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Breve storia delle migrazion

Cap III Il migrante

3.2 Breve storia delle migrazion

Seguiremo la suddivisione storica di Laura Zanfrini (2007) che ci sembra quella più idonea a spiegare le sfaccettate caratteristiche del fenomeno migratorio. Zanfrini individua 5 fasi storiche nella modernità e contemporaneità: 1) la fase mercantilista e della colonizzazione del nuovo mondo, 2) la fase liberale, 3) la fase fordista o neo-liberale, 4) la fase post-industriale e 5) la fase dell’epoca della globalizzazione.

La sua analisi parte dal presupposto che con la prima fase moderna della migrazione sia successo qualcosa di differente su scala mondiale rispetto a quello che era sempre accaduto. Le migrazioni infatti, come ricordavamo prima, sono sempre esistite, ma è soltanto con il 1500 che inizia un processo diverso, senza del quale è impossibile comprendere lo stato attuale delle cose. E’ vero dunque che gli uomini si sono sempre spostati e mescolati tra loro portandosi appresso il loro bagaglio di diversità da condividere e scambiare, attraverso guerre di conquista o migrazioni dalle motivazioni più svariate, ma è soltanto con l’accelerazione

avvenuta nel XVI secolo, che corrisponde alla scoperta delle Americhe e all’inizio della fase coloniale, che si sono verificati quei cruciali cambiamenti che ancora oggi costituiscono la struttura di base della composizione della maggior parte dei popoli. La fase mercantilista infatti, che va dal 1500 al 1800, vede lo spostamento di milioni di persone su tutto il globo. Da una parte abbiamo gli stessi europei che si riversano nelle terre di conquista, dall’altro gli schiavi, trasportati coattivamente dall’Africa alle Americhe. Questi due semplici fattori costituiscono un tale flusso di persone come non si era mai visto prima nella storia dell’umanità (centinaia di milioni di individui). In questo periodo l’immigrazione è libera e incoraggiata, l’emigrazione invece ostacolata e disincentivata, secondo la logica mercantilista per cui va promossa la crescita della popolazione e dei capitali perché corrisponderebbe ad un aumento della prosperità e del potere.

Ma è nella fase liberale, che va dal 1840 alla prima guerra mondiale, che il regime di libera circolazione degli individui trova la sua massima espressione. La visione liberista e capitalista del lavoro vigente in quegli anni considera la libertà individuale e la mancanza di restrizioni fattori indispensabili per la crescita del mercato. La “mano invisibile” di Adam Smith opera naturalmente verso il bene della comunità solo se agli individui è permesso di agire liberamente, di spostarsi e di allocare le proprie risorse dove credono più opportuno. Questo periodo è anche chiamato il periodo della “Grande Emigrazione” e del “Sogno Americano”. Milioni di persone in tutto il mondo si spostano da un continente all’altro in cerca di fortuna, di un futuro migliore per se stessi e per la loro famiglia. Gli Stati Uniti, dal canto loro, incoraggiano tale flusso, non fanno distinzioni in base all’appartenenza, si avvalgono della forza lavoro indispensabile in un periodo di crescita e integrano sotto la bandiera a stelle e strisce e sotto la protezione della Statua della Libertà chiunque voglia partecipare a questo processo di convivenza tra popoli. Questa fase “ha avuto un impatto enorme, sia dal punto di vista demografico, sia dal quello economico, sia ancora da quello culturale. Oltre ad avere mutato la composizione della popolazione dei grandi paesi d’immigrazione, ha prodotto riflessi ancor oggi evidenti nei paesi d’origine” (ivi: 55-56).

E’ con la prima guerra mondiale e specialmente con la crisi economica del ‘29 che l’atteggiamento verso l’immigrazione cambia drasticamente in America. Incominciano segni di ostilità verso gli immigrati, provvedimenti normativi atti a limitarne gli ingressi, eventi a carattere razzista. La presunta “non assimilabilità” degli immigrati si fa strada nell’opinione pubblica e molti dei problemi sociali trovano in loro un perfetto capro espiatorio.

Con la fase fordista o neo-liberale si intende quel periodo che va dal secondo dopoguerra agli anni ‘70, in Europa, e che vede la trasformazione del nostro continente da luogo di

emigrazione a luogo di destinazione dei flussi migratori, sia interni (come per gli italiani che si recavano in Germania, per esempio) sia esterni. Questo periodo viene considerato “fordista” perché vede l’affermarsi di una massiccia industrializzazione che fa ricorso a manodopera a basso costo composta specialmente da immigrati e viene chiamata anche “neo- liberale” perché la forza lavoro era incentivata e voluta affinché non si arrestasse il processo di crescita economica che stava attraversando i paesi in quel periodo.

“A fronte della crescita ininterrotta che accompagna i «trent’anni gloriosi» dalla fine del conflitto alla recessione economica degli anni ‘70, diversi paesi sperimentano un eccesso di domanda di lavoro sull’offerta, e ravvisano la necessità di importare manodopera, segnatamente per ricoprire i posti di lavoro peggio remunerati e più insicuri, oltre che meno prestigiosi agli occhi degli autoctoni” (ivi: 59).

La fase post-industriale prende il via dagli anni settanta in poi, in concomitanza con la recessione economica mondiale e la crisi del petrolio. Da questo momento le società si chiudono in loro stesse e le migrazioni assumono il carattere di presenze non volute, “tollerate o respinte secondo i casi, ma comunque sempre meno legittimate da considerazioni economiche” (ivi: 62). E’ una migrazione al maschile, dove le mogli dei migranti arrivano in un secondo momento. Prende sempre più piede, tra le istituzioni e l’opinione comune, l’idea che le migrazioni siano determinate da fattori di tipo push34 e si tende a scordare il bisogno interno per le economie della presenza di stranieri. Ecco dunque l’affacciarsi di una nuova esigenza: quella di difendersi da una presunta invasione. Si configura quell’atteggiamento di chiusura e regolamentazione dei flussi che prende il nome di “politica degli stop” ed è a questo punto che la questione dell’immigrazione, da prettamente “economica” si trasforma in “politica”.

Ed infine eccoci all’attuale fase storica delle migrazioni internazionali, ovvero la fase della

globalizzazione35. In questo periodo contemporaneo sperimentiamo la possibilità di muoverci,

a basso costo e a grande velocità, più o meno su tutta la superficie del globo. Possiamo comunicare e osservare le condizioni di vita che sussistono in tutti i paesi del mondo, anche se molto spesso queste rappresentazioni sono ingannatrici e fuorvianti. Di queste possibilità ne hanno beneficiato, ovviamente, non solo imprenditori, turisti e uomini d’affari, ma anche il

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Fattori di espulsione come la povertà, la disoccupazione, la politica repressiva etc. etc.

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Seguiamo la definizione di “Globalizzazione” così come è stata data da Giddens (1994). Globalizzazione è quel termine con cui si segnalano le trasformazioni economiche, politiche e culturali che aumentano l’interdipendenza delle azioni sociali che avvengono in luoghi distanti tra loro, trasformando le percezioni e le relazioni spazio-temporali e aumentano l’indipendenza dell’azione sociale dal contesto locale in cui si svolge.

popolo dei migranti, cosicché oggi non esiste paese al mondo che non sia coinvolto in un qualche processo di immigrazione o emigrazione ad un livello ragguardevole. In questa fase si osserva una femminilizzazione delle migrazioni. All’incirca la metà delle persone che si spostano sono donne, spesso primo migranti e lavoratrici. L’enorme quantità di migranti attratti in altre nazioni da fattori di tipo pull36 o spinti o respinti dai propri paesi a causa di fattori sociali, culturali o politici, unitamente alla regolamentazione degli ingressi e alla

politica degli stop di cui accennavamo, ha creato un fenomeno nuovo, tanto nelle sue fattezze

quanto nella sua entità: l’immigrazione clandestina. C’è qui un evidente contraddizione di cui le democrazie occidentali devono rendere conto: da un lato necessitano economicamente dei migranti e delle loro prestazioni lavorative, dall’altro negano normativamente tale bisogno, limitando gli ingressi e costruendo socialmente la figura dell’immigrato irregolare. L’immigrazione clandestina può essere compresa solo se la si inserisce nella forbice tra queste due tendenze contrastanti (Ambrosini 2010).

“La risultante della sfasatura tra restrizioni politiche alla mobilità del lavoro e domanda economica di manodopera è per l’appunto la formazione di bacini più o meno ampi di immigrazione irregolare inserita nei meandri dei sistemi economici e sociali dei paesi riceventi, anche in modo continuativo” (ivi: 78).

Altro fenomeno di notevole importanza, originale rispetto al passato perché permesso dai sistemi di trasporto e comunicazione globale, è il fenomeno dei trasmigranti, ovvero persone che mantengono un rapporto binario e costante tra due paesi, quello di origine e quello di destinazione. Doppia appartenenza, doppia abitazione, doppio territorio, doppia lingua, doppia cultura, ma unica identità, quella appunto di trasmigranti.

Da questo breve excursus abbiamo potuto constatare come, fermo restando la mobilità umana essere un fenomeno storico sempre presente e costitutivo dell’essere umano, le varie politiche37 di apertura e chiusura nei confronti degli stranieri sono sempre coincise con un

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Fattori di attrazione come il miglior stile di vita, la ricchezza disponibile, la possibilità di lavorare, il clima culturale e sociale nei confronti degli stranieri etc. etc.

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Le politiche europee nei confronti degli immigrati si rifanno, fondamentalmente, a tre modelli: il modello assimilazionista francese, quello pluralista britannico e quello tedesco di istituzionalizzazione della precarietà (Colombo 2008). Il modello assimilazionista parte dal presupposto che l’appartenenza alla comunità nazionale debba fondarsi sulla condivisione di ideali e di tradizioni comuni. Tende appunto ad assimilare lo straniero perché pone lo Stato al di sopra di tutte le manifestazioni particolari e relega quest’ultime alla sola sfera privata. Il modello pluralista ammette un certo grado di diversità culturale nella sfera pubblica e concepisce lo Stato

particolare restringimento dell’economia, periodi di crisi o recessioni. In momenti di espansione economica invece sono sempre seguite aperture se non addirittura politiche di richiamo. Ma la motivazione che comporta le politiche di chiusura, al contrario della motivazione che comporta l’apertura, non trova le sue validità su base economica, bensì su base politica. Non c’è nessun rapporto tra crisi economiche e immigrazione, quindi le scelte politiche di chiusura sono immotivate e infondate, costruite socialmente, al fine di richiamare a raccolta l’elettorato contro un fittizio pericolo sociale, per motivazioni politiche.

“La svolta in senso restrittivo delle politiche migratorie contribuì, infatti, a definire socialmente – oltre che politicamente – l’immigrazione come un «pericolo», qualcosa da cui difendersi e da contenere nelle sue dimensioni” (Zanfrini 2007: 125).

Lo “straniero” è il pericolo ed è un pericolo per noi che siamo qui e dobbiamo subire la sua venuta. La nostra condizione è misera perché c’è lui. Se non ci fosse le cose andrebbero meglio.

Il fatto è, appunto, che questo “Noi” e “Loro”, nonché l’identità del territorio dove “Noi” viviamo è una costruzione sociale. Tale costruzione fa appello a quella che Marinella Pepe chiama la “Crisi narrativa dello Stato-nazione” (Pepe 2009).

“Nel processo di costruzione dell’idea di Stato-nazione giocano, altresì, un ruolo fondamentale i tre grands récits (Geertz 1999): patria, identità e nazione, nell’epoca degli Stati moderni, assumono il carattere di miti di fondazione, costruendo i presupposti dell’appartenenza” (ivi: 41).

Ma tali récits sono appunto costruzioni che hanno sacrificato, per istituirsi, la differenza insita nei territori in cui è stata applicata, appellandosi ad una presunta omogeneità culturale che ipotizzava una coincidenza tra popolo, etnia e organizzazione politica (Cotesta 2009, Zanfrini 2007).

“Contrariamente a quanto ha rivendicato il movimento nazionalistico del secolo scorso, la configurazione attuale dei rapporti tra i popoli non è basata sul principio secondo il quale ogni popolo dovrebbe avere un proprio territorio. Lo stato-nazione è più l’eccezione che la regola. Infatti, nonostante l’impegno profuso dal nazionalismo nel

l’identità nazionale come compatta e tradizionalmente costruita. Raramente accetta “naturalizzazioni” e quindi la cittadinanza dei nuovi arrivati, anche dopo la prima e la seconda generazione.

separare gli uomini gli uni dagli altri, il risultato ottenuto non è stato netto: un territorio, una cultura, una lingua, una religione, uno stato per un popolo. Su un territorio, entro uno stato vivono spesso uomini e donne differenti per la loro cultura, per la lingua che parlano e per la religione che praticano” (Cotesta 2009: 4).

I trasmigranti quindi, soggetti trasversali, con la loro semplice presenza, rompono con forza questa recita, fanno esplodere la bolla narrativa in voga fino a quel momento e mettono in discussione le categorie con le quali si è interpretata la società fino a quel momento, costringendola a ripensarsi (Sayad 2002). Specialmente a ripensare la cittadinanza, il fondamento della convivenza pacifica, delle pari opportunità e dell’uguaglianza tra gli uomini, che deve essere riformulata a partire dal presupposto delle appartenenze a territori differenti. Storicamente infatti, fin dall’origine della riflessione, stato-nazione e cittadinanza sono andati di pari passo, definendo reciprocamente confini e categorie.

“Il cittadino è un «luogo-uomo» se socialmente appartiene a qualcosa: ad un luogo, ad un tempo, ad una cultura. Il civis è legato all’appartenenza ad un territorio. E’ l’appartenenza orizzontale ad una comunità a costituire uno degli idealtipi del concetto di cittadinanza che trae origine fin dai tempi remoti della politeia greca. Questo è ciò che distingue il cittadino dallo straniero: l’appartenere ad un territorio” (De Vita in Canta 2010: 69).

La messa in crisi dell’appartenenza univoca che il trasmigrante si porta appresso nella società globale mette in discussione quindi anche il concetto di cittadinanza, auspicandone un cambiamento. Questo ci permette di dire insieme a Laura Zanfrini che “in realtà è lo stesso significato del termine cittadinanza che si sta modificando, via via che si indebolisce il suo esclusivo legame con un determinato Stato-nazione” (Zanfrini 2007: 79-80). A tal proposito Canta (2009c) propone di abbandonare la tradizionale definizione di cittadinanza di Marshall basata sulla distinzione tra diritti civili, politici e sociali, ampliandola con ulteriori diritti che abbiano altri centri semantici di validazione che non sia il solo Stato nazionale, tra i quali suggerisce il diritto al simbolo, il diritto ad appartenere all’umanità e il diritto al dialogo. E’ urgente infatti, alla luce dei cambiamenti postmoderni delle società globali, allontanarsi da una visione giuridicistica della cittadinanza, che fa del territorio di appartenenza il perno attorno a cui delinearsi, e approdare ad una visione che si fondi sulla «persona» e sulle sue situazioni sociali di appartenenza (gruppo, etnia, cultura, religione, ecc.). Si avrebbe allora un nuovo tipo di cittadinanza, originata dallo smascheramento teorico dell’auto-narrazione dello

Stato-nazione e praticamente dall’arrivo di flussi migratori tali da scompaginare la già traballante e presunta omogeneità di quest’ultimo. Si avrebbe così una «cittadinanza plurale» che riuscirebbe a rendere conto della co-appartenenza delle diversità presenti sul territorio proprio perché fondata sulla «straneità», “una dimensione costitutiva dell’uomo” (ivi: 66).