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3. Lo studio del lavoro come pratica

3.3 Il concetto di pratica

In questo paragrafo si vuole richiamare brevemente lo studio sociologico delle pratiche a partire da coloro che maggiormente vi hanno contribuito dato che il concetto di “pratica” non è nuovo in sociologia.

La prima riflessione teorica sulle pratiche sociali risale a Bourdieu (1972) e parte dai suoi studi etnologici. Accanto alla conoscenza fenomenologica che contraddistingue l’esperienza primaria del mondo della vita quotidiana e alla conoscenza oggettivista, che si interroga sulle condizioni delle possibilità oggettive dell’esperienza primaria del mondo, vi è, secondo l’autore, la conoscenza prasseologica che mette a fuoco quelle che Bourdieu definisce le relazioni dialettiche tra le strutture oggettive e le disposizioni strutturate. In questo senso, la conoscenza pratica considera come oggetto di indagine le relazioni tra le azioni dei soggetti agenti e le strutture sociali. Per l’autore, infatti, il mondo sociale è costituito da campi, ossia da microcosmi relativamente autonomi governati da leggi proprie e dipendenti, solo a livello parziale, dalle leggi che connotano altri campi100. Le pratiche, a livello del singolo campo, sono il prodotto degli

habitus, ma anche della struttura del campo101. All’interno di questo quadro teorico anche la pratica si configura come: “il prodotto della relazione dialettica tra una situazione

un habitus” (Bourdieu, 1972:211). Quindi, le pratiche sono il risultato dell’interazione tra campo e habitus, e come tali hanno una natura relazionale che le rende per un verso vincolate, ma contemporaneamente anche creative. Il soggetto agente diviene quindi sia produttore sia riproduttore di pratiche: esse sono il prodotto di un modo di operare che il soggetto riproduce nelle interazioni con gli altri habitus. In Bourdieu la logica dell’agire è razionalità adattiva: l’habitus è sistema di schemi generatori di pratiche e queste ultime sono il prodotto dell’incontro tra un habitus e un campo. L’habitus è quindi, per l’autore, tutto ciò che fa muovere con padronanza un attore in uno specifico ambito sociale (campo), è un senso pratico, che presuppone una forma di conoscenza non esplicita, ma incorporata nei gesti, nelle movenze, nella capacità di evitare gli ostacoli. L’apprendimento corporeo dell’habitus nasce dall’osservazione dei gesti e delle azioni degli altri, in altri termini si tratta di un apprendimento che nasce nella pratica e passa attraverso le pratiche (Bourdieu, 1972). Anche le regole nascono dalle pratiche, ma il loro linguaggio legalista rischia di appiattire lo studio delle pratiche sul piano formale, infatti una pratica non si configura in quanto tale perché obbedisce a una regola, ma perché avviene in un arco temporale ben definito.

Anche in Giddens (1979) vi è una nozione di pratica che si pone in netto contrasto con il modello della razionalità: è la coscienza pratica, che agisce ordinariamente seguendo la routine e che non sa rendere motivazione e spiegazione all’azione intrapresa. In altri termini, la presenza della coscienza pratica nel soggetto permette di mettere in atto meccanicamente dei comportamenti in seguito all’acquisizione di competenze. Ciò che si può osservare sono pratiche sociali, azioni situate dei soggetti, derivanti sia da motivazioni individuali sia da risposte a particolari sollecitazioni. L’aver imparato e sperimentato più volte l’efficacia di un comportamento rende possibile l’applicazione

occupa, agenti o istituzioni, dalla loro situazione attuale e potenziale all’interno della struttura distributiva delle diverse specie di potere (o di capitale) il cui possesso governa l’accesso a profitti specifici in gioco nel campo, e contemporaneamente dalle relazioni oggettive che hanno con altre posizioni (dominio, subordinazione, omologia). Nelle società fortemente differenziate il cosmo sociale è costituito dall’insieme di questi microcosmi sociali relativamente autonomi, spazi di relazioni oggettive in cui funzionano una logica e una necessità specifiche, non riconducibili a quelle che regolano altri campi” (1992:67,68).

101 Bourdieu (1980) in Le Sens pratique propone una definizione di habitus: “i condizionamenti associati

a una classe particolare di condizioni di esistenza producono gli habitus, sistemi di disposizioni durevoli e trasponibili, strutture strutturate che funzionano come strutture strutturanti, cioè come principio di organizzatore di pratiche e di rappresentazioni che possono essere oggettivamente accordate con il loro scopo senza supporre il perseguimento cosciente di fini” (88-89). Per Bourdieu l’habitus è un prodotto delle strutture oggettive interiorizzate e contribuisce a produrle. L’autore rifiuta così l’opposizione

meccanica che si concretizza in un agire intenzionale e inconsapevole rispetto allo scopo. Salire su un autobus, è un esempio in cui la sola attivazione di quella che Giddens (1979, 1990) chiama coscienza pratica permette di realizzare l’azione.

Entrambi gli autori introducono, accanto all’aspetto routinario della pratica anche la capacità del soggetto di uscire da uno schema fissato e di modificare le proprie abitudini: Bourdieu (1997) sottolinea la plasticità dell’habitus, che può essere più o meno elevata secondo la posizione d’origine, l’appartenenza, le adesioni sociali e religiose, che l’autore chiama traiettorie, per favorire l’adattamento a situazioni nuove. Giddens (1979) introduce oltre alla routine il “reflexive monitoring of action”, ovvero il monitoraggio riflessivo, aspetto centrale e caratteristico della vita umana attribuibile alla coscienza discorsiva che permette all’attore di analizzare e riflettere anche sugli effetti non previsti dell’azione stessa con la possibilità di modificare il comportamento successivo. E’ la capacità che i soggetti hanno di riflettere sui propri comportamenti, in qualche modo di monitorarli, e conseguentemente di mutarli in seguito alla riflessione sull’azione.

Accanto a un aspetto riflessivo che connota la pratica, si sottolinea anche l’aspetto sociale: la pratica non è solo un’abitudine individuale, è sociale, in quanto non ha valore solo per un singolo soggetto, ma è un evento inter-soggettivo che coinvolge diversi soggetti appartenenti a un determinato contesto e influisce anche a livello macro. La componente sociale delle pratiche, per Giddens (1990), si manifesta anche nella loro interrelazione con la struttura sociale. A questo proposito, Giddens nella teoria della strutturazione parla di dualità della struttura: l’attore competente nel momento in cui riproduce le pratiche sociali modifica la struttura sociale stessa. Strutture a azioni sono dunque in rapporto duale mediato da regole e risorse che vanno a costituire le modalità di produzione e riproduzione delle pratiche sociali.

Più recentemente, nella sociologia della scienza, Schatzki e Cetina (2001) propongono una rilettura del concetto tradizionale di pratica e introducono l’esistenza della dimensione normativa: le pratiche sociali, implicano un sapere in cui l’azione vede incorporata in sé una teoria, un elemento normativo, in altre parole, per essere attori competenti di una pratica bisogna anche sapersi muovere correttamente. Si supera la concezione abitualista e si introduce la possibilità di esercitare bene o male una pratica. In questa accezione gli attori possono attivare risposte appropriate alla situazione e collegate a una corretta o scorretta esecuzione della pratica che può anche avere effetti sanzionatori. Si introduce, così, un modo di vedere la pratica sociale come

un complesso di attività pubbliche, visibili, che gli attori imparano gli uni dagli altri nel corso del tempo (Spinosa, Lynch, 2001), socialmente riconoscibili in quanto applicate con o senza correttezza ma con regolarità da un certo numero di individui. Nelle pratiche sociali vi è quindi anche una dimensione cognitiva che implica un’attività riflessiva e un coinvolgimento dinamico tra attore e ambiente che si sviluppano nel tempo, la cui crescita può anche essere indipendente dalla teoria (Bloor, 2001). Si propone un’idea di pratica come relazione dinamica dove acquista una rilevanza fondamentale l’interdipendenza: gli attori creano pratiche condivise interagendo, le pratiche condivise, infatti, non sono la somma di pratiche individuali, ma la derivazione dell’interdipendenza degli attori sociali (Barnes, 2001). E’ attraverso l’azione e l’interazione nelle pratiche che la vita sociale è organizzata, riprodotta e trasformata.

In senso molto generale la pratica sociale può essere così definita come un complesso organizzato di attività, socialmente riconoscibili perché vengono messe in atto con regolarità da un certo numero di individui che possono insegnarle ad altri nel corso del tempo.