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Lo straniero come incarnazione del “doppio”

Il migrante e la morte

4.7 Lo straniero come incarnazione del “doppio”

Stupisce, nell’accostarsi agli studi sui migranti, la mole di metafore che usano coppie di concetti per spiegare l’essenza e la complessità del fenomeno. Abbiamo già visto nel paragrafo 5 di questo capitolo come per Simmel lo straniero è caratterizzato dall’essere allo stesso tempo lontano e vicino. Sayad poi parla di “doppia assenza” (Sayad 2002) a cui il migrante sarebbe condannato, straniero fuori dal paese di origine e straniero nuovamente in casa nel momento del ritorno, perché tutto è cambiato e gli altri hanno fatto come se lui non ci fosse più. Altre volte invece il migrante occupa uno dei due posti di una coppia di termini: persona e non-persona (Dal Lago 2001). Inoltre, come visto (cap. 3.1), sembra essere essenziale per tracciare confini nazionali ben precisi: straniero e non, cittadino e non, extracomunitario e comunitario, clandestino e regolare. Insomma sembra sempre, che in un modo o in un altro, il “due”, parlando di migranti, debba uscir fuori. Ma perché?

Seguendo il filo di “Lo straniero” di Umberto Curi (2010) troviamo, in primis, la constatazione che lo straniero è ambivalente per natura, anzi è l’ambivalenza stessa. Questa connaturata ambivalenza è tale perché lo straniero è percepito come minaccia e allo stesso tempo come dono, perché scompagina la nostra quotidianità, apre lo sguardo a qualcos’altro che non conoscevamo; è l’irrompere del non-conosciuto là dove pensavamo di aver conosciuto e previsto tutto. Egli minaccia quindi la mia identità stabilizzata e allo stesso tempo le conferisce il suo vero spessore perché, come se fossi davanti ad uno specchio, io comprendo chi sono grazie alla sua parete riflettente. Sayad definisce questa caratteristica la “funzione specchio dei fenomeni migratori” (Sayad 2002). Lo straniero, continuando con le immagini metaforiche, potrebbe essere definito il paesaggio umano grazie al quale può risaltare una figura in primo piano, lo sfondo grazie al quale può esistere la prospettiva. Egli è perciò anche il più grande dei doni, perché tramite la relazione che instauro con lui afferro davvero l’entità della mia essenza, in quanto lì dove non c’è il due, non c’è nemmeno l’uno e “l’uno è frazione di due”.

L’effetto che produce l’incontro con questa duplicità incarnata nello straniero, esterna a me ma anche interna, è “perturbante” (Unheimliches)65 perché, fondamentalmente, egli rievoca l’intrinseca duplicità dell’uomo, ovvero il “doppio” (cfr. 2.4), inteso come ombra, riflesso o

alter ego, che per sua natura produce un profondo senso di angoscia, generata dal riemergere

dall’inconscio della società del suo “non-detto”.

“Abitualmente si parla di ‘funzione specchio dell’immigrazione’, cioè dell’occasione privilegiata che essa costituisce per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di ‘innocenza’ o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire (ecco l’effetto specchio) ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o non pensato sociale” (Sayad 2002: 10).

65

Il termine “perturbante”, nel senso in cui lo intende Curi nella sua analisi è di derivazione freudiana, fondamentalmente espressa nei testi Il perturbante (1919) (in Freud 1977) e Al di là del principio del piacere (1920) (in Freud 1977), ma già anticipato dalla narrativa fantastica del romanticismo con Hoffmann (in special mondo in L’uomo della sabbia) o nei testi filosofici di Schelling del 1846 (Schelling 1990: 474). Italo Calvino a proposito de L’uomo della sabbia di Hoffmann disse: “La scoperta dell'inconscio avviene qui, nella letteratura romantica fantastica, quasi cent'anni prima che ne venga data una definizione teorica”. Ed ecco qual è la definizione teorica: “Giunti a questo punto, alla luce del percorso compiuto Freud si dichiara in grado di indicare quale sia «la natura segreta del perturbante». Questo elemento «perturbante non è in realtà niente di nuovo o di

estraneo, ma è invece un che di familiare alla vita psichica fin da tempi antichissimi». Esso consiste, infatti, in

un affetto o in un’emozione che sia stata trasformata in angoscia per effetto della rimozione. Fra le cose angosciose, vi è un gruppo nel quale «è possibile scorgere che l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che

Lo straniero quindi essendo estraneo e familiare, ovvero lontano e vicino, come sostiene Simmel, prossimo eppure profondamente distante, minaccia e dono, lascia addosso la sensazione dello spaesamento, come se avessimo perso il nostro centro di gravità, caro e tranquillizzante. Difatti la sensazione che accompagna il “due” non è mai pacifica e lineare. Davanti ai gemelli o al sosia, per esempio, restiamo turbati perché siamo portati a riconoscere qualcosa di familiare, ma allo stesso tempo ad intuire una profonda alterità e distanza. Inoltre: così come la sensazione prodotta dall’incontro con “il doppio” è angosciante, così questo incontro rievoca la morte, da cui, paradossalmente, il “doppio” si propone di salvare. Il doppio infatti salva dalla morte (cap 2.4) e per ciò stesso la rievoca nel suo manifestarsi a noi.

“Indipendentemente dai casi particolari, esso consiste in sintesi nell’imbattersi in qualcosa che è capace di evocare in noi il senso della morte, come conseguenza della scoperta di una ineludibile duplicità. A turbarmi profondamente è la consapevolezza che ciò con cui entro in rapporto è, in se stesso, irriducibilmente duplice; è uno e molti; è una cosa e insieme anche il suo opposto” (Curi 2010: 43).

Così come è nella morte dell’altro che mi si palesa la mia individualità (Morin 1980) allo stesso modo è nell’incontro con l’altro che mi si manifesta la morte e la precarietà della vita.

“Gli immigrati, pertanto, attirano su di sé accuse che richiamano metaforicamente la profonda paura della morte e della malattia portatrice di morte. Essi divulgano il segreto attentamente conservato; mettono a nudo e svelano simbolicamente la fondamentale precarietà delle difese umane e la futilità di ogni pretesa di durevolezza delle soluzioni umane. Sono spaventosi, in verità, proprio come la malattia, per la loro inquietante inclinazione a rendere visibile a rendere visibile ciò che si cerca con energia, e con vario successo, di rimuovere dalla vista e sradicare dalla memoria” (Bauman 1995: 205).

L’incontro con lo straniero è allora “perturbante” e quindi ambivalente, difficile e mai lineare, pieno di malintesi comunicativi, come sostiene La Cecla (2009). Inutile adottare un approccio che non renda conto di questi due poli opposti, come vorrebbe chi perdura in una visione dello straniero solo come nemico o, viceversa, come chi vede nello straniero l’amico a tutti i costi.

Una cosa rimane certa: in una realtà come quella occidentale che ha svalutato il doppio (Morin 1980) e il suo potere trascendente, che ne ha fatto un essere larvale introiettato nelle profondità dell’anima (Baudrillard 1979), che non crede più alla presenza di fantasmi o spiriti

che perturbano, di santi protettori o angeli custodi, la presenza reale dello straniero è forse il sostituto più efficace del produttivo perturbante, che ci fa incontrare noi stessi altrimenti disgiunti. E se l’uomo moderno si sente scisso in due come il protagonista di Delitto e castigo (ovvero Raskol’nikov che, appunto, significa “scisso in due”) perché non trova, fondamentalmente, soluzione alla morte e quindi alla vita, l’incontro con lo straniero è l’unica possibilità per ritrovare quella parte mancante di sé che è l’altro da sé e allo stesso tempo ci è familiare.

“La separatezza, l’essere in-dividui, coincide dunque con la malattia, tanto quanto il ripristino della salute si identifica con il processo che conduce a ripristinare la forma piena originaria – dal due, l’uno (ex dyoin hen). E poiché Eros è per l’appunto ciò che incessantemente sospinge verso la ricostituzione di quell’«uno che eravamo», esso è, nel contempo, coscienza della costitutiva direttività del nostro essere attuale, e stimolo verso quella forma perfetta rispetto alla quale ciascuno di noi è soltanto un symbolon” (Curi 2010: 95).