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Il viaggio a Lampedusa

Il migrante e la morte

4.5 Il viaggio a Lampedusa

Lampedusa è stato ed è un fenomeno mediatico. Questo non vuol dire che non ci siano sbarchi o che le migrazioni coi gommoni siano delle sane invenzioni della televisione, ma vuol dire che c’è stata una scelta, all’inizio inconsapevole da parte dei giornalisti e poi sempre più cosciente da parte delle istituzioni, di individuare un punto specifico della mappa geografica dell’Italia dove addensare l’attenzione per quel che riguarda il fenomeno migratorio. I media, sempre frettolosi e bisognosi di capri espiatori così come di semplicità e

slogan pubblicitari, si sono per un lungo periodo concentrati soltanto sugli sbarchi a Lampedusa, come se il complesso fenomeno migratorio dall’Africa all’Italia si potesse riassumere simbolicamente lì. Questo processo, graduale e all’inizio senza una vera e propria regia, ha assunto però in extremis le caratteristiche della narrazione vera e propria.

“Gli arrivi via mare sono molto visibili sotto le luci dei media, si prestano alla costruzione di narrazioni cariche di pathos, si imprimono nell’immaginario collettivo” (Ambrosini 2010: 99-100).

Il Centro di Identificazione e Espulsione (CIE) di Lampedusa, che così tanto aveva fatto scalpore, e la relativa rivolta dei migranti, che così tanto aveva posto all’attenzione pubblica le difficili condizioni all’interno di esso, dopo essere stato trasformato da centro di accoglienza a moderno campo di reclusione, doveva essere chiuso, perché chiudendo quello specifico CIE e risolvendo lo specifico caso Lampedusa, si sarebbero così risolte una volta per tutte le controversie sull’efficacia o meno del governo in fatto di politica migratoria. E l’impressione che si ricava parlando liberamente con la gente del luogo è proprio questa: tanto rumore per nulla. I lampedusani infatti, gli sbarchi così come i migranti, non li hanno mai visti sul serio, se non forse nei primi anni novanta, quando i gommoni arrivavano fino a terra e lasciavano lì la loro “merce”, che poi si ritrovava “estraniata” a girare per l’isola, questo stretto e piatto lembo di terra di 11 km che si staglia solitario, brullo e ventoso, a due passi dall’Africa. Ma già dopo i primi sbarchi di questo tipo la Guardia di Finanza e la Guardia Costiera avevano preso le misure del fenomeno e gli scafisti per paura di essere intercettati, decisero di scaricare la “merce” direttamente in mare, lasciando il compito di salvarli dall’assideramento e dai flutti o alla selezione naturale o alla Guardia di Finanza stessa. Quest’ultima poi, nel bel mezzo dell’oscurità della notte e quindi senza che nessuno nemmeno la vedesse attraccare in porto col proprio bagaglio umano, trasportava i migranti direttamente al CIE, da dove venivano o smistati in Sicilia o fatti rimpatriare direttamente. Di conseguenza gli abitanti di Lampedusa i migranti non li vedevano e non li sentivano, se non forse in televisione, ovvero come tutti gli altri italiani. Ciò che invece vedevano era l’enorme dispiegamento di polizia, esercito e carabinieri che girava in assetto da guerra per tutta la minuscola isola, quasi vi avessero trovato una cellula di Al Qaeda. Eppure dopo la chiusura poche cose sono cambiate. Tutt’ora i migranti vengono gettati a mare al largo di Lampedusa e allo stesso modo vengono smistati a Porto Empedocle dalla Guardia di Finanza. Sono

cambiate le rotte principali59, questo è vero, tant’è che il flusso a Lampedusa è diminuito notevolmente e i mezzi di trasporto sono diventati altri e più elaborati (vedi quei migranti che arrivano tramite barche a vela o yacht), ma a Lampedusa, in realtà, le cose sono sempre state più o meno così, a dispetto della mole di notizie, attenzioni e parole che in passato vi sono state spese. L’effetto è che sull’isola sembra essersi svolto un film. Sono arrivate le telecamere, hanno montato il set, sono arrivate le comparse in costume, hanno rappresentato la scena e se ne sono andati tutti. “Non è stato nulla” sembra voler dire la chiusura del film o meglio del CIE e le figure che vedevate agire ogni tanto in televisione erano solo attori o meglio fantasmi che si sono dileguati. “Ora non c’è più traccia, scordiamoci di tutto”60.

O forse c’è?

Se vogliamo infatti davvero cercare una traccia dei migranti a Lampedusa dobbiamo guardare altrove, oltre che negli archivi delle Tv di Stato e non. Se vogliamo veramente capire cos’è l’immigrazione tramite il fenomeno Lampedusa dobbiamo recarci in un posto specifico: nel cimitero, sia umano che non61. E non è un caso se, al di là delle narrazioni, il posto privilegiato per rendere concreto il passaggio dei migranti e non farli assomigliare ad un passato rimosso, sia proprio il cimitero, così come non è un caso che Erri De Luca abbia scelto di narrare i migranti proprio attraverso questo luogo (cfr. “Che tempo che fa” del 20 maggio 200962). Insomma sono andato a Lampedusa per scoprire che nel rapporto tra Lampedusa e i migranti tutto è stato invenzione o esagerazione, potremmo dire

trasfigurazione, tranne quel che riguarda la morte e il luogo della sua memoria: il cimitero. La

morte non si può eludere o edulcorare e il cimitero testimonia questa immanente verità. Lì in quel cimitero il custode Vincenzo, che fa questo mestiere da una vita, si è “impietosito” degli extracomunitari (come venivano chiamati una volta tutti i migranti) e ha dato degna sepoltura a quei corpi a volte anonimi, a volte conosciuti e per i quali ha piantato una croce e un segno63. Nel mio breve soggiorno a Lampedusa, confuso in mezzo ai vacanzieri che andavano al mare, ho rintracciato la figlia del custode che lavora al centro del paese come giornalaia e poi ho parlato al telefono con la moglie, ma questa mi ha spiegato che Vincenzo sta male e che sarebbe stato molto contento di rilasciarmi un’intervista video, ma che non può. D’altronde ne ha rilasciate tante in passato e sempre si è dato da fare moltissimo per

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Le notizie dei nuovi e massicci sbarchi a Lampedusa in seguito ai fatti rivoluzionari della Tunisia e dell’Egitto sono di poco precedenti alla pubblicazione di questo lavoro.

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Ma il film della storia può sempre riservare nuove scene da girare, negli stessi luoghi e con le stesse modalità.

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A Lampedusa, oltre al cimitero normale, esiste anche un suggestivo cimitero delle barche dei migranti, arenatesi sulle spiagge o distrutte in mezzo agli scogli, che ben testimonia l’entità e la portata del fenomeno migratorio.

denunciare i problemi e l’indifferenza. Ma ora sta a letto e non è il caso. La moglie ha paura per il suo cuore malato. Mi sono rimaste quindi, delle tre possibilità che avevo all’inizio del viaggio, solo gli altri due contatti: il parroco Don Stefano Nastasi e Padre Vincent Mwagala, africano della Tanzania, anche lui quindi migrante.

Con il parroco affrontiamo diversi aspetti del fenomeno migratorio a Lampedusa: la storia dei centri di accoglienza, le rivolte, il ruolo della comunità e del “popolo lampedusano”, come gli piace chiamarlo. Mi spiega che all’inizio il contatto era molto diretto con i migranti e c’era più partecipazione collettiva, ma a causa di una scelta governativa, gli ultimi periodi sono stati caratterizzati da un affievolirsi dei contatti diretti, che si riducevano, in pratica, solo alle messe che presiedeva nel Centro e a sporadiche cerimonie funebri per quei defunti che a causa del maltempo era impossibile spostare direttamente in Sicilia. Poi arriviamo a tratteggiare le caratteristiche di coloro che arrivano e Don Stefano suggerisce due tipologie: chi scappa dalla guerra o dalla persecuzione e chi fugge per trovare una vita migliore. Per i primi il tema della morte è centrale perché costoro fuggono dalla possibilità di morire e cercano riparo altrove:

“Ci sono due tipologie diverse di personalità io penso: c’è la tipologia di chi viene da un paese davvero provato da guerre civili o da altri fenomeni di povertà o di fame all’interno del paese e fugge per una via migliore e deve rischiare tra la morte e la vita. Dinanzi ha di sicuro la morte nel paese da dove viene e allora cerca la vita, una speranza nuova ed è pronto a qualsiasi esperienza, a qualsiasi fatica. E in questi volti quando li incontravamo leggevamo nei volti e nello sguardo quasi una pacificazione con se stessi e con il mondo. Erano rinati per certi versi” (Intervista a Don Stefano Nastasi).

Viene dunque in luce il carattere di nuova vita, di rinascita, che i migranti sentono di aver acquistato con il viaggio in cui hanno rischiato di morire. Alcuni di loro si fanno battezzare all’arrivo o fanno battezzare i bambini che hanno avuto durante il viaggio nel deserto, come nel caso di una donna nigeriana di cui mi parla Don Stefano: “[…] nel momento in cui lei mette piede su Lampedusa per lei è un rinascere a vita nuova. Da lì chiede il battesimo”. Il rito non è più qualcosa di avulso ed estraneo dalla realtà, ma l’incarnazione di un processo reale ed interiore. E la morte esperita è reale, concreta. Il suo posto in questo processo è cardinale:

“M:

Rinascere a vita nuova in un certo senso richiama la morte. Guardare la morte in faccia, è questo che caratterizza il viaggio? Vedere, oltre l’essenzialità della vita, la morte?

DSN:

Molti di loro la vedono la morte in faccia. Ma non solo la vedono in faccia, ma molti la toccano perché magari lungo il viaggio qualcuno non ce la fa, muore di stenti, di fame o per altre problematiche e la cosa un po’ triste è che in molti di questi casi chi è morto durante il viaggio è stato lasciato in mare, il corpo non è stato mai più recuperato, per evitare ulteriori pericoli per chi invece resisteva ancora. Però loro si portavano dietro il ricordo di coloro che avevano lasciato. E’ come se per riflesso lo avessero impresso nel loro volto, il volto di chi era morto durante il viaggio. Questo c’era. C’è” (Intervista a Don Stefano Nastasi).

Ancora una volta la morte dell’altro segna prepotentemente l’animo e, come dice Lévinas, ciò che rimane impresso è il volto dell’altro che entra a far parte di noi. Si vede dagli occhi, dallo sguardo, che qualcosa è cambiato. Si riconosce a prima vista perché il mutamento è a tutti gli effetti antropologico. La morte dell’altro, del nostro compagno di viaggio, e il processo riflessivo che questa morte comporta, è un’esperienza totale, che cambia le sembianze e che fa entrare, come è ben simboleggiato dal rito di iniziazione, in un’altra condizione. Per questo motivo quando nel Centro Don Stefano si riunisce in preghiera per ricordare i migranti cristiani morti in mare, tutti si fermano in preghiera, come se dinanzi alla morte tutti appartenessero alla stessa religione universale. Si apre, dinanzi alla morte, uno spazio sacro in quanto la morte è un passaggio da questo mondo, che poco importa ed è profano, a quello vero ed eterno. Dice il fatti il parroco:

“Al di là delle mie esperienze personali, al di là delle mie appartenenze, il dolore dell’altro, la morte dell’altro in un certo senso mi avvolge, mi coinvolge e con l’altro imparo a condividere quei momenti. Anche nella preghiera per esempio delle volte noi ci siamo trovati all’interno della celebrazione della messa all’interno del Centro e quando avveniva questo i musulmani se giocavano si fermavano, c’era questo senso di rispetto reciproco, da ambedue le parti. Il momento della preghiera, sia il momento della preghiera cristiana, sia il momento della preghiera musulmana, veniva vissuto come tempo di vita particolare, direi uno spazio sacro idealmente che va rispettato da tutti perché è come se ci ritroviamo, anche se stiamo dentro ad un centro, dentro ad una stessa barca quindi il mio bisogno e la mia preghiera sono il tuo bisogno e la tua preghiera” (Intervista a Don Stefano Nastasi).

Non è un caso se Don Stefano usa la metafora della “barca” per intendere il destino comune che tutti abbiamo e che nella morte assume il suo punto più evidente. Ma, come si può ben intuire, per il caso dei migranti che compiono il viaggio, “essere nella stessa barca” non è qualcosa di metaforico e basta, bensì è l’esperienza stessa che darà poi a noi tutti la possibilità di usare quella metafora per significare che “apparteniamo tutti allo stesso destino”.

I migranti che compiono il viaggio insomma fanno delle esperienze primarie. Con

esperienze primarie intendo quelle esperienze immediate della vita e del suo significato che

sono così illuminanti ed essenziali che serviranno poi da base per la comprensione di altri concetti, pratiche rituali o idee astratte. In queste esperienze primarie tutto si fa più denso di vita perché chi vive queste esperienze è come se ne sentisse la fertilità per la mente e per la sua capacità di comprensione del mondo. Da queste esperienze, a cascata, ne scaturiscono delle altre, come dei raggi da una fonte di luce. In questi contesti la vita si riduce all’osso e si manifesta senza troppe confusioni, perché è l’esperienza stessa ad essere essenziale, oserei dire scarna.

“Dinanzi alla morte ormai quasi annunziata loro hanno avuto la possibilità di purificare la loro umanità e arrivare all’umanità genuina, cioè che guarda l’uomo in quanto uomo, che non guarda l’uomo come appartenente ad una etnia, che non guarda l’uomo in quanto appartenente ad una religione, perché le religioni sono delle vie che l’uomo acquisisce per potere avere una comunicazione con il divino” (Intervista a Padre Vincent Mwagala).

A questa essenzialità degli uomini di fronte agli altri uomini si aggiunge l’essenzialità a cui l’esperienza del viaggio ti ha messo dinanzi, ovvero la vita in quanto sopravvivenza.

“A loro non importava dove erano, a loro importava che una meta l’avevano pure raggiunta, una meta che dava loro sicurezza in ogni caso e dava serenità. Dava sicurezza anche come primo soccorso, a livello medico, sanitario, quindi raccontavano loro stessi che questa terra era poi la terra della loro salvezza. Non gli importava come si chiamasse, gli importava che fosse per loro, per molti di loro, uno scorcio di terra... la terra della loro salvezza, tant’è vero che in un’occasione a me è piaciuto ribattezzare Lampedusa non come uno scorcio di terra in mezzo al mare, ma «uno scorcio di cielo in mezzo al mare», perché è più cielo che terra nella dimensione umana […]”(Intervista a Don Stefano Nastasi).

Cielo e terra si confondono perché l’esperienza concreta della morte getta un ponte verso la trascendenza. Qui si ravvisa lo stretto rapporto che c’è tra esperienza della morte, religione e fede, tra esperienza della morte e senso di se stessi e degli altri, tra esperienza della morte e maturazione interiore: nella morte è sempre una nuova vita che si manifesta, così come è ben rappresentato dalla concezione primaria della morte come morte-rinascita (cap 2.4).

Per concludere questo paragrafo vorrei citare le parole di Erri De Luca che usando la stessa metafora del cielo e della terra per parlare di Lampedusa, così come ha fatto Don Stefano Nastasi, sintetizza in maniera poetica quanto detto fin’ora:

“I poteri hanno visto nelle isole dei luoghi di reclusione, hanno piantato prigioni su ogni scoglio: il mare nostro brulica di sbarre. Gli uccelli invece vedono nell’isola un punto di appoggio, dove fermare e riposare il volo, prima di proseguire oltre. Tra l’immagine di un’isola come recinto chiuso, quella dei poteri, e l’immagine degli uccelli, di un’isola come spalla su cui poggiare il volo, hanno ragione gli uccelli” (“Che tempo che fa” del 20 maggio 200964).