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Riflessioni sull’individuo ed il suo essere con gli altr

C’è un tipo di conforto che può giungere ai mortali ed è il senso di appartenenza ad una comunità. Ci si identifica in essa e attraverso essa si permane nel tempo nonostante per noi il tempo sia giunto a compimento. Esistono infatti risposte non solo religiose alla morte, ma anche laiche e immanenti, come sono stati i tentativi di creare una ritualizzazione in URSS che avesse un centro nelle idee di “nazione”, di “patria” e di “storia”9.

D’altro canto maggiore è il grado di individualizzazione di una società maggiore sarà il senso di spaesamento di fronte alla morte. L’individuo a se stante, indipendente e autarchico, l’homo clausus criticato da Elias (1995) trova infatti nella morte l’aporia più significativa. A che pro vivere di se stessi e basta se il mio “Io” si dissolverà con me e non lascerà traccia nel futuro degli altri? Rimossa fino all’ultimo istante della nostra vita, la morte, ad un tratto ed infine, non può che non irrompere e ci costringe a fare i conti con il senso della vita. Chi vive in una situazione di emarginazione, di superficiale appartenenza e frammentarietà come possono essere i rapporti della post-modernità, di autonomia economica ma senza un reale capitale sociale, proverà disagio, angoscia e sofferenza di fronte alla morte, proprio come ci è stato perfettamente descritto da Elias in “La solitudine del morente” (ivi).

Anche per Natoli l’individualismo della nostra società contemporanea è alla base del modo problematico in cui esperiamo la morte:

“Nella società contemporanea la morte è nascosta. Ciò accade non tanto e non solo perché gli altri ci trascurino o ci abbandonino, ma perché l’individualismo moderno ha

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spinto gli uomini a costruirsi un proprio mondo, una vita relativamente indipendente” (Natoli 2010: 173).

Da questo vivere per sé, da questa contrattazione dei legami volta per volta, riproduzione su scala interpersonale dei meccanismi del freddo commercio delle equivalenze, deriva un’emancipazione dai vincoli stretti della comunità che precedentemente gestiva nascita, crescita, vita e morte. Tutto ciò ha sicuramente dei vantaggi dal punto di vista della liberta e anche dell’autenticità dei rapporti, ma è la causa di molte morti anonime. Queste sono tali “perché vi sono uomini che hanno vissuto la loro vita sciolti da ogni legame e ignorando perfino se stessi, fuggendosi” (ivi: 174).

Il semplice “stare insieme” invece è come se modificasse il senso complessivo della morte, come se desse all’uomo dei nuovi modi per scorgere nell’aspetto della morte qualcosa di meno terrificante. La morte, osservata con gli occhi di chi appartiene ad una fitta rete di relazioni interpersonali, è sicuramente meno opprimente e “personale”. Se infatti “Io” non è solo me stesso e basta, se i miei confini non finiscono lì dove ha termine la mia pelle, ma appartiene ad un “Noi” che mi trascende, che sopravvivrà a me stesso e con cui sono in collegamento, ecco che la morte del mio “Io” non significa, in toto, la mia fine.

Ancora nelle parole di Lévinas un aiuto per la comprensione di questo aspetto: “Io mi avvicino all’Infinito nella misura in cui dimentico me stesso per il mio prossimo che mi guarda” (Lévinas 1997: 57). L’Infinito, l’immortalità, appannaggio esclusivo della riflessione teoretica, sfonda i confini del soggetto nel quale non riesce a trovare il proprio fondamento e approda in una sfera più ampia, il “Noi”. Scrive Bauman su Lévinas:

“Lévinas nega che l’esistenza e la soggettività siano fonti della moralità – il «faccia a faccia», il centro della relazione morale, dell’«esistere per», è collocato al di fuori della riserva di caccia di entrambe. L’etica, insiste Lévinas, è «la prima filosofia»; la moralità è antecedente all’essere” (Bauman 1995: 56).

A questo punto l’immortalità partecipa del mio destino solo se io rinuncio alla mia persona e mi rivolgo agli altri, vivo per gli altri. Nel caso contrario annasperò nel tentativo di soffocare il dolore che attanaglia la mia solitudine tanto quanto ho cercato di vivere in totale autarchia e indipendenza dagli altri.

vuoto sarà altresì privato, come lo è stata la mia vita. La mia morte sarà un non-evento, a meno che io non faccia qualcosa per cambiare tutto ciò: a meno che non costringa gli altri a esistere per me con quella stessa fermezza con cui ho rifiutato di esistere per loro, e mi imponga con la stessa risolutezza con cui mi sono negato…” (ivi: 64).

Nel film di Bergman “Il settimo sigillo” il personaggio principale Antonius Block, cavaliere di ritorno dalle crociate, ha un unico momento di apparente sopraffazione della morte nella famosa partita a scacchi che lo impegnerà per tutto l’arco della narrazione ed è proprio successivamente ad uno spensierato e piacevole pasto consumato insieme a dei saltimbanchi incontrati per la via. L’unica alternativa alla fede, che non riesce ad avere e che lo salverebbe dalla paura della morte, sembra dunque essere la condivisione delle bellezze e delle piccole cose della vita con gli altri.

Antonius Block: “La fede è una pena così dolorosa… E’ come amare qualcuno che è lì fuori al buio e che non si mostra mai per quanto lo si invochi. (Pausa) Come tutto questo mi sembra irreale ora che sono qui con voi e con vostro marito. Tutto appare così diverso…

Mia: “(Ride) Adesso non avete più l’aria seria…”.

Antonius Block: “Lo ricorderò questo momento. Il silenzio del crepuscolo, il profumo delle fragole, la ciotola del latte, i vostri volti su cui discende la sera, Michael che dorme sul carro, Giobbe e la sua lira. Cercherò di ricordarmi quello che abbiamo detto e porterò con me questo ricordo delicatamente, come se fosse una coppa di latte appena munto che non si vuol versare. (Beve del latte dalla ciotola facendo la massima attenzione) E sarà per me un conforto. Qualcosa in cui credere” (Bergman 1957).

Qualcosa in cui credere significa qualcosa di trascendente in cui finalmente riposare e trovare pace nonostante la forza della chiarezza della morte. Qualcosa di trascendente significa qualcosa che esiste oltre me e la mia individualità. Trascendente significa allora non ciò che trascende la realtà mutevole, bensì qualcosa che va oltre la mia individualità, cioè in

primis gli altri.

“Dove il cavaliere coglie il senso della realtà e della vita? Nelle piccole cose e nel parlare con uomini comuni, perché «è sempre meglio quando si è in due», gli dice Mia. Essere con se stessi è la peggiore compagnia” (Invitto 2005: 99).

Questa trascendenza è diversa da quella religiosa dunque, ma sembra porre rimedio alla sofferenza causata dal pensiero della propria morte con simile efficacia, così come stare insieme per la morte di una persona cara è sempre meglio che sprofondare nel dolore da soli.

In sintesi: la scoperta della soggetto per l’Occidente ad opera della filosofia greca, ha portato inevitabilmente a conseguenze logiche simili al solipsismo. E’ come se l’Occidente, operando una frattura non solo tra essere e non-essere, ma anche tra oggetto e soggetto e privilegiando solo quest’ultimo come generatore di senso, abbia perduto la capacità di trovare un senso che lo trascenda, non potendo il soggetto auto-fondarsi o auto-trascendersi.

Siamo partiti dalla filosofia e siamo inaspettatamente e silenziosamente arrivati a parlare di comunità, un tema che inerisce squisitamente alla riflessione sociologica e antropologica, che saranno oggetto di analisi nel prossimo capitolo. In questo percorso abbiamo quindi ravvisato come dietro al processo di individualizzazione dell’Occidente (Cavicchia Scalamonti 2007: cap I) non ci sia nient’altro che la storia della filosofia, il suo pensare il mondo e il soggetto. Questo è possibile perché la filosofia e ciò che sta dietro e non si vede, ciò che maggiormente, con le sue apparentemente astrazioni, ha creato concretamente la cultura dominante di oggi.

Severino scrive:

“Si tratta di capire che la filosofia è il grembo: ha preparato il terreno in cui è cresciuto non solo il nostro modo di pensare, ma il nostro modo di agire” (Severino in Monti 2009: 152).

E poi ancora:

“Le cose decisive non sono a fior di pelle, non stanno al balcone dove qualsiasi passante le può vedere. Stanno nel sottosuolo che, se non ci fosse, qualsiasi passante cadrebbe nel vuoto” (ivi: 152).

Qui Severino è chiaro e insieme a lui Jullien:

“E’ tempo di rilevare come queste scelte greche, che sembrerebbero mere questioni accademiche, abbiano segnato l’intelligenza europea. Non vanno infatti da sé; hanno pertanto un’incidenza, certo sotterranea, ma decisiva, sul modo in cui concepiamo la vita” (Jullien: 86).

La filosofia è quel sottosuolo che sostiene un’intera cultura ed è questa cultura che plasma la persona e gli permette di avere determinate azioni e reazioni, ma anche emozioni e sensazioni. La morte e le emozioni che ne seguono infatti non fanno eccezione a questa regola.

“La varietà delle emozioni relative alla perdita mette in crisi la concezione di un lutto universalmente sperimentato in virtù della comune umanità degli uomini. L’idea che le emozioni siano culturalmente condizionate è condivisa dalla maggior parte degli antropologi. […] Ogni società costruisce socialmente le emozioni dei propri membri, stabilendo il campo delle possibilità più o meno rigidamente” (Sozzi 2009: 131).

E’ proprio perché esiste quest’intima connessione tra sottosuolo filosofico, culture ed emozioni che ho sentito la necessita di iniziare la presente ricerca sulla morte con una analisi dettagliata del substrato filosofico che giace al fondo della nostra cultura. D’altronde la situazione culturale nel mondo occidentale di oggi è simile a quella che molti biologi paventano per le specie animali e vegetali: siamo di fronte ad una perdita generale della biodiversità, che si traduce in perdita di informazione complessiva sul mondo e la realtà. Ogni specie è un bagaglio genetico importantissimo su come far fronte alle esigenze della sopravvivenza, una saggezza di vita riposta nel cuore stesso della vita. Un tesoro da salvaguardare. Allo stesso modo ogni cultura è un modo diverso, seppure non esauriente, che gli uomini adottano per far fronte alle difficoltà dell’esistenza, alle esigenze del vivere insieme, alle instabilità provocate dai lutti. E su questo punto la situazione è altrettanto preoccupante di quella che spaventa i biologi.

In conclusione: se la cultura che dominerà sarà quella occidentale e se per la cultura occidentale la morte è annientamento, allora il risultato è che questa visione della morte si potrebbe imporre a macchia d’olio nel resto del mondo.

“Per la cultura dominante, che si sta imponendo anche in India, in Cina, in Oriente, la morte è annientamento – anche se le varie forme di tradizione puntano i piedi prima di farsi seppellire” (Severino in Monti 2009: 152).

Per nostra fortuna le carte sono rimescolabili e rimescolate di continuo. In particolare la nostra cultura, così imperniata ed imbevuta di filosofia greca, può oggi avere una possibilità di rinnovamento grazie all’incontro con gli altri e la loro diversa storia culturale.

Cap. II