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Lo studio della conoscenza pratica

3. Lo studio del lavoro come pratica

3.6 Lo studio della conoscenza pratica

Gli studi esistenti e maggiormente diffusi in Italia, si riferiscono prevalentemente alla comprensione di come specifici strumenti tecnologici, inseriti in contesti lavorativi, possano essere capaci di valorizzare e trasformare il lavoro dei soggetti con cui interagiscono (Gherardi, 2008b). Si è così assistito, nella sociologia del

l’enfasi è sulla pratica e sul praticare, ossia sulle pratiche situate, sul “fare in situazione” e al modo in cui

lavoro, a un crescente interesse per la cooperazione interdisciplinare soprattutto tra coloro che si occupano di sistemi informativi.

Negli anni Novanta del Secolo scorso, sono apparsi i primi studi basati su ricerche etnografiche e analisi delle conversazioni, aventi per oggetto le pratiche di lavoro nelle torri di controllo del traffico aereo, le sale di controllo del traffico ferroviario, i centralini per le emergenze. Sono ambiti che rappresentano un fenomeno emergente delle società contemporanee e che Suchman (in Gherardi e Bruni, 2007) ha chiamato centri di coordinamento. La specificità di questi ambiti lavorativi consiste nell’essere ambienti ad alta densità tecnologica, in cui le prestazioni effettuate vengono gestite e fornite in modo cooperativo dove è, quindi, essenziale un buon coordinamento tra l’organizzazione che eroga le prestazioni e coloro che le ricevono. Nel dover rispondere a situazioni critiche in tempi rapidi coordinando risorse e persone, la cooperazione assume una rilevanza fondamentale; al contrario, il potere decisionale accentrato nelle mani di pochi, se non gestito adeguatamente, potrebbe avere effetti disastrosi sull’intero

network coordinato. Per questo, la cooperazione tra gli individui rappresenta un punto di centrale importanza nell’attività lavorativa, ma anche di maggior complessità perché la parzialità delle prospettive adottate e la difficoltà a condividere una simile rappresentazione della situazione, produce processi di negoziazione continui per poter giungere a una comune linea d’azione. La consapevolezza dell’importanza, per il fine lavorativo comune, del lavoro svolto dai colleghi, la capacità di entrare nella prospettiva dell’altro, di coglierla e di ritenerla un valore, divengono essenziali condizioni in cui si sviluppa la pratica lavorativa.

Gli aspetti considerati fondamentali per la comprensione dei centri di coordinamento, sono rilevanti anche per lo studio del lavoro situato e riassumibili: nel ruolo assunto dalla tecnologia nel suo porsi come vincolante o facilitante nello svolgimento dell’attività lavorativa, nella capacità di leggere una scena per riprodurre l’ordine della normalità attraverso la riproduzione di pratiche competenti, nelle strutture della partecipazione, nel mantenimento di un orientamento comune verso il risultato, nella costituzione di uno spazio lavorativo come campo comune di percezioni e interazioni durante la giornata lavorativa, nello sviluppo della competenza tramite i processi di interazione, nell’autorevolezza della conoscenza. Si colloca in questo ambito la recente ricerca condotta da Gobo et al. (2008) in due 118 della Regione Lombardia, che mette in evidenza come cambia il lavoro quando viene svolto a distanza, secondo la logica contingente del continuo adattamento a circostanze variabili, finalizzato a portare a

termine un compito collettivo in un contesto dove un ruolo fondamentale è assunto dalle nuove tecnologie106.

A partire dallo studio dei centri di coordinamento, questo modo di studiare le pratiche lavorative come situate e mediate si è esteso dalla tecnologia al corpo, ai discorsi, alle regole. Il tema del corpo e della conoscenza sensibile, cioè il ruolo dell’estetica nell’attività lavorativa, è stato tematizzato in Italia da Strati (2001) a partire dall’osservazione casuale del lavoro che alcuni operai stavano svolgendo su di un tetto. Gli operai riferivano l’importanza di “sentire il tetto con i propri piedi”, lo stare “agganciati” e la percezione di “afferrare” il tetto, tanto da sentirsi “inchiodati”. In questo senso, sottolineare il carattere mediato del corpo, significa rilevare il ruolo dato alle percezioni, a come l’intero corpo o alcune parti di esso impara a percepire e classificare i fenomeni ritenuti essenziali in un determinato lavoro. In questo caso, per gli operai sono fonti preziose di informazione: lo stare molto attenti ai rumori (percezione uditiva), il guardare quello che altri fanno (percezione visiva tramite contatto oculare) per capire a che punto del lavoro si trovano. Il corpo e la conoscenza acquisita attraverso i sensi della vista, dell’udito e del tatto sono, nella descrizione che gli operai forniscono, gli elementi essenziali per poter lavorare senza esporsi a perdite d’equilibrio che le gambe non potrebbero reggere, che vengono affinati nel corso dello svolgimento dell’attività lavorativa. Il corpo al lavoro attraverso la vista, soprattutto con l’acquisizione di una “visione professionale”, pur nel suo riferimento alla percezione ottica, viene utilizzata in senso più ampio per indicare il modo in cui viene letto e costruito il mondo rispetto alla propria attività. Nell’acquisire uno “sguardo professionale”, espressione di cui siamo debitori a Goodwin (2003), si impara a “vedere” ossia a riconoscere e classificare i fenomeni ritenuti rilevanti per una professione in un determinato ambito lavorativo. In ogni ambito professionale, infatti, si tende a assumere una comune visione professionale cioè a costruire in modo comunitario la lettura del mondo rispetto alla propria attività. Nei suoi studi, Goodwin (2003), considera la vista come attività sociale e culturale più che sotto il profilo fisiologico, e come tale orientata in funzione di compiti conoscitivi da svolgere entro cornici professionali. Ad esempio, nel lavoro degli archeologi, come in quello dei biologi in laboratorio e in quello degli oceanografici, lo studioso mostra come ciò che “si vede” sia il risultato di un’attività che coinvolge non solo la vista, ma anche le mani che indicano quello che si osserva, la parola che è sincronizzata con il gesto delle mani,

il corpo per la postura che assume. L’autore descrive così il complesso processo che rende possibile a una giovane archeologa “imparare a guardare” il terreno e poi a “imparare a vedere” quello che un archeologo maggiormente esperto riesce a vedere al primo sguardo. L’educazione al vedere non si configura, quindi, come un’esperienza privata e occasionale, ma avviene in una relazione professionale che si protrae nel tempo e tramite lo svolgimento di alcune attività ritenute rilevanti nella specifica professione. Quello che “si vede” o meglio lo “sguardo professionale” che si assume, è reso significativo dal modo in cui ci si posiziona all’interno di un insieme più vasto di pratiche (Goodwin, 2003:163). I lavori di questo studioso permettono, quindi, di cogliere che nei contesti professionali l’osservazione si colloca dentro quadri teorici e schemi concettuali e costituisce un’attività situata e costruita con la comunità professionale a cui si appartiene.

In altri contesti di lavoro, come nei servizi socio-sanitari, dove la comunicazione assume un ruolo centrale, il ruolo mediato delle pratiche discorsive diviene fortemente rilevante. Drew e Heritage (1992), attraverso saggi di diversi autori, dimostrano come nei contesti socio-sanitari tramite pratiche discorsive situate, il lavoro viene prodotto nell’interazione tra il professionista, visto come colui che rappresenta l’istituzione e gli utenti di quell’istituzione. Così facendo, nella quotidiana riproduzione di pratiche discorsive tra i diversi soggetti che erogano i servizi e che usufruiscono di servizi, si riproduce l’istituzione stessa. In questi ambiti, infatti, la competenza comunicativa, ossia il saper parlare in modo appropriato alla persona appropriata, è una conoscenza che diviene risorsa per l’azione (Bergman, 1992; Maynard, 1992). Lavorare, nei contesti socio-sanitari dove le pratiche discorsive sono centrali nello svolgimento quotidiano dell’attività lavorativa significa, quindi, mettere in atto pratiche discorsive competenti, cioè appropriate rispetto al compito, al ruolo assunto nell’organizzazione, al rispetto delle regole formali e informali vigenti, alle relazioni esistenti con i colleghi; è quindi fondamentale che il professionista abbia una competenza comunicativa ossia la necessaria conoscenza per saper utilizzare il linguaggio in modo appropriato in relazione al contesto. Infatti, parere di chi scrive è che gli studi basati sulla pratica, benché stimolati dall’avvento delle nuove tecnologie, possano trovare un fervido terreno anche nei contesti sociali e in particolare nell’ambito dei servizi sociali, dove l’esperienza condivisa nelle pratiche all’interno di un determinato servizio sedimenta quel sapere pratico che si pone in modo fortemente rilevante nel lavoro. In un certo senso, utilizzando un linguaggio tipico del servizio sociale, potremmo sostenere che lo

studio basato sulla pratica potrebbe aiutare a capire quello che Ferrario (1996), riferendosi al lavoro degli assistenti sociali chiama “modello di fatto” .