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Ritratti degli intervistat

Dentro le interviste

7.1 Ritratti degli intervistat

In ogni ritratto e trascrizione di parti dell’intervista il ricercatore è chiamato M e

l’intervistato K, per mantenere l’anonimato. Nella scheda personale è riportato il contesto, le prime impressioni e alcune considerazioni di sociologia visuale. Qui è anche riportata

l’orientazione degli interlocutori, che è molto importante per comprendere il tipo di configurazione spaziale che si è venuta a formare nel corso dell’intervista, alla quale corrisponde un tipo particolare di approccio psicologico. Il ritratto serve per avere una collocazione sociale e culturale della biografia della persona intervista, mentre gli elementi

importanti emersi dall’intervista sono più specificatamente inerenti il tema della morte.

Alla fine di ogni trascrizione dell’intervista è riportato il codice dell’intervista per poter risalire al ritratto.

Le persone intervistate sono state poi suddivise in base alle esperienze biografiche in tipologie le cui caratteristiche sono qui elencate:

Localistici:

L’appartenenza a questa categoria è suggerito dal fatto di aver vissuto molti anni in un posto specifico e di essere emigrati da adulti. Ciononostante possono essere persone che hanno scoperto in seguito alla migrazione di essere cittadini del mondo e rivendicano la loro identità globale (Localistici globalizzati) oppure persone con un forte senso di appartenenza alla propria terra di origine, il cui bisogno di emigrare è stato sempre accompagnato dalla voglia di ritornare un giorno (Localistici nostalgici).

Cosmopoliti:

A questa categoria appartengono persone che hanno viaggiato molto e le cui esperienze di vita, specialmente nell’infanzia, non sono riconducibili ad un unico paese di origine. Sono nati in un posto e mantengono un rapporto privilegiato con esso, ma la loro prospettiva è comunque cosmopolita. Possono essere persone che si sentono cittadini del mondo, figli della globalizzazione e che hanno una concezione del mondo intero come scenario di vita

(Cosmopoliti globalizzati). Ma anche persone che a causa del loro senso di sradicamento sognano un’identità particolare o immaginano di averla (Cosmopoliti nostalgici).

Il primo dei due termini quindi identifica le condizioni sociologiche oggettive del migrante, mentre il secondo termine la condizione soggettiva e percepita.

Intervista n° 1: videoregistrata: (Cod. 1).

Uomo, 45 anni. Paese di origine: Algeria. In Italia da più di 20 anni. Musulmano praticante.

Contesto, prime impressioni e appunti di sociologia visuale:

Orientazione degli interlocutori: uno di fronte all’altro, con M dietro alla telecamera.

L’intervista si svolge in un parco pubblico di Viterbo, il 16 luglio 2009. E’ estate e fa abbastanza caldo. K è seduto su di un muretto. Dietro di lui ha un tronco di un glicine ed il fogliame che scende. Indossa una camicia bianca e gli occhiali. La telecamera è sul cavalletto e M è situato dietro la telecamera che riprende. In sottofondo rumori di altalene, cicale, macchine che passano e varie voci di passanti. K usa poco la gesticolazione ma quando vuole sottolineare qualcosa di importante è come se si risvegliasse. Usa spesso come intercalare “cioè”, abbreviato nel suo modo di parlare italiano con “ciò” e anche “nel senso”.

Ritratto:

K è nato a Mascara in Algeria. Mascara è un paese che ha lo stesso numero di abitanti di Viterbo più o meno, quindi 60.000. Si è laureato a Firenze in Scienze Forestali, ma a causa della mancanza della cittadinanza italiana non ha potuto esercitare il lavoro per il quale ha studiato e questo gli dispiace. In principio aveva una borsa di studio, ma problemi di “politica economica” hanno fatto sì che ad un tratto fosse interrotta. Ha quindi completato gli studi pagandoseli da solo, lavorando, ma mettendoci molto più tempo. Ha fatto quindi il corso di mediatore culturale, grazie al quale adesso collabora con la Provincia di Viterbo. Vorrebbe tornare tanto in Algeria perché gli manca la famiglia e la vita sociale, ma non sa quando sarà possibile perché ora ci sono i figli. Ne ha due, di 11 e 5 anni. Loro si sentono al 100% italiani. Li ha mandati per la prima volta in Algeria quest’anno ma a loro già manca l’Italia e K non se la sente di tornare in Algeria con loro perché ha un’enorme paura di fargli rivivere il senso di sradicamento che ha vissuto lui.

“[…] li ho mandati quest’anno. Ma già son passati 15-20 giorni e gli manca sia i genitori, sia la casa loro, gli amici... gli manca tutto e questo... cioè non vorrei fargli rivivere la stessa mia vita, cioè lontano dai genitori, lontano da... ormai la casa loro è qui. C’ho paura nel senso di portarli giù e farli sradicare, è questa la paura... la mia paura grossa... nel senso” (Cod. 1).

Tipologia: localistica nostalgica.

Aspetti importanti emersi dall’intervista:

K è una persona che, oltre al fatto di vivere in prima persona la condizione dello straniero, ha anche una buona esperienza del mondo intimo dei migranti, grazie al suo lavoro di mediatore culturale. Molte sono le ore passate in colloquio con loro. Ebbene interrogato sulla questione della morte sostiene che essa è il pensiero fisso di tutti i migranti perché si intreccia necessariamente con il pensiero fisso del ritorno in patria. La morte allora sarebbe angosciante e fonte di ansia perché essa è l’ostacolo che si frappone tra l’adesso e l’aspettativa di tornare nella terra natale.

“La morte per noi è una cosa... un punto d’arrivo... e questo punto d’arrivo non saprai mai quando ci sarà. Può essere come domani può essere che ne so fra quanti anni... e questo pensiero è un pensiero che... ce l’abbiamo sempre nella testa. E’ la cosa che nel senso ci fa... ci fa pensare di tornare un giorno a casa, ma non è perché per lavoro, non è neanche per la famiglia, ma per un motivo grosso è questo qui: è per la morte. Perché noi cerchiamo di non pensarci però uno ci pensa ogni volta che va a letto ci pensa” (Cod. 1).

E’ stato più volte chiamato per risolvere le problematiche inerenti la morte dei musulmani e oltre alla trafila burocratica e al costo del rimpatrio della salma a suo avviso il problema principale è la velocità con cui devono essere sbrigate le pratiche sul morto che si scontra con la difficoltà di trovare gente pratica e professionale. Non è una persona qualunque quella che sa fare le pulizie adeguate e in Italia (e a maggior ragione nel viterbese) sono in pochi. Bisogna dunque chiamare qualcuno per esempio da Roma, ma appunto c’è il precetto islamico che questo avvenga entro due-tre giorni al massimo.

Sostiene inoltre il carattere edificante della morte. La morte non deve far paura perché è parte integrante della vita e proietta l’individuo in una dimensione superiore e migliore. Bisognerebbe parlarne di più, cercare di sfatare il tabù che la circonda. In merito ricorda il proverbio delle sue parti che dice “Cercate di parlare più spesso della morte” e nota come in

Algeria si parli molto della morte rispetto all’Italia. Questa familiarità della morte aiuta a vivere appieno la vita e a darle degli obbiettivi importanti. Ad un musulmano queste verità sono sempre presenti ma basta poco per fargliele scordare. E quando uno si scorda della verità è perché si scorda anche della morte e del giorno in cui comunque arriverà, chiamandoci per forza di cose ad un’interrogazione più ampia. Una persona che non fa il suo dovere per esempio non vorrà parlare della morte perché si sente impreparato.

“Parlare della morte, sia qui, sia nei paesi nostri, se tu parli con i giovani, è tabù. Non vogliono più sentire parlare perché non sono pronti e il problema dove sta? Il problema è che sanno, nel senso che dopo la morte per esempio sanno che, grazie alla religione, sanno che c’è una vita dopo, sanno che se non fai del bene qui dall’altra parte non sei ricompensato, quindi sanno... e lui sa che queste cose non le ha fatte e non le sta facendo... per lui è meglio non parlarci. Non sei preparato nel senso tu mi parli di un argomento di cui tu non sai niente e preferisco evitare questo. […] Se sei preparato non è più tabù, se non sei preparato... purtroppo è tabù” (Cod. 1).

Per K quindi all’origine della rimozione del pensiero della morte ci sarebbe la coscienza sporca di chi vive, di chi cioè ancora non è pronto eticamente e personalmente a morire e allora cerca di evitare l’argomento a tutti i costi.

Intervista n° 2, videoregistrata: (Cod. 2).

Donna, 40 anni. Paese di origine: Congo. In Italia da più di 20 anni. Cattolica non praticante.

Contesto, prime impressioni e appunti di sociologia visuale:

Orientazione degli interlocutori: uno affianco all’altro, sulla panchina di un giardino pubblico.

L’intervista si svolge in un piccolo parco di Viterbo, molto vicino alla sede di lavoro di K, la quale, per l’occasione, si assenta dalle faccende quotidiane per qualche decina di minuti. M aspetta che lei arrivi all’appuntamento. Fa un po’ di ritardo. Poi infine si siedono su di una panchina. K è un po’ preoccupata, ma disponibile. Perdono qualche minuto nella sistemazione dei microfoni e del volume dell’audio. L’inquadratura è un totale di tutti e due, poi nel corso dell’intervista M passerà ad un mezzo busto.

Ritratto:

K è una donna che si è spostata in principio dal Congo al Belgio, per studiare economia. E’ della capitale Kinshasa e nelle sue parole si ravvisa un forte amore per la sua terra e le sue radici. Per una famiglia benestante come la sua, avere una figlia che studia all’estero era fonte di prestigio sociale e questo è il motivo per cui lei è partita per l’Europa, ancora giovane. Successivamente si è spostata dal Belgio all’Italia per seguire il marito che studiava medicina alla Sapienza. Arrivata in Italia però ha dovuto interrompere gli studi universitari a causa di impedimenti burocratici e si è messa a lavorare. Ha due figli, uno di 14 e l’altro di 9 anni, i quali hanno subìto discriminazioni a scuola. Il figlio più grande, a causa di questi fatti, “ci tiene a rivendicare che lui è congolese, non è italiano”. La donna confessa con un certo rammarico che ora che è madre diventa quasi impossibile riprendere gli studi.

“[…]ho tagliato pensando di poter continuare qui in Italia e invece non c’è stato modo perché c’erano troppi vincoli quando sono arrivata io nel ‘89, specialmente per le facoltà come economia e poi manco un corso di formazione non c’era per gli immigrati e allora mi sono messa a lavorare normalmente. Poi i figli, poi facendo la mamma mi diventa un po’ più difficile di riprendere il cammino degli studi che vorrei tanto riprendere” (Cod. 2).

In principio si è trasferita a Roma ma successivamente, a causa degli affitti troppo alti, ha deciso di trasferirsi in provincia, dove la situazione degli alloggi è più abbordabile. Un altro motivo che ha dettato questo spostamento è stato che lei e suo marito non se la sentivano più di condividere l’appartamento con altri migranti e quindi hanno deciso di trovare un affitto in provincia, meno caro, dove poter stare soli. Prima di arrivare a Vetralla, dove vive attualmente, ha girato alcuni paesi del viterbese, Nepi e Fabbrica di Roma. Attualmente lavora come mediatrice culturale agli uffici per l’immigrazione della Provincia di Viterbo ed è presidentessa di una associazione culturale di donne immigrate, a Vetralla. E’ quindi anche una testimone privilegiata del fenomeno “immigrazione”.

Tipologia: localistica nostalgica.

Aspetti importanti emersi dall’intervista:

K vorrebbe tornare prima possibile in Congo perché quella terra le manca ed è bellissima. Secondo lei tutti i migranti vengono qui solo per stare poco e poi tornare, ma alla fine

viverla nella terra natale perché il senso della comunità lì è differente, più umano. La figura dei nonni è ancora importante e non, come qui in Europa, ingombrante.

“K:

[…] Anche la vecchiaia... io vedo che qui la vecchiaia non si vive così tanto... sei isolato... non c’hai gente attorno a te... invece da noi anzi un anziano, un anziano è come un bambino. E’ trattato come un bambino, è considerato un bambino, c’ha anzi la persona che c’ha più coccole... qui no!

M:

Qui è totalmente al di fuori della società e della famiglia.

K:

Da noi tutti i bambini stanno attorno a te. Nipoti, chi della famiglia, chi no. Del quartiere... sei nonno e nonna di tutti, di tutto il quartiere. Invece qui no, sei nonno perché sei nonno... c’hai l’età. Io guarda poi sempre nell’esperienza di lavoro perché ho lavorato tanti anni con gli anziani, quando vengono e ti raccontano: «C’ho mia figlia, mia nipote...» sono contenti di dire... però ti dicono: «Però non li vedo mai...» Cioè è tanto fiero di avere questi nipotini però non li vede mai. Io capisco che dobbiamo lavorare tutti, per carità, ormai la vita è quella, siamo tutti presi in questa vita frenetica di lavorare, correre, però insomma almeno una volta al mese... […]

M:

Non ti piace...

K:

No, non mi piace. E non vorrei ritrovarmi in questa condizione” (Cod. 2).

Per lei dunque esiste un altro approccio alla morte e alla vecchiaia in Congo, più “semplice e naturale”, quasi idilliaco. Comunque la morte avviene in mezzo ai cari e in tranquillità. L’ultimo tratto di strada della vita è altrettanto bello che l’infanzia, dove si viene ricoperti di attenzioni e non si deve pensare alle faccende faticose della vita. Anche per quanto riguarda i funerali non le piacerebbe che fossero fatti qui in Italia perché sono diversi e vengono vissuti in maniera differente, meno partecipata. In una definizione della morte dichiara che per i congolesi è “una separazione totale con i propri cari” il che sottolinea ancora di più l’importanza della comunità e della famiglia. Inoltre il pensiero del proprio corpo dentro la

bara trasportato da un aereo la inorridisce, perché sente il proprio corpo ridotto a merce.

“K:

[…] qui ho visto specialmente chi è tornato... tornare dentro una bara mi fa sempre un’impressione... (scuote la testa).

M: Brutta...

K:

Brutta perché mi sento... dico: «Oddio io che ho parlato fino ad adesso ora che non parlo più sono una merce» (fa gesto di repulsione con la mano)... mi ha sempre fatto... assistito tante volte con gli amici... non riesco mai ad arrivare fino alla fine perché ci rimango molto male” (cod. 2).

Intervista n° 3: videoregistrata: (Cod. 3).

Uomo, 35 anni. Paese di origine: Algeria. In Italia da 16 anni. Musulmano praticante.

Contesto, prime impressioni e appunti di sociologia visuale:

Orientazione degli interlocutori: ad angolo attorno ad un tavolo.

L’intervista si svolge a Villa San Giovanni in Tuscia, nella casa di K, una villetta su due piani, carina, moderna e confortevole. K e M si siedono attorno ad un tavolo di legno e K si dimostra da subito molto accogliente. Lascia uscire la moglie con i figli perché ci sia più silenzio e cerca di mettere M più a suo agio possibile. K è un uomo cordiale e sorridente. Indossa una maglietta a righe orizzontali bianche e rosse. M si mette a fianco a lui in modo da essere inquadrato anch’esso dalla telecamera. Dietro di loro un grande mobile a vetri con uno stereo e dei fiori. K usa spesso rivolgersi a Dio e abbandonarsi alla sua volontà. È molto religioso.

Ritratto:

K è fuggito dall’Algeria all’Italia nel 1993 per sottrarsi al servizio militare, molto duro e lungo. All’inizio per lui è stato difficile trovare un lavoro fisso che gli desse la possibilità di vivere e si è arrangiato un po’ come poteva. Lavorava in campagna, raccogliendo pomodori e olive. Grazie alla legge del 1996 si è potuto mettere in regola con il permesso di soggiorno ed è passato a lavorare con varie ditte nel settore edilizio, grazie alle quali ha potuto girare

l’Italia, cosa di cui va fiero.

“[…] la mattina il lunedì si parte, si va a Siena, si incomincia un lavoro, stai lì tutta la settimana, tutto spesato, albergo, ristorante, tutto spesato, con la ditta, poi finisci il lavoro e ti mandano a Parma, da Parma a Bolzano, da Bolzano a Roma, da Roma a l’Aquila (mima con le mani i vari spostamenti), dall’Aquila in Sicilia... poi ho dovuto licenziarmi da lì perché è rimasta mia moglie incinta […]” (Cod. 3).

Anche la moglie è algerina. Con lei ha due figli, due maschi, e aspetta il terzo, sperando che sia femmina. La sua famiglia è numerosissima (11 fratelli tutti sposati). Ha un fratello ad Orvieto, venuto in Italia dopo di lui.

Tipologia: localistica nostalgica.

Aspetti importanti emersi dall’intervista:

K è un ragazzo estremamente religioso. In ogni pensiero fa continuo riferimento ad Allah e non manca occasione di citare il Corano e i suoi insegnamenti. Anche la percezione della morte quindi è inquadrata in senso religioso e trapela un profondo senso di accettazione. Anzi: per lui la religione è l’unica cosa che permette l’accettazione della morte che altrimenti sarebbe insopportabile e a proposito cita un fatto personale di un amico molto caro morto qualche anno fa. Per lui inoltre morire qui significherebbe morire lontano dalla sua terra, la terra sacra dei padri e al di fuori dei dettami della sua religione. Auspica quindi il ritorno, prima o poi, ma per i figli la pensa diversamente.

“M:

[…] Pensi che per le seconde generazioni, cioè per i tuoi figli, sarà più facile vivere qui in Italia?

K:

Io sinceramente credo di si. Adesso diciamo... un po’ di scuro c’è... Proprio ieri partecipavamo ad una manifestazione a Roma che l’ha organizzata un sindacato, la CISL, e siamo andati, questa... praticamente per noi immigrati... ma non è vero che... adesso per gli immigrati ci sono delle leggi un po’ giuste e un po’ di leggi... via... Per esempio una di questi è che i bambini che sono nati qua perché non possono avere la cittadinanza? Io penso che si cambia un po’ la legge i nostri figli diventeranno italiani subito da adesso, loro magari possono fare delle cose che non abbia... che non abbiamo

potuto fare noi, tipo che ne so… un cimitero per i musulmani, perché no? Prima o poi uno di loro studierà, diventerà qualcosa, diventerà un quadro dentro a questo Stato, se va a scuola e avranno pure pure i loro... delle cose da dire... se capitano queste cose... speriamo... Anche perché se c’è mio figlio qua, magari è un cittadino italiano e c’ha la moschea... non dico... magari a Viterbo... un cimitero a Viterbo... è un cittadino... non gli manca niente.

[…] Anche in futuro che magari muore qua, c’ha una comunità che lo accoglie alle stesse condizioni di giù” (Cod. 3).

In Italia si trova molto bene e in Provincia di Viterbo anche. Ma interrogato su cosa gli dia fastidio della società italiana risponde: la volgarità. La volgarità della televisione, la volgarità delle persone per le strade, la mancanza di educazione. Trova difficoltà a far vedere tutto ciò ai suoi figli.

Intervista n° 4: audio registrata: (Cod. 4).

Donna, 40 anni. Paese di origine: Algeria. In Italia da 11 anni. Musulmana non praticante.

Contesto, prime impressioni e appunti di sociologia visuale:

Orientazione degli interlocutori: uno di fronte all’altro, con un tavolo in mezzo.

K ed M si incontrano al bar dove K lavora insieme al marito italiano, ad Acquapendente, dopodiché si spostano in un appartamento vicino al bar, non utilizzato da nessuno. Fa freddo perché la casa non è scaldata e tutto è in disordine. K apre le finestre e i due si siedono su due poltrone diverse. K preferisce non essere ripresa con la telecamera, ma acconsente alla registrazione dell’audio dell’intervista. K parla poco e risponde precisa e concisa alle domande.

Il microfono viene posto al centro di un tavolo.

Ritratto:

K è medico. E’ nata ad Algeri e ha studiato in patria. Di famiglia benestante è venuta in Italia appositamente per sposarsi, dopo aver conosciuto il suo attuale marito, italiano, in Algeria. E’ sposata da 10 anni e ha due figlie. Arrivata in Italia ha dovuto faticare non poco per ottenere il riconoscimento della sua laurea. Il ricordo di questo percorso formativo le crea disagio perché è stata vittima di discriminazioni all’interno dell’università “La Sapienza”.

“M:

Tu hai ricevuto... hai avuto problemi di razzismo?

K:

Si. Si, si, si. Purtroppo non mi immaginavo ma si, quando mi sono laureata mi hanno fatto laureare per ultima anche se ero la prima. Prima facevano laureare tutti gli italiani e gli stranieri per ultimi. Fu una cosa flagrante, ridicola e poi anche il punteggio. Mi diedero 2 punti anche se avevo fatto tutto bene secondo il professore, come gli altri.