli consente l’accesso a tutte le informazioni che i funzionari raccolgono e archiviano, si rende conto che il sistema informativo, da lui pensato come semplice per avere il grande vantaggio di poter essere consultato facilmente da tutti, risulterebbe inappropriato nel contesto lavorativo analizzato. In tale ambito, infatti, il lavoro si basa principalmente sul “non poter” e “non dover” condividere tutte le informazioni in possesso dai funzionari. Fondamentale, per lo studioso, è stato osservare, durante la missione degli economisti lo stato di lavorazione dei dati che, da grezzi e poco utilizzabili, diventano sempre più completi grazie a un processo interpretativo che il funzionario effettua con i colleghi in missione, unici possibili utilizzatori perché a conoscenza dello stadio di lavorazione realizzato. L’importanza di analizzare la logica interna delle pratiche di lavoro, nella ricerca sopra esposta, ha portato a non introdurre il sistema informativo pensato a priori in quanto non sarebbe stato di supporto al lavoro che veniva svolto. I Workplace studies, infatti, privilegiano la comprensione dell’organizzazione sociale del lavoro e subordinano la progettazione tecnologica alle pratiche lavorative esistenti. Utilizzano così un metodo di analisi del lavoro di tipo interpretativo in cui è fondamentale ricostruire la logica interna, cioè capire cosa fanno le persone quando lavorano. Quello che acquista importanza per il ricercatore non è tanto cosa il professionista fa in termini di

esecuzione, ma come lo fa, il senso che gli attribuisce, le relazioni che stabilisce attraverso di esso: il lavoro viene quindi sempre più visto come interazione nella sua complessità.