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La videoregistrazione dell’intervista

La metodologia della ricerca

6.2 La videoregistrazione dell’intervista

Dopo aver motivato la scelta delle interviste semi-strutturate per questo tipo di ricerca è opportuno e corretto motivare anche la scelta della videoregistrazione delle interviste e giustificarne l’uso. Non tutti gli strumenti sono identici infatti e producono gli stessi effetti e risposte. Una descrizione scritta a posteriori delle opinioni rilasciate è una cosa, mentre un’intervista davanti ad una videocamera, con tanto di led rosso acceso e magari un piccolo faro per l’illuminazione puntato sul viso affinché l’immagine sia più nitida, è totalmente un’altra. Qui in gioco è la neutralità e l’alterazione, sia emotiva che concettuale, del mondo del soggetto che stiamo intervistando. Più un soggetto infatti si sentirà sotto pressione e “osservato”, più tenderà ad alterare le proprie opinioni, magari facendole assomigliare il più possibile a quelle che lui considera socialmente accettate ed innocue per la sua persona, secondo il noto fenomeno della desiderabilità sociale (Phillips 1972: 193). Il fatto di poter essere riconosciuti, grazie ad un’immagine video, con una certezza a dir poco assoluta, rende difatti l’intervistato molto più accorto nell’esprimere le proprie opinioni recondite e segrete, magari proprio quelle che per il sociologo sarebbero più rilevanti. E non è un caso se la preoccupazione principale del sociologo visuale, dopo aver effettuato l’intervista, è quella di farsi rilasciare la liberatoria per le immagini, senza della quale il suo lavoro risulterebbe necessariamente ed ovviamente vano.

Ma la videoregistrazione dell’intervista, benché da molti sia temuta più di quella audioregistrata o di quella avente come ausilio il solo taccuino, con il passare dei primi momenti di imbarazzo lascia spazio alla scioltezza e alla spontaneità dell’intervistato. Vorrei coniare a riguardo un’espressione che secondo me esprime il concetto meglio di ogni altra cosa: la curva di alterazione. A mio avviso infatti nel corso dell’intervista videoregistrata, esiste una curva di consapevolezza dello strumento usato e di alterazione del proprio vissuto, che varia dall’inizio alla fine. Lo strumento è percepito molto durante i primi minuti, durante i quali è ingombrante, mentre col passare del tempo diventa un oggetto sullo sfondo che sappiamo esserci, ma che teniamo presente con la coda dell’occhio e che non ci imbarazza più come all’inizio. Di conseguenza sarebbe corretto affermare che col tempo diventa trascurabile anche l’effetto di turbamento dell’intervista. Ci si accorge di questa curva semplicemente da come l’intervistato non se ne cura più, dal modo di comunicare e dalla scioltezza della parlantina. Ma non tutte le interviste sono state registrate con la telecamera e io ho notato che un forte imbarazzo è provato, al principio di ogni intervista, al di là dello strumento di registrazione usato. E’ come se perfino l’intervistatore fosse percepito come uno strumento di

registrazione e quindi si può sostenere che il più delle volte non è tanto lo strumento ad essere imbarazzante, quanto l’atto stesso di essere intervistati da qualcuno. Nonostante queste considerazioni, dopo la prima intervista effettuata in maniera classica, ovvero dietro la cinepresa a mò di cameraman, ho preferito adottare una strategia più “partecipante”, includendomi all’interno della ripresa stessa, al fine di non concentrare l’attenzione del soggetto sull’obiettivo della telecamera. Infatti l’atto del filmare dà l’impressione di essere molto aggressivo e non è un caso se Prosser e Schwartz sottolineino quanto sia minaccioso per chi è dall’altra parte, sottoposto ad una specie di “puntamento”, come davanti ad una pistola o ad un mitragliatore (Prosser, Schwartz 1998). Spostandomi dunque all’interno dell’area cerco di far comprendere a chi è sottoposto a questo “puntamento” che anch’io sono in gioco in quel momento, in accordo con le impostazioni teoriche che vedono il ricercatore al centro del processo di costruzione della realtà e non ai margini o addirittura all’esterno. La presenza dello strumento infatti (di qualsiasi strumento) non è mai astratta, neutra e invisibile, così come la consapevolezza di stare davanti a qualcuno che pone domande in un modo piuttosto che in un altro. La mia intenzione dunque, spostandomi all’interno dell’inquadratura, è quella di mettere più a loro agio coloro con i quali interagisco nell’intervista, ma anche quella di rendere manifesta questa visione spuria del processo di registrazione della realtà. L’alterazione di un concetto in relazione ad un determinato contesto è un dato di fatto imprescindibile della conoscenza e la perfetta neutralità del soggetto intervistato, così come del soggetto che compie ricerca, una chimera facente parte solo e soltanto del mondo delle idee. A tal riguardo, e per spiegare a cosa ci riferiamo in ambito epistemologico, scomoderemo ancora una volta il pluricitato Heisenberg ed il suo Principio di

indeterminazione, valido in fisica quantistica, ma esportabile in altre discipline, per il quale è

impossibile misurare contemporaneamente la velocità e la posizione di una particella, perché più precisa è la misura della velocità, più indeterminata la posizione della particella. L’osservatore, ben lungi dall’essere astratto e imparziale, è parte integrante dei risultati dell’osservazione.

“Realtà e conoscenza della realtà non sono più viste come due universi separati. Gli assunti di questa nuova epistemologia evidenziano che il modo in cui si osserva ha implicazioni su ciò che è possibile nominare. La conoscenza risulta quindi sempre parziale e indissolubilmente legata alla posizione di chi osserva. […] In campo sociologico, l’etnometodologia (Garfinkel 1967) e il costruzionismo (Berger e Lukmann 1969) evidenziano come la realtà sociale non sia un fenomeno oggettivo ma il risultato di

pratiche e procedure in base alle quali tale realtà viene attivamente costruita come oggettiva e data per scontata” (Colombo 2008: 27).

Se quindi non stiamo parlando né della possibilità di anelare ad una conoscenza oggettiva e assoluta, decontestualizzata, né di trovare lo strumento d’indagine perfetto e sempre valido nelle sue misurazioni del reale, allora non ci rimane altro che interrogarci di volta in volta e in base al contesto specifico dell’oggetto di ricerca, sui possibili effetti che un terminato uso dello strumento che abbiamo scelto può avere sull’alterazione dell’intervistato. Valutare i pro ed i contro e poi, con una sicurezza che non è mai assoluta, decidere come effettuare la ricerca, quali strumenti “di alterazione” usare, perché di alterazione si tratta sempre, sia che osserviamo e basta, sia che osserviamo e scriviamo, sia che osserviamo e registriamo su supporto audio-video. Anche nella descrizione di un fenomeno che non passi necessariamente attraverso le immagini, ma si avvalga delle parole, si va incontro a scelte che contestualizzano e indirizzano inevitabilmente la teoria. Infatti:

“Lo stesso Malinowski richiedeva descrizioni fedeli alla realtà, ma non essendo un «ingenuo empirista», come dice Affergan, nei suoi ultimi lavori divenne consapevole che «osservare è scegliere, è classificare, è isolare in funzione della teoria» e dunque la descrizione non è una semplice trascrizione della realtà in scrittura, ma una pratica creativa, anche immaginativa, regolata da un metodo scientifico, da una teoria che la governa” (Marano 2007: 15).

L’attività del filmare comporta necessariamente l’essere visti dai soggetti filmati80, la consapevolezza di essere registrati, e tuttavia questo non implica nessuna mancanza di scientificità «a priori». L’essere nel contesto, da parte del soggetto che fa ricerca, è presupposto imprescindibile della possibilità di conoscere, dal momento che non esiste nessuna conoscenza che sia decontestualizzata e che non faccia riferimento a qualche tipo di elaborazione soggettiva. L’antropologia visuale di Jean Rouch, è “il maggior esempio di cinema partecipante, uno stile di ripresa in cui la presenza del filmaker è enfatizzata come strumento di produzione della realtà” (Marano 2007: 134). L’antropologo francese sostiene, a

80

Scrive James Clifford in merito alla presunta invisibilità del fotografo sulla scena : “[...] Sul frontespizio di

Argonauts of the Western Pacific di Malinowskij c'è una fotografia con la dicitura «un atto cerimoniale del

Kula». Un capo trobriandese in piedi sulla soglia della sua abitazione riceve in dono una collana di conchiglie. Alle spalle dell'uomo che offre la collana c'è una fila di sei uomini che si inclinano, uno dei quali suona una bùccina. Le figure sono tutte di profilo e la loro attenzione è apparentemente concentrata sul rito di scambio, un autentico avvenimento per la società melanesiana. Ma ad un esame più attento si può vedere che uno dei trobriandesi inclinati sta guardando verso la macchina fotografica” (Clifford 1999: 35).

tal riguardo, che la presenza della videocamera deve addirittura essere ostentata, affinché emergano le realtà più interessanti da filmare, in quanto…

“[…] nella disgiunzione causata dalla reale presenza della macchina da presa, le persone reciteranno, mentiranno, saranno a disagio, e ciò è la manifestazione di questa parte di se stessi che va considerata come una rivelazione più profonda di quanto qualsiasi candid camera o living cinema potrebbe rilevare” (Eaton 1979: 51).

La macchina da presa insomma irrompe nella scena, crea i presupposti della messa in scena della realtà più profonda di un individuo e materializza in maniera concreta la presenza non soltanto del ricercatore, ma anche del resto della società assente in quel momento, il pubblico invisibile e impersonale, colui che in seguito e grazie alle possibilità ipoteticamente infinite di riproduzione del video, potrà in ogni momento osservarlo. La macchina da presa quindi è la presenza della società assente. Riferendoci alla teoria sociologica goffmaniana che si rifà a sua volta a concetti tipici del teatro e della drammaturgia potremmo sostenere che la macchina da presa, come qualsiasi altra presenza e forse in misura maggiore, rende possibile la vera espressione del sé di un individuo, dal momento che il sé…

“[…]non ha origine nella persona del soggetto, bensì nel complesso della scena della sua azione, in quanto scaturisce da quegli attributi degli eventi locali che la rende comprensibile ai testimoni. Una scena ben congegnata e rappresentata induce il pubblico ad attribuire un sé a un personaggio rappresentato, ma ciò che viene attribuito – il sé – è il prodotto di una scena che viene rappresentata e non una sua causa. Il sé, quindi, […] è piuttosto un effetto drammaturgico che emerge da una scena che viene rappresentata. Il problema fondamentale, il punto cruciale, è se verrà creduto o meno” (Goffman 1969: 289).

Se il sé è un prodotto e non una causa ed è un prodotto per gli altri che devono crederlo vero, allora la macchina da presa, molto più che la sola presenza di un pubblico ristretto di spettatori, rappresentando la presenza-assenza del pubblico in generale, della totalità della società, è la possibilità per eccellenza di produzione del sé di un individuo.

Ciononostante bisogna sempre tenere sotto controllo il contesto e l’elaborazione soggettiva affinché non si sfoci nell’arbitrarietà dei risultati, potremmo dire nella mancanza di attendibilità scientifica, pericolo però insito in qualsiasi forma di registrazione e restituzione del reale, non soltanto nell’intervista videoregistrata.

Per chiarire meglio quali sono gli elementi che il sociologo che faccia uso di una videocamera deve scegliere nella costruzione del suo discorso visuale individueremo tre livelli:

“[…] il livello del profilmico, dell’inquadratura e del montaggio. Il profilmico è ciò che la macchina da presa filma, la zona di realtà che sta davanti all’obiettivo. L’inquadratura è il livello in cui il profilmico viene messo in quadro da un particolare punto di vista. Il montaggio mette in sequenza le inquadrature costruendo sintagmi narrativi e significanti che acquistano senso dall’accostamento delle inquadrature” (Marano 2007: 29).

A tutti questi livelli e, a mio avviso, specialmente nel montaggio, corrispondono altrettante scelte dalla forte connotazione soggettiva, che, di conseguenza, deve essere sempre diretta e motivata dalla teoria sociologica. Da questo infatti e soltanto da questo deriva la differenza tra un prodotto di sociologia visuale e, per fare un esempio, un documentario; tra scientificità e mancanza di vincoli metodologici. Non si può fare sociologia visuale se dietro le immagini non c’è una forte direzione “registica” della teoria sociologica. Non dimentichiamoci, come abbiamo già accennato nel capitolo I, che il montaggio è quell’azione che dà un’interpretazione al materiale grezzo del girato e che, come spiegato da Pasolini, è l’unico a generare un senso altrimenti introvabile.

“Il montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita” (Pasolini 1981: 241).

Nella ricerca sociologica quindi il senso è dato sia dalla teoria che sta dietro e muove le scelte filmiche del sociologo-regista, che dalle scelte propriamente a carattere visivo che si prendono in sede di montaggio. Un documentario sociologico per esempio, benché rivolto ad esperti del settore, non può avere una struttura qualsiasi e una durata troppo lunga. Esistono dei vincoli che sono propri del materiale audio/video.

La restituzione quindi, il montaggio delle interviste per esempio, ha

“[…] fortissime potenzialità creative ed espressive, ma soprattutto, cosa maggiormente temuta, persuasive e manipolatorie della realtà, offerte da questo medium a chi se ne avvale. Potenzialità intrinseche ma non incontrollabili, che minano, a volte pregiudizialmente, l’attendibilità euristica dei contenuti restituiti. Come superare allora

tale timore? La mia proposta è quella di offrire una garanzia di attendibilità dei contenuti attraverso un sistema di tutele metodologiche, che guidino e vincolino il sociologo filmaker nella produzione […]” (Faccioli, Losacco 2003: 128).

Una di queste tutele trova…

“[…] la sua legittimazione nella relazione concreta che si instaura tra il sociologo e i soggetti, la distanza fra i quali deve essere minima, sia per poter cogliere, con le immagini, il loro punto di vista, sia per non recare loro danno nel momento in cui li si (registra) e, successivamente, quando si pubblicizzeranno i risultati della ricerca” (Ivi: 69).

Quello che ci accingiamo a dimostrare da qui in avanti è come la distanza tra il sociologo e i soggetti, nel caso di questa particolare ricerca, sia ridotta quasi a zero, eliminando di conseguenza tutte le problematiche insite nello strumento “videocamera” viste fino ad ora, mentre rimangono valide tutte le qualità positive che quest’ultima può apportare ad una ricerca sociologica. Infatti la videoregistrazione di un’intervista permette al sociologo enormi vantaggi euristici. Gli permette in primo luogo di tornare e ritornare continuamente sull’oggetto della ricerca (qualità che ha in comune con la registrazione audio) e di confrontare continuamente quel che aveva inteso in presa diretta con quello che realmente il soggetto ha detto. Già in questa peculiarità si può ravvisare un notevole assottigliamento di una possibile proiezione soggettiva delle idee del ricercatore sull’intervistato e, di conseguenza, l’avvicinamento della possibile distanza tra i due. Tutti gli intervistati poi sono stati avvertiti in anticipo dell’argomento che si andava ad analizzare e hanno avuto quindi modo di riflettere e sistematizzare il proprio pensiero. Tutti sono stati avvertiti della presenza della videocamera e hanno avuto la possibilità di familiarizzarsi anticipatamente a questo fatto. Le interviste hanno avuto una durata media di 50 minuti, tempo più che necessario per il soggetto per sentirsi man mano sempre più a suo agio e spiegare correttamente le proprie idee senza pressioni. Il tema centrale della ricerca è stato messo appositamente al centro dell’intervista, ovvero in una posizione temporale idonea per far entrare l’intervistato nella condizione ottimale per spiegare le proprie opinioni. La dichiarazione di far parte dell’Università Roma Tre e non di una televisione o di un giornale ha messo nella migliore condizione di esprimersi gli intervistati. Le interviste sono state tutte rilasciate nell’abitazione del soggetto intervistato, o in ambienti a loro familiari, come il luogo di lavoro o la stanza

Tutte queste riflessioni mi portano a concludere che sono stati presi tutti gli accorgimenti metodologici necessari affinché le interviste possano considerarsi frutto di un lavoro scientifico accurato.