• Non ci sono risultati.

La strategia delle partecipazioni dell’individuo e il rischio di morte

La morte, sguardo sociologico

2.8 La strategia delle partecipazioni dell’individuo e il rischio di morte

Approfondiamo ulteriormente il debito di Marx verso Hegel: il presupposto fondamentale affinché, per Marx, ci sia la possibilità di una rivoluzione definitiva del vecchio mondo diviso tra sfruttatori e sfruttati è che gli sfruttati (leggi la classe operaia) prendano coscienza del loro ruolo attivo e indispensabile nella società e con la forza ribaltino la situazione socio- economica, instaurando in principio la cosiddetta dittatura del proletariato, per poi traghettarla verso il Comunismo. La forza e la rivoluzione armata non sono per Marx tirate in ballo semplicemente per accelerare il processo o perché bisogna vendicare soprusi subiti in passato, non sono dei mezzi qualsiasi che servono al vero e più importante scopo di realizzare il regno della libertà. Per Marx non sono importanti solo i fini a costo di qualsiasi mezzo. Essi sono molto più essenzialmente i soli mezzi in cui la storia può farsi nella sua dialettica, ovvero attraverso negazioni e successive riaffermazioni. La forza e lo scontro infatti sono l’unico modo di ripristinare a proprio favore lo squilibrio simbolico che si era venuto a creare in principio proprio con un altro meccanismo di forza e scontro. La libertà e l’uguaglianza insomma non possono essere a loro volta “donate” dai vincitori perché questo non farebbe altro che perpetuare la sudditanza (questa volta solo simbolica). Ma queste idee di Marx sono mutuate e sviluppate da un unico nucleo teorico fondamentale: la dialettica del servo-padrone di Hegel, esposta nella Fenomenologia dello spirito (Indipendenza e dipendenza dell’autocoscienza; signoria e servitù (Hegel 2001)). Questo famoso passo descrive attraverso un’esperienza concreta il farsi autocoscienza di una coscienza, il suo imporsi ad un livello superiore. Per Hegel l’autocoscienza non è più soltanto coscienza di sé, solipsistica e autosufficiente, ma viene a formarsi grazie all’incontro con gli altri, acquista un valore sociale e politico. Il primo modo di incontrarsi delle coscienze in società è quello dello scontro, della lotta, da cui uscirà un vincitore e un vinto, rispettivamente il signore e il servo. Dapprincipio il signore afferma la propria individualità a discapito del servo, servendosi appunto di lui per la produzione delle cose di cui ha bisogno, ma successivamente il rapporto si trasforma. Il servo infatti ritrova se stesso attraverso il lavoro che opera sulle cose, si rende conto della propria indispensabilità e diviene autocosciente del suo ruolo e di se stesso. D’altra parte il padrone, soddisfacendo i propri bisogni attraverso le cose che non sa più produrre in prima persona, diventa servo del suo servo ed il rapporto di subordinazione si inverte. Come si può ben vedere gli elementi del pensiero marxiano sono già tutti contenuti in nuce in questa teorizzazione: il rapporto di subordinazione, la presa di coscienza delle classi operaie

attraverso il lavoro e la fondamentale intuizione che per passare ad un livello di coscienza superiore bisogna saper superare il momento della negazione di sé27.

A questo punto è importante nella nostra analisi soffermarci su quello che per Hegel è un momento cruciale di questa dialettica e che abbiamo volutamente fatto passare quasi inosservato. Cosa significa infatti che il primo modo di incontrarsi degli individui è quello dello scontro e che da questo scontro uscirà un vincitore e un vinto? In quale maniera può verificarsi questa vittoria e questa sconfitta? Chi è l’arbitro di questa partita mortale? Per Hegel il vincitore non è colui che fa prigioniero l’altro con la forza o colui che con l’astuzia rende l’altro dipendente dai suoi mezzi di produzione (come in Baudrillard o in Marx); per lui il vincitore è colui che è riuscito a superare la paura di morire, colui che non è indietreggiato di fronte alla possibilità della propria morte, che ha assunto su di sé il rischio di morire. D’altro canto colui che indietreggia diventa schiavo, subordinato, perché essendo la morte la negazione della propria individualità essa è anche il passaggio obbligato per la sua stessa affermazione. Colui che indietreggia quindi è anche colui che non si riconosce. Il suo pari invece che l’affronta si erge al di sopra della sua stessa negazione e nel far ciò si afferma.

“La relazione di ambedue le autocoscienze è dunque così costituita ch’esse danno prova reciproca di se stesse attraverso la lotta per la vita e per la morte. Esse debbono affrontare questa lotta, perché debbono, nell’altro e in se stesse, elevare a verità la certezza loro di esser per sé” (ivi: 119).

Così si generano il servo e il signore per Hegel. Per Hegel la genesi delle differenze di “status” passa attraverso una pari lotta. Il signore non è uno sfruttatore o un furbo dominatore. E’ molto più “signorilmente” colui che ha affermato la propria individualità grazie agli altri, ma non a discapito degli altri. E il servo non è colui che è stato raggirato o vinto con la forza, bensì colui che per primo ha sancito la propria sconfitta perché non ha saputo mettere in gioco la propria vita fino in fondo. Hegel sembra dirci: colui che non sente la necessità di rischiare di morire per una cosa non ci crede fino in fondo. Il rischio di morire quindi è la strada obbligata attraverso cui deve passare una coscienza per elevarsi ad autocoscienza, noi diremmo ad “individualità”. La negazione è la possibilità, l’unica possibilità, perché una cosa si elevi ad un livello superiore. La coscienza della vita è la coscienza della morte. L’affermazione della vita è il rischio della morte.

27

In filigrana di questa concezione del divenire storico non è difficile ravvisare la concezione primaria della morte-rinascita di cui abbiamo parlato nel paragrafo 4 di questo capitolo.

“L’individuo che non ha messo a repentaglio la vita, può ben venir riconosciuto come persona; ma non ha raggiunto la verità di questo riconoscimento come riconoscimento di autocoscienza indipendente” (ibidem).

Con il rischio di morte così inteso siamo finalmente giunti alla identificazione di un termine teorico di notevole importanza per il proseguo della nostra analisi. Lasciando infatti da una parte le implicazioni sociali del discorso hegeliano, tendenti a giustificare lo status quo delle situazioni politiche e sociali vigenti, questo stesso ci ha portato ad individuare nella messa a repentaglio della propria vita un discrimine per capire veramente ciò per cui si rischierebbe di morire, ovvero cos’è che abbiamo maggiormente a cuore, che ci investe come persone in senso assoluto. In poche parole: il rischio di morte fa emergere con chiarezza la costituzione fondamentale del nostro pensarci fino in fondo, incluso l’aver compreso fino in fondo che cosa è veramente la morte. Quindi nelle risposte alle domanda: per che cosa

rischieresti di morire? e Cosa è accaduto in te dopo che hai rischiato di morire? a nostro

avviso, sono racchiuse molte componenti interessanti da analizzare per capire il mondo di partecipazioni emotive e teoriche degli individui. Ma affinché non ci siano possibili fraintendimenti è bene spiegare più dettagliatamente e fare delle ulteriori distinzioni. Infatti si potrebbe obiettare: si può rischiare di morire con incoscienza, quindi senza che ci sia vera partecipazione; si può rischiare di morire per falsi ideali inculcati per indottrinamento, quindi per false partecipazioni; si può rischiare di morire in molti e diversificati modi, ognuno con un dato diverso di partecipazione da estrapolare. Come è possibile fare di tutti questi casi particolari il risultato di un fenomeno generale? Ciò che ci prefiggiamo di fare quindi è analizzare il rischio di morte nelle sue molteplici sfaccettature.

Il merito di aver individuato la centralità del rischio di morte in una analisi sociale e antropologica deve essere attribuito a Morin che, nel suo libro L’uomo e la morte (Morin 1980), lo pone addirittura come uno dei due poli della sua antropologia.

Il primo polo, da noi analizzato nel paragrafo 1 di questo stesso capitolo, è l’orrore della morte. Se da un lato quindi abbiamo paura, orrore della morte, dall’altro superiamo questo ostacolo e imponiamo la nostra individualità oltre la morte, attraverso appunto il rischio di morte.

“Il rischio di morte è il paradosso supremo dell’uomo dinanzi alla morte, perché contraddice totalmente e radicalmente l’orrore della morte. E tuttavia questo rischio,

Se l’uomo rischia la propria vita coscientemente, “sapendo quello che fa”, senza cioè essere semplicemente ingenuo riguardo ai rischi, allora egli deve avere sopra di sé, potremmo dire in maniera trascendente, qualcosa a cui partecipa con tutto se stesso e a cui sacrifica volentieri la propria vita. La gamma delle partecipazioni umane (termine che Morin acquisisce dai Carnets di Lévy-Bruhl, usciti postumi nel 1949 e che amplia a nuovi fenomeni) investe i campi più disparati, dall’arte alla politica, dalla morale al gioco. L’uomo può partecipare con tutto se stesso alle proprie idee personali, per esempio, come fece Giordano Bruno, all’idea di giustizia come in Socrate, alla patria e al senso di fratellanza come in Salvo D’Acquisto, al senso di avventura come molti scalatori o alla saggezza come in Seneca. Le partecipazioni aprono all’uomo la possibilità di superare l’orrore della morte e perfino l’istinto di conservazione della specie. In esse l’uomo muore per qualcosa in cui crede fino in fondo e per cui sente, con tutto se stesso, che vale la pena rischiare la vita. In questo fenomeno la possibilità della perdita della propria individualità non è negata, come nel caso della strategia dell’oblio che abbiamo analizzato nel paragrafo 3, ma sempre presente a se stessa. In un certo senso essa è contraddittoriamente sia presente che assente, perché da un lato c’è la coscienza di se stessi e della morte, ma dall’altro c’è qualcosa di più grande che ci trascende. Grazie al fatto di sprofondare in questa vastità infinita riusciamo a non aver paura della morte. Esistono tuttavia partecipazioni che non presuppongono un livello di coscienza della propria individualità elevato. Sono questi i casi in cui la specie si fa più presente ed invadente, lasciando poco spazio al singolo.

“Sotto assedio, in stato di guerra, la società si ripiega su se stessa irrigidendosi, come quegli esseri unicellulari che assumono forma cristalloide. Diviene una totalità ermeticamente chiusa, la sua circolazione interna appare sempre più rarefatta, soffoca per sopravvivere: ed ecco l’autarchia di guerra, l’assedio, la patria in pericolo. In tutte queste occasioni la società torna a stringere a sé l’individuo, e questi è nuovamente preda della partecipazione primitiva: non è più se stesso, è la patria in pericolo” (ivi: 51)28.

In questi casi la percezione di sé sfuma ed allora la coscienza della morte è qualcosa che non riguarda più la nostra individualità e ne consegue che la paura si allontana. E’ in gioco infatti la sopravvivenza del gruppo o addirittura della specie e qualche cosa, a questo punto, bisogna pur sacrificare. E’ la società che diventa l’organismo di riferimento, non più

28

l’individuo. Ma quando il fenomeno si allenta e l’individualità prende di nuovo il sopravvento ecco che l’angoscia e il senso della morte ritornano forti come sempre.

Questo fenomeno dell’annullamento della propria individualità è complesso e diversificato e non sempre si attua fino in fondo: abbiamo così, per esempio, il caso di militari prima coraggiosi e poi improvvisamente terrorizzati dalla morte. Altre volte invece l’Io si dilegua in un’idea più grande nella quale crede senza alcun dubbio e per la quale è disposta a morire, come nel caso di individui spersonalizzati dall’indottrinamento che si lanciano gioiosi verso la morte.

Un caso di compartecipazione di forte senso dell’individualità e del rischio di morte, ma che non può entrare a far parte delle partecipazioni, è il suicidio. Il suicidio infatti è proprio la totale mancanza di legami con il mondo e la società, l’assenza di qualsiasi partecipazione. Anzi si potrebbe affermare che nel suicidio l’uomo non partecipa a nulla se non a se stesso e alla morte, che a questo punto è intesa come la liberatrice definitiva da una situazione comunque sia votata all’insignificanza. Quando si giunge alla morte per suicidio è perché si sente che la vita non è più possibile e la morte diventa la vittoria dell’individuo su questa situazione.

“Quando si giunge al suicidio è evidente che la società non è stata in grado di scacciare la morte, non è riuscita a dare all’individuo il gusto di vivere. Ma c’è di più: quella società è ormai vinta, negata, non ha più alcun potere nei riguardi della morte dell’uomo. L’estrema vittoria diviene al tempo stesso un disastro irrimediabile: quando l’individuo si scioglie da tutti i suoi legami, quando si staglia solo e radioso, allora la morte, non meno sola e radiosa, sorge come suo sole” (ivi: 59).

Altro il caso in cui si rischia di morire senza intenzione, casualmente. Non affrontiamo la morte con la coscienza di quello che ci aspetta e la possibilità di morire ci coglie impreparati. Ciononostante ne usciamo indenni. Ebbene anche in questo caso nell’elaborazione successiva le partecipazioni che erano già precedenti nell’individuo si manifestano e vengono alla luce (vedi cap. VII par. 5).