• Non ci sono risultati.

3. Lo studio del lavoro come pratica

3.2 Gli studi del lavoro

3.2.2 Gli studi macro e micro

Il cambiamento che sta investendo la sociologia del lavoro ha portato anche a un ampliamento delle categorie utilizzate dai sociologi per studiare il lavoro. Recentemente le competenze tecniche specifiche afferenti all’area del “saper fare” che avevano caratterizzato il modello tradizionale, si stanno sostituendo con l’importanza che viene data alle skills sociali del lavoratore, come la capacità di lavorare in gruppo e di sviluppare creatività e relazioni sociali con soggetti interni e esterni al proprio sistema aziendale (Negrelli, 2005:107), aspetti trascurati dalla letteratura sociologica, organizzativa ed economica sull’evoluzione e sulle trasformazioni del lavoro. In altri termini, per Negrelli (2005), è la compresenza di due aspetti che chiama “saper fare” e “saper essere”, ossia le abilità professionali e le competenze sociali intese come capacità relazionali, che viene sempre maggiormente richiesta nel mondo del lavoro attuale. La presenza di queste due dimensioni che si combinano in diversi modi a livello sia quantitativo sia qualitativo, per il sociologo, caratterizza oggi non solo i lavori manuali, ma anche quelli intellettuali. In questa accezione il professionista è quindi colui che accanto a conoscenze specifiche mostra capacità di relazione, attitudini a lavorare in gruppo, propensione a comprendere e risolvere i problemi e volontà di assumersi le responsabilità. Questo modo di studiare il lavoro, che si pone fortemente innovativo nella sociologia del lavoro contemporaneo, può essere collocato a cavallo tra due correnti che si stanno sviluppando nello studio del lavoro: una che sottolinea la dimensione “macro sociale”, ambito di studio dei sociologi tradizionali del lavoro e ancora caratterizzante una grossa parte della sociologia del lavoro (Reyneri, 2005, Butera, 2008), e un’altra che enfatizza la dimensione “micro sociale” dove si dà centralità al lavoro come attività (Gherardi, Bruni, 2007; Gherardi, 2008b). Alla domanda, che si pongono tradizionalmente i sociologi, sintetizzabile in “Dove va il lavoro?”, le risposte della corrente “macro” vengono cercate nei mutamenti storici della divisione del lavoro, dell’economia, dell’organizzazione, della demografia e delle migrazioni, che influiscono sulle modalità di partecipazione al lavoro, sulla qualità del lavoro, sulle caratteristiche dei lavoratori. Per mostrare come questo modo di studiare il

lavoro sia prevalentemente connesso alla sociologia del lavoro tanto da connotarne tradizionalmente gli studi, basta leggere la definizione dell’oggetto della sociologia del lavoro che Gallino, sul Dizionario, riporta:

“la sociologia del lavoro studia, da un lato, le variazioni dell’organizzazione, della qualità, del valore del lavoro in differenti settori produttivi – industria agricoltura, amministrazioni, ecc- e professionali mettendole in rapporto col variare del modo di produzione, della tecnologia, della struttura tecnica ed economica delle aziende, del tipo e grado di organizzazione sindacale dei lavoratori, delle forme di dominio politico ed economico, della componente biosociale della popolazione (piramide di età, sesso, scolarità…); dall’altro, gli effetti che gli accennati aspetti del lavoro hanno sulla collettività di lavoratori, sulla stratificazione sociale, sul tempo libero, sull’estensione della civiltà, infine sulla qualità della vita” (Gallino, 1993:389).

In questa prospettiva, il lavoro viene visto come fenomeno storico-culturale che varia al variare di alcune importanti variabili socio-anagrafiche, sociali ed economiche. Assumono una particolare rilevanza gli approfondimenti che vedono il lavoro principalmente come occupazione, dove un grosso filone è costituito dagli studi sul mercato del lavoro che indagano l’impatto delle politiche del lavoro sull’occupazione, l’incontro tra la domanda e l’offerta, i fenomeni che lo caratterizzano quali la partecipazione delle donne, la disoccupazione, la flessibilità e l’instabilità (Reyneri, 2005). Rientrano nel filone macro anche gli studi di Butera (2008) nei paesi industrializzati dell’Occidente sull’aumento dei lavoratori della conoscenza (knowledge

worker sono i manager, i professionisti e i tecnici) e sul cambiamento che questo ha portato nel rapporto tra professione e organizzazione nel muoversi sui confini tra lavoro dipendente e autonomo, fra organizzazione e sistema professionale96.

Accanto a una dimensione “macro” che caratterizza prevalentemente gli studi sociologici sul lavoro (Reyneri, 2005, Butera, 2008) emerge l’attenzione a una dimensione “micro sociale” dove il lavoro, visto come attività, viene studiato secondo diverse prospettive risultanti anche dal contatto della sociologia con altre discipline97. Rientrano in questo filone la teoria dell’attività (Engeström, 1995, 1999), gli studi sull’apprendimento organizzativo (Gherardi, Nicolini, 2004), gli studi

96 Sono questi, per Butera (2008), i soggetti che forniscono maggior valore aggiunto a prodotti e servizi che per le economie occidentali è la maggior fonte di vantaggio competitivo.

97 Si fa riferimento, per esempio, alla teoria dell’attività che deriva dal contatto con le discipline sociologiche in particolare con la psicologia culturale di cui vedasi Zucchermaglio C. e Alby F.

Psicologia culturale delle organizzazioni, Carocci, Roma, 2006 e gli studi dell’apprendimento organizzativo derivanti dal contatto tra la sociologia del lavoro e gli studi organizzativi. Per una ricostruzione delle radici teoriche dei due approcci vedasi Gherardi S. Nicolini D. Conoscenza e

etnometodologici sul lavoro (Fele, 2002) e gli studi sulle pratiche lavorative (Gherardi 2000, 2006).

La teoria dell’attività vede il focus sull’attività lavorativa come motivo di concertazione tra sistemi di attività che condividono lo stesso oggetto di lavoro: il lavoro è studiato come attività inserita in una complessa rete di relazioni dove si negozia la conoscenza derivante dalla pratica dei diversi attori. Il lavoratore è considerato all’interno di una rete di relazioni costituita dall’oggetto del suo lavoro, dagli strumenti di cui si serve, dalla comunità in cui si inserisce e dalle regole che strutturano la divisione del lavoro vigente in un dato assetto storico-culturale. Il sapere e la competenza professionale non sono così attribuibili a singoli individui, ma ascritti in un sistema di attività dove agisce una “comunità di attori”. La centralità degli studi che utilizzano questa teoria è sull’attività come motivo di concertazione tra diversi modi di sapere pratico, i sistemi di attività da cui scaturiscono e soprattutto il sistema di attività che creano. Alcuni risultati di questi studi hanno messo in evidenza che una caratteristica del lavoro esperto è quella di “attraversare confini” (Engeström, 1995), nel senso di essere in grado professionalmente di interagire con altre persone per la soluzione di nuovi problemi tramite una negoziazione delle soluzioni derivante da un confronto di diverse competenze. Un esempio può essere quello che Engeström (1999:86) chiama pulsazioni organizzative (knotworking), ossia i nodi di attività che consistono nel mettere un comune differenti competenze per il raggiungimento di un fine comune. Si tratta di una concertazione legata a eventi locali e limitati nel tempo che può anche dar luogo ad attività di collaborazione di lungo periodo. Basti pensare, in ambito psichiatrico, alla realizzazione del trattamento sanitario obbligatorio come attivazione di competenze diverse finalizzate a rendere accettabile l’obbligatorietà del trattamento al paziente. La competenza professionale della polizia municipale, con quella dell’infermiere del 118, del medico che prescrive l’obbligatorietà del trattamento sanitario e del collega che la convalida, possono “annodarsi”, nel senso di costituire un nodo di attività, in modo tale da facilitarne l’esecuzione andando “oltre il confine professionale” ai fini di realizzare il comune obiettivo. In altre parole, si costruisce una relazione tra differenti saperi che non richiede un controllo centralizzato, ma ogni soggetto implicato agisce con il suo sapere, i suoi strumenti e può dare origine, quando funziona, a quello che Engeström (1999:86) chiama “pulsazione organizzativa” in cui gli attori coinvolti collaborano per la realizzazione di un determinato fine che nell’esempio riportato è il trattamento sanitario obbligatorio.

Anche gli studi sull’apprendimento organizzativo che vedono l’apprendimento come processo conoscitivo e organizzativo situato nei contesti lavorativi quotidiani (Gherardi, Nicolini, 2004) si collocano nel filone “micro”. In questi ambiti l’apprendimento è una pratica sociale acquisita attraverso la partecipazione legittima o periferica a una comunità di pratiche. L’apprendimento avviene tramite una rete di relazioni che si stabilisce tra coloro che condividono la stessa attività pratica sia tra persone autorizzate a essere membri legittimi della comunità, sia nei confronti dei novizi. In quest’ultimo caso si parla di partecipazione periferica e l’apprendimento viene facilitato dalla presenza di persone incaricate a fungere da traduttori. In questo approccio il processo di apprendimento è situato nei contesti di lavoro quotidiani e distribuito nelle comunità che creano, impiegano e innovano conoscenze specialistiche e custodito dentro relazioni sociali (Gherardi, Nicolini, 2001) 98.

Infine, gli studi etnometodologici sul lavoro, si concentrano sul lavoro inteso come un complesso organizzato di pratiche esperte che va studiato a partire dalla logica pratica, situata e riflessiva delle specifiche attività nei contesti nei quali viene esercitato. Sono studi che si concentrano sulle azioni pratiche delle persone al lavoro, ossia sul cosa le persone fanno concretamente nel proprio posto di lavoro e che hanno interessato vari settori di lavoro sia scientifico, come il lavoro degli astronomi e dei matematici (Garfinkel, Lynch, Livingston, 1981, in Fele 2002); sia altri ambienti e pratiche di lavoro come la musica (Sudnow, 1978 in Fele, 2002). In altri termini, esplorano nei dettagli la specificità di una professione, ciò che occorre “sapere in pratica” per svolgere in modo competente il proprio lavoro99. L’approccio dei ricercatori è quello che Fele descrive come:

“seguire passo dopo passo, secondo dopo secondo, minuto dopo

minuto…rivivere con loro (inteso con coloro che lavorano) la storicità del loro

lavoro mentre si svolge” (2002: 163).

Negli ambienti di lavoro, questi studi, sono molto vicini ai problemi pratici che le persone incontrano quotidianamente nello svolgimento delle loro attività e che non si

98 Per un’illustrazione empirica dei meccanismi attraverso cui una pratica diviene condivisa e trasmessa ai novizi vedasi Gherardi S., Nicolini D., “Il pensiero pratico. Un’etnografia dell’apprendimento” in Rassegna Italiana di Sociologia n.2, 2001, pp 231-255, che tratta come avviene, per i novizi di un cantiere edile, l’apprendimento della sicurezza.

99 Per una ricostruzione di questi studi vedasi Fele G. “Etnometodologia. Introduzione allo studio delle

basano su ricostruzioni ex-post, ma su ricostruzioni dettagliate di ciò che avviene in

itinere durante il lavoro. In questo filone si collocano gli studi sulla pratica lavorativa che trovano origine, da un lato, dall’interesse verso gli aspetti legati alla qualità del lavoro e alle sue modalità di svolgimento; dall’altro lato, dall’esigenza di controllo manageriale nata soprattutto con il cambiamento delle competenze richieste al lavoratore della conoscenza che si configurano come trasversali ossia più di astrazione, di interpretazione, di manipolazione di informazioni che relative a oggetti materiali come in passato. Si può quindi affermare che l’interesse della sociologia del lavoro legata allo studio delle pratiche lavorative è motivata sia dalla ricerca di una maggior autonomia e qualità del lavoro, sia dalla ricerca di un maggior controllo manageriale sulla conoscenza come risorsa. Lo studio del lavoro a partire dalle pratiche lavorative è stato un tema trascurato in Italia fino all’esplosione della tematica dell’apprendimento organizzativo e della gestione della conoscenza, temi ricostruiti e trattati in Italia da Gherardi e Nicolini (2004). A partire da queste tematiche, gli “studi basati sulla pratica” hanno dato origine a un campo di studi molto eterogeneo, ma ciò che li accomuna è il fatto che considerano il lavoro come attività situata, dove la pratica lavorativa viene studiata e interpretata nel contesto sociale in cui le persone e le tecnologie collaborano e confliggono nel raggiungimento di un fine collettivo (Gherardi, 2000, 2006, 2007).

La sociologia del lavoro ha in questo modo riscoperto la tradizione etnometodologica, etnografica e gli studi qualitativi di campo che partono dall’assunto che i luoghi di lavoro sono contesti socio tecnici dove umani e non umani sono fortemente collegati. Si può quindi sostenere che gli studi sulla pratica si collocano in filone che si può definire “micro”, ma anche “interpretativo-descrittivo”, in quanto la pratica lavorativa viene studiata nella sua comprensione e ricostruzione della logica interna per poter giungere a una adeguata rappresentazione dell’attività lavorativa delle persone durante il lavoro. Concentrare l’attenzione sulle pratiche lavorative in quanto tali, non significa tralasciare la dimensione istituzionale storica e culturale in cui le pratiche prendono forma. Infatti, anche in questa prospettiva, lo sfondo storico e istituzionale acquista una sua rilevanza, non tanto come relazione lineare tra forme di regolazione del mercato del lavoro e pratiche situate, ma soprattutto come elemento che media e supporta il lavoro. Basti pensare al lavoro che è sempre più flessibile e a come questa caratteristica si ripercuota sui lavoratori contemporanei a cui viene chiesto di essere pronti ai cambiamenti con breve preavviso, di correre continuamente qualche rischio, di affidarsi

sempre meno alle procedure formali (Sennett, 2001:9). Nell’ambito specifico dei servizi sociali, che da questo punto di vista non si differenzia in modo sostanziale da altri ambiti di lavoro, si può pensare che l’aumento dei contratti di collaborazione coordinata continuativa e a progetto (co.co.co. e co.co.pro.) che contraddistingue maggiormente il lavoro professionale dell’assistente sociale nella società italiana al momento attuale (Fiore, Puccio, 2010) rispetto agli anni Novanta del Secolo scorso, può concorrere a costruire anche le pratiche lavorative, se non altro per una perdita di continuità nel lavoro con le persone a cui può dar facilmente luogo il turn over dei professionisti. In altri termini, la ricostruzione della dimensione storico-istituzionale del lavoro a partire dalle pratiche lavorative, permette di vedere come gli elementi di regolazione del lavoro rivestono importanza per l’attività quotidiana degli attori. Inoltre, inglobare il contesto storico e istituzionale in complesse dinamiche di mediazione del lavoro facilita, nello studio del lavoro, il superamento della dicotomia tra “micro” e “macro” qui utilizzata per chiarezza espositiva.