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Rito funebre e scelta del luogo di sepoltura tra identità e integrazione

Il migrante e la morte

4.2 Rito funebre e scelta del luogo di sepoltura tra identità e integrazione

La possibilità di mettere in pratica i rituali funebri della propria terra, della propria religione e della propria cultura non è soltanto un diritto che dovrebbe essere garantito in vista del giusto perpetuamento dell’umano convivere in una società ormai multiculturale, ma anche un sostanziale passo sulla strada della difficile integrazione dei migranti. Il terreno di cui è composta questa strada non è mai compatto e prevedibile, la via non è mai lineare e decontestualizzata. Non dobbiamo infatti nasconderci dietro un dito: l’accettazione della

diversità e la reale convivenza pacifica sono un obiettivo che si realizza lentamente, attraverso incontri dapprima curiosi e prevenuti, poi timidi e incostanti, ma infine sorprendenti e coinvolgenti. La strada del pluralismo è piena di malintesi e false rappresentazioni, scontri e prese di posizione, eppure man mano si fa largo l’accettazione e la consapevolezza che dall’incontro con l’altro (che non vuole essere assimilato né assimilare, ma soltanto essere se stesso) si è tornati indietro arricchiti profondamente. Ciò accade per due fondamentali ragioni: perché nell’altro diverso da me io vedo le orme di un mondo lontano che altrimenti non avrei potuto conoscere e perché grazie a questa estrema differenza che si staglia come uno sfondo su di un autoritratto io riesco a capire meglio me stesso (cfr. cap 4.7).

Nella fase iniziale di questo incontro ci si muove dunque su di un terreno pericoloso, dove le politiche e le razionalizzazioni degli scenari futuri difficilmente centrano il bersaglio. L’opinione di La Cecla è quella di lasciare che le differenti identità si manifestino esteriormente il più possibile, abbiano un luogo dove farlo e una visibilità crescente (La Cecla 2009). Dare spazio, più che a politiche di integrazione, a processi non intenzionali di scambio culturale50. Sarà da questa manifestazione esteriore, al principio percepita come esotica, che man mano e naturalmente si svilupperà il processo di comprensione dell’altro e, successivamente, della contaminazione. La vera contaminazione infatti non è mai immediata. E’ un processo che ha bisogno di tempo, altrimenti si configura come ipocrisia o falsa comprensione, benché realizzata con buone intenzioni. L’unico mezzo a nostra disposizione per far sì che questo lento processo di proficua contaminazione abbia luogo è quello di lasciare che le culture dei migranti siano visibili.

“E’ proprio la visibilità degli immigrati a consentire, più di ogni altra cosa, un posto nella città. Una «messa in scena» dei propri caratteri etnici – veri, falsi o provvisori che siano, dalla musica al cibo tradizionale, ai vestiti, il tutto diventa occasione di apertura di luoghi che da interni si trasformano presto in attrazione per l’esterno” (La Cecla 2009: 51).

Musica, cibo tradizionale, vestiti e altro, sostiene La Cecla, e in questo “altro” c’è da mettere in primis i riti e specialmente i riti funebri, nonché i cimiteri. Per esempio l’incontro

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La differenza tra processi e politiche di integrazione è analizzata da Ambrosini (2010): “I primi sono costruzioni complesse, che si sviluppano nel tempo, comportano aspetti diversi non necessariamente allineati […] e richiedono comunicazione e scambio, su base di tendenziale reciprocità, tra popolazioni maggioritarie e gruppi minoritari. Un ruolo attivo e una volontà positiva di integrazione da parte di questi ultimi sono richiesti, pur non esonerando le società riceventi dalle proprie responsabilità.

con l’immenso apparato di macchine e gente che si muove lento per la città in occasione del rito funebre cinese potrebbe essere, complice il rispetto e il senso del sacro che la nostra società nutre per i defunti di ogni genere e appartenenza, un incontro estremamente dirompente con l’altro e la sua diversità. Immaginiamo per un istante cosa questo significhi leggendone la descrizione di Manca:

“Un corteo di centinaia e centinaia di persone –spesso vestite con un saio bianco-, i colori sgargianti dei fiori freschi e di carta in gran quantità, il feretro addobbato, le fotografie del defunto, le candele accese, gli spuntini lungo la strada per il cimitero, le riprese video dell’evento, si mescolano alle intense espressioni di dolore delle donne, alla musica e ai fuochi d’artificio: cortei interminabili che bloccano le strade delle città, spaventano e sconcertano gli italiani, rendendo visibile questa comunità che di rado si incrocia per le vie del centro” (Manca 2005: 63).

L’altro dunque, nella sua dirompente alterità, si manifesta a noi attraverso i suoi riti e le sue tradizioni. Allora rendere possibile la manifestazione del lutto e dei riti funebri è, come dicevamo prima, un passo necessario verso la visibilità dell’altro, verso l’incontro, e forse non soltanto un passo tra i tanti, ma uno tra i fondamentali, grazie al ruolo centrale che la morte gioca nella dinamica dei processi sociali e delle relazioni interpersonali. Il migrante non è solo colui che viene in terra straniera per lavorare e basta, egli non è soltanto forza lavoro. Il migrante si porta appresso il suo bagaglio culturale e religioso come parte integrante della sua identità e la religione offre un notevole apporto alla possibilità integrativa. Secondo l’analisi di Hirschman infatti (2004) le funzioni della religione nella vita del migrante sono definite secondo la formula delle “tre R”: rifugio, rispetto e risorse. Le comunità religiose sono un vero e proprio rifugio per i migranti che cercano aiuto, informazioni, solidarietà e senso di appartenenza collettiva. Sono altresì luoghi in cui si può assumere un ruolo sociale, essere riconosciuti e stimati per il proprio contributo, in cui dunque si può ottenere rispetto. Inoltre sono una preziosa fonte di risorse personali, in quanto…

“Una volta che i migranti si sono insediati, hanno ricongiunto o formato una famiglia, hanno cominciato a consolidare le loro condizione economiche e sociali, la frequentazione di un’istituzione religiosa diventa il simbolo di rispettabilità e un’opportunità per allacciare contatti utili ai fini dei nuovi avanzamenti nella scala sociale” (Ambrosini 2010: 44).

Purtroppo però la condizione in cui si trova a vivere il migrante (la mancanza di luoghi di culto idonei e dello stile di vita associato, le modalità abitative, il mancato contatto con la natura) lo porta a non avere una vita spirituale autonoma e completa come nel paese natale (Macioti, Pugliese 2003: 137). Per quanto riguarda la nostra analisi esisterebbe la possibilità di incentivare la creazione di figure professionali atte a mettere in pratica i diversi rituali funebri. Un luogo religioso importante è poi senza dubbio il cimitero. La creazione di nuovi cimiteri però (per religioni diverse) non è ancora un bisogno particolarmente sentito e la maggior parte delle volte è osteggiato, come nel caso del cimitero di Caldiero51. In direzione contraria, per fortuna, l’evento che il 1° Novembre 2001 a Rieti ha visto l’apertura di un cimitero che accoglie cristiani, ebrei e musulmani, ma…

“In genere, ancora oggi per la costruzione dei luoghi di culto gli islamici incontrano, in Italia, molti ostacoli: laddove il desiderio di avere spazi di preghiera dovrebbe essere letto come un chiaro segno della loro volontà di vivere qui, di un loro radicamento” (ivi: 151).

A riprova di quanto detto fin qui è opportuno citare il servizio che il tg1 ha mandato in onda il 6-11-2009, nell’edizione delle 20. Il servizio si occupava dell’occidentalizzazione dei cinesi: chirurgia plastica per diminuire gli occhi a mandorla, cinesi che parlano due lingue e vogliono svolgere un ruolo importante per l’esportazione del Made in Italy in Cina. Ma il servizio si concludeva con queste parole, mentre le immagini mostravano un grandioso corteo funebre cinese a Milano.

“I cinesi non muoiono mai si dice e si racconta di cadaveri surgelati, bruciati, nascosti per riciclare i documenti. Queste immagini del funerale di uno dei padri fondatori della Chinatown di Milano ci insegnano che, se integrati, anche i cinesi muoiono”52.

Come sostiene infatti Chaïb la morte per un immigrato non è un dato qualsiasi da accostare per importanza ad altri altrettanto significativi, ma il perno attorno al quale, simbolicamente, si può comprendere il livello di integrazione del migrante.

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Come già esposto nell’introduzione: la Lega ha promosso una raccolta firme per bloccare la costituzione di una sezione islamica nel cimitero di Caldiero. L’articolo per maggiori dettagli si può trovare a questo link: http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/politica/2010/2-marzo-2010/sepoltura-islamici-stavolta-lega- divisa-1602579725168.shtml

“La mort réelle et symbolique révèle plus que tout autre élément les liens complexes entretenus entre l’immigré avec lui-même, avec sa famille, sa communauté dans un sens large, d’avec les pays d’origine et d’accueil. Les circonstances de décès des immigrés témoignent des rapports fondamentaux aux deux sociétés et la gestion dela mort de l’immigré fait apparaître la réalité des leins et des liens familiaux”53 (Chaïb 2000: 29).

Ora ci troviamo di fronte a questa situazione, per quanto riguarda la relazione tra società di accoglienza e riti funebri: ci sono due carenze. Da un lato una carenza dovuta a dimenticanza, oblio o rimozione, cioè la teoria del “tessuto liso” di Sozzi; dall’altra una carenza nell’informazione e nella gestione dei riti funebri diversi da quelli locali, che si manifesta nella poca attenzione e conoscenza dei funerali e modi di morire diversi dal nostro. Il nostro auspicio è che attraverso una maggiore conoscenza e visibilità dei riti funebri altrui e la creazione di cimiteri per stranieri si possa allo stesso tempo riaccendere un interesse per la questione della morte in seno alla nostra società e rendere più plausibile la morte degli stranieri qui in Italia, anche perché è proprio attraverso la scelta definitiva di vivere e morire qui che passa la loro integrazione.

“Enracinement par la mort, intégration par la mort… Oui, ils sont là pour rester et pourquoi pas pour y mourir…”54 (ibidem).

Molti migranti infatti, pur partendo dal proprio paese con l’intenzione di ritornare finiscono col fare progetti che gli impediscono di farlo a breve termine: aprono piccoli negozi che hanno costantemente bisogno della loro presenza, mettono su famiglia e mandano i loro figli a scuola nel paese d’accoglienza. Ciononostante l’idea di tornare a casa rimane il pensiero più importante e utopicamente sognato. Infatti se li si interroga su questo punto la maggior parte di loro esprime la convinzione che un giorno torneranno, ma che ora non è possibile perché ci sono tante cose da fare e non si possono lasciare a metà. Questi impedimenti pratici, lentamente, si spostano in avanti e silenziosamente trasformano l’idea del ritorno a casa in un vero e proprio “mito” 55. Ma se il mito del ritorno, praticamente, è come se

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“La morte reale e simbolica rivela più di ogni altro elemento i complessi legami dell’immigrato con se stesso, con la sua famiglia, con la sua comunità in senso ampio, con il paese di origine e quello di accoglienza. Le circostanze del decesso degli immigrati testimoniano i rapporti fondamentali alle due società e la gestione della morte dell’immigrato mette in evidenza la realtà dei legami del luogo e dei legami familiari” (Trad. personale).

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“Radicamento attraverso la morte, integrazione attraverso la morte… si, sono lì per restare e perché no, anche per morire” (trad. personale).

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Attorno al mito del ritorno c’è un’ampia letteratura che ha affrontato la questione da un punto di vista identitario e non solo. Le funzioni di questa costruzione ideologica infatti sono molteplici, anche se poi non trovano un riscontro effettivo nelle scelte e nei reali atteggiamenti dei migranti, che poi di fatti diventano fissi e

non esistesse perché di fatto i migranti, pur pensandosi con un piede nel proprio paese e con l’altro nel paese di accoglienza, in realtà si comportano come se dovessero rimanere per sempre in quello di accoglienza, a livello psicologico invece opera con una forte intensità e ha delle conseguenze notevoli. E la morte in questo processo è ancora una volta centrale perché si pone come la minaccia fondamentale per il loro progetto di ritorno. C’è da precisare che in realtà la morte è per tutti gli uomini la minaccia fondamentale per i progetti perché interrompe di fatto la possibilità della loro stessa realizzazione, ma per chi vive nella propria terra d’origine la relazione tra morte e impossibilità di portare a termine le proprie pianificazioni è vissuta sostanzialmente con fatalismo, mentre l’immigrato la vive come «colpa». Il migrante si sente responsabile del suo ritorno e finché non lo effettuerà di fatto ne sarà ossessionato. Ne consegue che il migrante sarà ossessionato dalla morte in terra straniera. Infatti…

“[…] est rongé par une question, celle du retour au pays d’origine, qui prenda au fil des années la figure de mythe. La question de sa mort ne saurait se poser pour lui, ou tout au moins celle-ci ne peut que raviver la question du – celui qui ne s’est pas fait de sont vivant. Aussi, que faire si la mort emporte l’immigré sans que celui-ci puisse s’occuper de son retour? «Où vais-je me fair enterrer)» se demande l’immigré, «déplacé» de son village natal, pour cause de carrière «économique» dans le pays d’accueil”56 (ivi: 22).

Essere sepolti nella terra d’origine d’altronde non è obbligatorio o ortodosso, ma si carica simbolicamente di significati ed è per questo che ha un’importanza sociale. I cinesi dicono: “Luo ye gui gen”, che significa “Non è bene che la foglia cada lontano dalle radici”. Da un punto di vista antropologico poi, la filiazione post-mortem determina l’appartenenza definitiva ad una comunità. La sepoltura in esilio è quindi l’elemento che minaccia questa filiazione, perché è sufficiente che un discendente scelga un luogo di sepoltura diverso da quello degli antenati per far sì che la patrilinearità venga rotta. Sono dunque proprio i giovani immigrati ad avere, a loro insaputa, una responsabilità di rottura o meno con la terra natale attraverso la scelta di una inumazione o il mantenimento del ritorno delle salme verso il santuario di origine (ivi: 22).

stanziali. Per questo motivo si è pensato di definirlo “mito”, cioè come qualcosa che affonda le radici in una realtà immaginata e infondo non creduta reale a tutti gli effetti.

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“[…] è dilaniato da un problema, quello del ritorno al paese di origine che con il passare degli anni diventa un mito. La questione della morte non si pone per lui, o almeno questa non può che ravvivare il problema del ritorno – che non è stato compiuto in vita. Inoltre, che fare se la morte colpisce l’immigrato prima che lui si

“Cos’è la Patrie?, si chiedeva Maurice Barrès, e rispondeva: «la Terra e i Morti». E’ facile vedere che le due componenti della Patrie hanno una cosa in comune: non sono elementi di una scelta. Non possono essere scelti liberamente. Prima che possa solo pensare ad una scelta, l’individuo si trova a nascere su questo suolo in questo momento, inchiodato in questa catena di antenati e posteri. Si può passare da un luogo ad un altro ma non si può portare il proprio suolo con sé né appropriarsi di quello altrui. Si possono scegliere nuove compagnie ma non i propri morti, gli antenati defunti, che sono propri e di nessun altro; né si può trasformare i morti altrui in propri antenati” (Bauman 1995: 141).

E nonostante questi assunti i migranti che si spostano decidono di recidere il proprio passato e incominciarne un altro, rinnovando il proprio passato e cominciando altrove un nuovo futuro. D’altronde si dice che lì dove si muore si ottiene anche automaticamente la cittadinanza.

A questo punto, in base alle analisi fatte fin qui, ci sono, a mio avviso, quattro possibili scenari che si presentano alla nostra capacità di previsione:

a) Un crescente interesse delle politiche sociali verso il tema della morte degli stranieri potrebbe portare all’apertura di cimiteri o sezioni di cimiteri per religioni diverse e una maggiore regolamentazione delle cerimonie funebri altre. Incentivare inoltre la formazione di mediatori culturali con delle conoscenze specifiche sui decessi in terra straniera e di specialisti sui temi delle pratiche funebri porterebbe a diminuire il peso burocratico delle famiglie e l’angoscia che un decesso comporta di suo. D’altra parte il crescere della visibilità dei funerali e di modi di morire diversi potrebbe stimolare una riflessione sulla morte carente nella nostra società.

b) I migranti, pur avendo a disposizione i mezzi pratici e l’assistenza adeguata da parte delle politiche sociali, non si occuperanno del mantenimento delle loro tradizioni funebri e si adegueranno al modo di morire del paese di accoglienza, assimilandolo. In quest’ottica è impossibile un ipotetico interesse da parte degli autoctoni, né di contaminazioni proficue.

b) Il terzo scenario evoca la perdita dell’opportunità di un rimescolamento culturale a causa di un fallimentare o assente approccio delle politiche sociali. I migranti, impossibilitati o disincentivati, si adegueranno alle pratiche più facili e meno dispendiose. Le seconde

generazioni d’altronde difficilmente cercheranno di difendere e mantenere la propria identità attraverso i riti funebri con la stessa intensità, motivazione e forza delle prime generazioni. Anche in questo caso è molto difficile che gli autoctoni si interessino dei modi di morire diversi e che ci sia una proficua riflessione sulla morte.

c) Il quarto scenario invece vede il riaffacciarsi dell’opportunità in una maniera più trasversale. Per così dire, di un “nuovo ingresso dalla finestra” dopo essere uscita “dalla porta”. Secondo questo scenario le seconde o terze generazioni infatti rievocheranno antichi costumi e riti, ma non perché spinti da un bisogno di continuità culturale con le proprie radici storiche, bensì al fine di sopperire alla mancanza di una nuova identità, dal momento che una società come la nostra non è in grado di costruire originali punti di riferimento identitari. Alla ricerca di un ruolo e un posto nella società si spingeranno a cercarli indietro nel tempo e lontani nello spazio, approdando alla cultura antica dei padri, in maniera nostalgica. In questo caso l’attenzione delle politiche sociali potrebbe essere un incentivo, il substrato necessario affinché avvenga il processo e potrebbe beneficiarne l’intera società.