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L’uguale morte del diverso

Il migrante e la morte

4.3 L’uguale morte del diverso

Esistono diversi modi di essere l’Altro. Sembrerebbe, di primo acchito, che l’Altro sia innanzitutto ciò che io non sono, colui che sento esterno a me stesso in quanto individualità. Il prossimo, semplicemente l’Altro come estraneo a me stesso. Questa visione si poggia sulla presunta coerenza e identità della soggettività, che dunque viene pensata come l’atomo per poter comprendere chi è l’esterno. Eppure la complessità della psiche è tale che a volte ci si sente estranei alla presenza di noi stessi, non ci si riconosce in determinate azioni o parole, ci si sorprende di se stessi, per non parlare dei casi di personalità multiple, o anche delle credenze sui demoni che abitano i corpi e le possessioni in generale o come abbiamo visto sulla credenza del doppio come incarnazione dell’alter ego. La frammentazione sembrerebbe dunque sempre possibile e a diversi livelli. Essa rende difficile stabilire con certezza dove risieda una sostanza indivisibile e familiare in modo da poter parlare in termini assoluti di una presenza “propria” e non “altra”. Essa opera, potremmo dire “sorprendentemente”, verso l’interno alla stessa stregua di come l’unificazione “sorprendentemente” opera verso l’esterno. L’Altro infatti è sempre tale in relazione ad una definizione di se stessi e il se stessi molto spesso non coincide con l’individuo. Se il nostro punto di riferimento infatti è l’appartenenza

ad una nazionalità di cui ci sentiamo “parte”, l’Altro sarà lo “Straniero”, colui che viene da fuori e appartiene ad un’altra nazionalità. Ma si può definire l’Altro anche sulla base di una cultura altra, di un credo altro, di una visione altra e non necessariamente di una nazionalità diversa. L’altro a questo punto non è mai qualcosa di fisso, ma dipende dal modo con cui addensiamo la diversità del reale. Ciò che è fisso invece sono gli attributi di questa concettualizzazione. Mentre “me” e “altro” cambiano a seconda delle concettualizzazioni, quello che non cambia sono gli attributi dell’alterità. Un attributo dell’alterità infatti è sempre la diversità. Si stabilisce infatti l’identità di qualcuno (personale, sociale, etnica, nazionale) in base ad una omogeneità e costanza che, automaticamente, gestalticamente, staglia sullo sfondo il “diverso”.

Per quanto riguarda la morte queste suddivisioni e teorizzazioni sono estremamente importanti, perché la morte produce i suoi effetti, sia “spaesanti” che “angoscianti”, ma anche “benefici” (par. 1.1 e 1.2), solo quando la differenza tra un presunto altro da me si lacera, si dissolve, e mi fa sentire parte di quella stessa morte, diversa dalla mia e allo stesso tempo identica. E’ solo grazie al fatto che io e te siamo uguali, appartenenti ad uno stesso insieme, che la tua morte può riguardare, sia razionalmente che emotivamente, anche me. E’ solo grazie al comune destino di tutti noi, ovvero la morte, che la diversità si dissolve e lascia spazio all’uguaglianza. Avevamo posto delle differenze che distinguevano il “me” dal “te”, ma c’è qualcosa che non può essere diverso tra “me” e “te” ed è il nostro destino, il nostro essere mortali, e quindi in presenza di questo pensiero le differenze svaniscono come d’incanto. Alberto Moravia di fronte al monumento eretto in ricordo di Hiroshima, cioè di fronte alla materializzazione della più sanguinosa azione umana mai compiuta, ebbe l’illuminazione di far parte di un unico grande essere vivente al di là dei nazionalismi. Tutto il genere umano è un’unica cosa e non è un caso che questo sentimento possa essere provato proprio in presenza di un monumento che ricorda la morte. E’ solo grazie alla morte che infatti ci si può unire in un destino comune: la morte ci accomuna e ci livella.

“In quel preciso momento, il monumento eretto in memoria del giorno più infausto di tutta la storia dell’umanità, ha agito dentro di me. Ad un tratto ho capito che il monumento esigeva da me che mi riconoscessi non più cittadino di una determinata nazione, appartenente ad una determinata cultura, bensì, in qualche modo zoologicamente ma anche religiosamente, membro, come ho detto, della specie” (Moravia 2008: XLIII).

Il “si muore” impersonale di Heidegger invece è la morte di qualcuno che, in quanto diverso, è anche lontano e ininfluente sui nostri stati interiori. La morte di chi ci è lontano, la morte dei telegiornali, non ci sconvolge perché non c’è immedesimazione. Non siamo noi ad essere morti ma qualcun altro, può essere italiano o straniero, concittadino o vicino di casa, non importa. Prima o poi arriverà il nostro turno o il turno di qualcuno che ci è così vicino da toccarci dentro, ma non ora. La campana che suona non è per noi. Questa consapevolezza non è la consapevolezza che ci interessa perché non produce cambiamenti interiori, non innesca nuovi processi o cambiamenti. Questa consapevolezza della morte giace sullo sfondo come uno pseudo pensiero, un pensiero a metà. Sia detto per inciso: è una fortuna che sia così. La morte non può e non deve innescare un processo di cambiamento sempre e comunque. La nostra quotidianità non può sopportare tale shock continuamente. A tal punto questo shock deve essere centellinato che Sozzi ipotizza l’origine della rimozione della morte da parte dell’occidente nella barbarie della Seconda Guerra mondiale. Troppe morti tutte insieme infatti avrebbero comportato un’impossibilità nella rielaborazione dei lutti e di conseguenza, potremmo dire, un’anestetizzazione alla morte stessa (Sozzi 2010). La morte impersonale quindi, il “si muore” che non ci tocca emotivamente, non è solo e soltanto un pensiero negativo, è anche una difesa che protegge la nostra stessa vita dalla possibilità di vivere con una certa costanza e serenità. Non si può vivere ad ogni istante la vita autentica di Heidegger, anche solo per il fatto che essa è caratterizzata dall’angoscia di vivere, così come non si può sostare perennemente nella verità, ma essa è un sipario che si apre a tratti, è una radura tra i boschi. Troppe morti, troppa coscienza della verità su se stessi e sul proprio destino, sarebbero un fardello insopportabile per chiunque. Impossibile non cedere, impossibile per la debole psiche umana anche esperire più lutti contemporaneamente. La morte non può e non deve essere un’ossessione che ci ostacolerebbe, ma quando accade, ci colpisce e ci traumatizza, non può e non deve essere lasciata irrisolta.

Quello che dobbiamo fare quindi, nel tempo e molto lentamente, è cercare di sentire la morte del diverso (quindi non di colui che è altro ma ci è familiare), come una morte che ci appartiene lo stesso. In questa maniera, proprio come è accaduto a Moravia di fronte al monumento di Hiroshima, capire che il mondo è animato da uomini tutti uguali tra loro e fratelli. E questo è possibile farlo, principalmente, tramite l’incontro con la morte dell’altro, anzi con la morte del “diversamente altro”, perché è proprio tramite quella morte che non dovrebbe toccarci emotivamente, ma che infine lo fa, che i confini della mia persona possono ampliarsi e arrivare a farmi sentire composto nella mia personalità non solo dalle mia amicizie o dalla mia piccola comunità, ma dall’intero genere umano.

“La speranza è che il ritrovarsi affratellati nel ricordo dei propri morti possa approfondire le ragioni del rispetto, del dialogo, della pace”57 (Macioti, Pugliese 2003: 151).

Ritrovarsi affratellati nel ricordo dei morti o nella celebrazione dei morti significa sentire su di sé il mistero della morte e allo stesso tempo sentire che questo destino è comune a coloro che mi sono affianco (Morandi in Martelli 2005).

4.4 Il viaggio iniziatico dei migranti attraverso le “Acque della Morte” del