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La strategia dell’oblio.

La morte, sguardo sociologico

2.3 La strategia dell’oblio.

Se la consapevolezza della morte, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, non sempre si realizza appieno perché ha bisogno di una serie di presupposti cognitivi ed esperienziali allora possiamo considerarla come una specie di affioramento della coscienza. Qualcosa che accade in maniera punteggiata nel corso della nostra vita e con la quale non dobbiamo necessariamente fare i conti in ogni istante. La coscienza della morte infatti può

esperienze, della cultura e della società in cui essi vivono. Inoltre così come esistono fatti che ci ricordano la morte e ce la fanno esperire ne esistono altri che ce la fanno scordare: la pressione delle faccende quotidiane, l’impellenza della vita che non ci dà il tempo di riflettere, il vortice degli impegni o semplicemente il tempo e l’oblio. Per lo più anzi l’uomo vive in queste circostanza, ovvero in assenza della coscienza della morte, in una sorta di ingenuità animale in cui si trova immerso o a cui ritorna per poter vivere. L’ingenuità quindi può essere

reale e questo è il caso di colui che vive senza aver fatto ancora vera esperienza della morte,

oppure può essere ritrovata, nel caso di colui che ha provato il senso di spaesamento di fronte alla morte e, senza che questa coscienza sia sfociata in nessun tipo di rivoluzione esistenziale, vi sia ritornato. Per meglio comprendere questo tipo di strategia, una strategia messa in atto in maniera inconsapevole, ci soffermeremo sul paragrafo 278 della Gaia scienza di Nietzsche, intitolato “Il pensiero della morte”:

“E’ per me una melanconica felicità vivere in mezzo a questo gomitolo di stradicciuole, di miserie, di voci: quanto piacere, quanta impazienza e brama, quanta vita assetata ed ebbrezza della vita si rivelano qui in ogni istante! Eppure, per tutti questi esseri tumultuosi che vivono e hanno sete di vita, ci sarà presto silenzio! Come alle spalle di ognuno sta la sua ombra, la sua cupa compagna di viaggio! E’ sempre come nell’ultimo momento, prima della partenza d’una nave di emigranti: abbiamo da dirci più cose che mai, l’ora incalza, l’oceano con il suo desolato silenzio attende impaziente dietro tutto quel rumore – così bramoso, così sicuro della sua preda. E tutti, tutti pensano che quanto fino a questo momento è avvenuto, sia poco e niente, che il futuro prossimo sia tutto: per cui questa febbre, questo gridare, questo stordirsi e sopraffarsi! Ognuno vuole essere il primo in questo futuro – eppure è morte e silenzio di morte l’unica cosa sicura e a tutti comune di questo futuro! Come è strano che questa unica sicurezza e comunanza non abbia quasi nessun potere sugli uomini, e che essi siano ben lontani dal sentirsi come la confraternita della morte! Mi rende felice vedere che gli uomini non vogliono affatto indugiare nel pensiero della morte! Sarei ben contento di far qualcosa, per rendere loro il pensiero della vita cento volte ancora più degno di essere pensato” (Nietzsche 2008: 200).

Ci siamo soffermati su questo lungo passo perché in esso troviamo vari spunti di riflessione, nonché alcuni concetti utili alla comprensione del fenomeno psicologico e sociale della morte. Innanzitutto Nietzsche si stupisce positivamente del fatto che benché la verità ultima del senso dell’affaccendarsi nella vita sia in ultima istanza la morte l’uomo continua a vivere come in un eterno presente, anzi in un eterna anticipazione del proprio futuro. Ma un

sulla morte, unica detentrice della vera parola fine. Gli uomini vivono ben lontani dal pensiero della morte e non indugiano poi troppo su di esso. Questo, per quanto ingenuo, è fortemente vitale. La morte è solo un’ombra che essi si portano appresso in ogni istante, ma che non disturba poi troppo. La morte attende in desolato silenzio come un oceano sterminato attende di inghiottire le vite, le speranze e le illusioni degli emigranti in partenza per il loro viaggio. E Nietzsche si dichiara felice di questa noncuranza degli uomini, lui che aveva fatto della Vita il suo imperativo categorico, ben conscio quindi di quanto la morte potesse paralizzare, rendere vano ogni sforzo di vivere pienamente l’esistenza, specialmente dopo la fine delle metafisiche consolatrici. Quella di Nietzsche è quindi una soluzione che richiama le forze primitive della vita a soffocare la coscienza nichilizzatrice della morte. Una soluzione regressiva, reazionaria, estatica, dionisiaca, che al di là del potere decadente delle soluzioni culturali e intellettuali, richiama l’uomo alla sua fondamentale natura biologica, alle forme irrazionali come la danza, il gioco senza senso e lo sperpero inutile di forze. La coscienza della morte è sempre accompagnata, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, dalla presenza della propria e dell’altrui individualità, del proprio Io. Una delle possibili strategie quindi è quella di ricercare l’annullamento dell’Io e di sprofondare nel vitalismo aculturale del Sé.

“Nel pensiero di Nietzsche si ritrova la maggior parte dei surrogati moderni dell’ossessione di morte. Ma per quanto gli intellettuali del XX secolo cerchino di dissetarsi alle fonti biologiche in realtà bevono alle fonti del XX secolo che, con la sua vecchia civiltà e individualità culturale, reca con sé lo spettro della morte. E dato che il problema è innanzitutto quello di sfuggire all’angoscia di morte, si capisce come essi cerchino oscuramente dalla parte del “Sé”, della vita animale estatica. Ma non riusciranno mai ad essere animali, e la coscienza accompagna sempre i loro tentativi più disperati di dimenticare. In un certo senso quegli intellettuali sanno che cercano di dimenticare la morte, e questa loro consapevolezza – che non riescono a eliminare in alcun modo – continuamente ne evoca lo spettro. A quel punto la vita si svuota, il gioco non diverte più, l’eternità dell’istante si dissolve nell’istante successivo: il tempo continua nel suo cammino e la morte compie la sua opera, rendendo inutile ogni altra confutazione” (Morin 1980: 299).

L’ombra di cui parla Nietzsche allora si trasforma in spettro che assilla senza possibilità di soluzione. Si crea l’idiosincrasia, l’ossessione della morte che si cerca di dimenticare senza riuscirci. Non siamo animali che vivono senza saper nulla della propria morte, siamo animali

che sanno di dover morire e questa consapevolezza è come un marchio che ci portiamo sempre appresso, una melodia funebre a cui non riusciamo ad abituarci e che può arrivare ad ossessionarci.

Se è vero che la soluzione nietzschana non è la soluzione definitiva al problema della morte, questo non significa però che non rappresenti bene la situazione generale in cui l’uomo vive e prospera per la maggior parte del suo tempo. La sensazione che pervade colui che vive in questo stato mentale è come una specie di immortalità, ma non l’immortalità della salvezza religiosa, bensì l’immortalità di chi non è pienamente cosciente della propria morte. Noncuranza del futuro e fiducia nei propri progetti.

“La nostra stessa adesione alla vita, il nostro stesso agire eliminano ogni pensiero di morte: la vita umana ci induce quasi sempre a considerare la morte con noncuranza, e quest’ultima è spesso assente dal campo della coscienza il quale – poiché aderisce al presente – rimuove tutto ciò che non è presente. Da questo punto di vista, in effetti, l’uomo è evidentemente un animale, cioè un essere dotato di vita: ecco perché il vivere puro e semplice non può che avere in sé una cecità alla morte.

La morte dunque incide ben poco sulla vita quotidiana: è una vita fatta di abitudini, di lavoro, di attività” (ivi: 72).

Molte volte, analizzando la morte nella società contemporanea, così tanto affogata nel

divertissement e nello svago fine a se stesso, si confonde quello che è un semplice connotato

umano, cioè essere fondamentalmente predisposti alla vita dimenticando che si dovrà morire e la vera e propria rimozione psicologica e sociale della morte. Una accettazione cosciente e matura della morte non significa renderla macabramente presente in ogni istante della nostra vita e in ogni gesto. Può significare anche scordarsene e vivere per qualche tempo come se si fosse immortali. Jankélévitch chiama questo stato “noncuranza primaverile”, termine che di certo rievoca un’atmosfera più auspicabile del termine “Oblio” che abbiamo usato in questo paragrafo. In questo stato di noncuranza “l’angoscia del declino non avvelena il felice rigoglio della vita” (Jankélévitch 2009: 44). Ciononostante il problema della morte, una volta posto all’individuo, non ha le caratteristiche effimere di un problemuccio qualsiasi e se la morte ed il dolore che comporta sono molto presenti, all’uomo è richiesta una forte dose di capacità elaborativa del non-senso che si spalanca davanti a lui. La conoscenza infatti per l’uomo ha un carattere “olfattivo”, come direbbe Bauman (1995: 10) e la consapevolezza della morte non può essere annullata, ma solo resa «inavvertita», «coperta», proprio come faremmo con un odore sgradevole. La cultura è uno strumento per realizzare tale «copertura» (ivi: 11). Per

questo l’uomo ha elaborato nel corso della sua storia altre strategie per far fronte alla morte e al suo paradosso, oltre a quella della dimenticanza e dell’oblio.