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L’utilità di questa ricerca per il Servizio Sociale

Il migrante e la morte

4.1 L’utilità di questa ricerca per il Servizio Sociale

Innanzitutto occorre ricordare, seguendo gli spunti di Marina Sozzi (2009) e le nostre considerazioni del capitolo 2, che la società occidentale si è ormai lasciata alle spalle una forte tradizione rituale che investiva il lutto e la morte. Su questo argomento, così come sostenne Görer nei suoi scritti già negli anni ‘50, è frettolosa, povera e poco normativa. Non riesce a supportare più le necessità degli individui che si trovano di fronte ad un grave lutto e che non sanno cosa fare e con quali tempi, al contrario di quel che accadeva anche soltanto 30 anni prima. Parlando del rapporto tra morte e cultura occidentale siamo al cospetto di un “tessuto ormai liso”, come ci dice Sozzi, riprendendo a sua volta il concetto di “densità culturale” di Remotti. Una cultura infatti, essendo composta di aree tematiche diverse è necessariamente disomogenea. Nessuna cultura può essere allo stesso modo esauriente e profonda su tutte le aree. Ma una cultura è anche mutevole. Da ciò ne consegue che un’area può passare da centrale a periferica, da sostanziale e densa a marginale e superficiale. Questo, in effetti, è quello che è accaduto proprio all’area tematica della morte, ormai considerata da molti studiosi un tabù (Görer 1963), oggetto di rimozione (Elias 1985; Scheler 1933), decostruita (Bauman 1995) o più precisamente, come già accennavamo, una “parte lisa” del tessuto di cui è composta la nostra cultura46. L’individuo occidentale dunque si trova nella condizione di avere alle spalle una cultura che sulla morte era molto densa mentre ora non lo è più.

“I nostri contemporanei in genere non sono antiritualisti, a differenza dei liberi pensatori ottocenteschi: si trovano però in mezzo a un guado, hanno alle spalle riti che hanno smarrito la loro forza e, davanti a loro, nuove configurazioni che intravedono appena, per compiere e adottare le quali è necessario investire energie nell’invenzione, come accadde nel XVIII e XIX secolo47” (Sozzi 2010: 98).

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Cfr. il paragrafo 9 del capitolo 2: “La crisi delle strategie”.

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Difficile riassumere gli atteggiamenti verso i riti e le usanze in questo lungo e travagliato periodo. Si tenga però presente che la Chiesa, in linea generale, per riavvicinare molti credenti ad un punto fondamentale della

Uno dei fattori che indebolisce la riflessione sulla morte e con essa la ritualità sociale che l’accompagna è il fenomeno della secolarizzazione. La morte infatti, fino ad oggi ambito di riflessione proprio della speculazione religiosa, venendo a mancare quest’ultima a causa della cosiddetta “crisi della religione”, s’è trovata d’un tratto orfana del proprio centro di significazione principale. Ma questo non significa che ne sia uscita necessariamente indebolita per sempre, ed in effetti oggi sembra in quella fase in cui è ancora alla ricerca di nuovi paradigmi per attuare una possibile risignificazione di se stessa. Martelli parla esplicitamente di fenomeni di de-secolarizzazione o secolarizzazione della secolarizzazione (Martelli 1990). Oggigiorno quindi non sarebbe in atto un processo di graduale scomparsa dalle scene pubbliche e private del fenomeno religioso, ma una sua rielaborazione secondo nuove istanze. Questo è vero anche in merito alla morte e ai suoi rituali (Martelli 2005).

“L’incredibile «risveglio religioso» che, attivatosi prima degli anni ‘80, non accenna ancora ad arrestarsi, ci informa che il processo di razionalizzazione – ma sarebbe più opportuno chiamarlo iperdifferenziazione funzionale e crescente complessità sociale – non è poi così coerente con se stesso, anzi genera una «richiesta sociale» di religiosità talmente forte, anche se estremamente frammentata e problematica (Morandi in Martelli 2005: 134).

Se la società occidentale contemporanea vuole intraprendere un percorso per risanare questa frammentarietà della religiosità essa dovrà per forza di cose porre maggiore attenzione alla complessità del fenomeno della morte, che come abbiamo visto vi è strettamente interconnesso. Non potendo “riesumare” completamente la tradizione culturale che l’ha preceduta, dovrà quindi confrontarsi con altri modi di pensare la morte e quindi di morire. Se vuole colmare la lacuna che sulla morte si è andata producendo è opportuno che si attivi anche “il confronto con altri sistemi culturali” (Sozzi 2010: 16). I migranti e le differenze culturali che essi portano con loro, in merito alla morte e al modo in cui essa viene intesa ed esperita, sono dunque un enorme tesoro, una grande opportunità per confrontare modelli e confrontarsi con nuove possibilità, per comprendere gli altri e ricomprendere noi stessi in maniera originale.

“Così, talvolta, i nostri contemporanei sono portati a guardare con nostalgia o al passato della cultura cristiana (dove la morte era questione collettiva e non individuale) o a culture «altre», dove esiste ancora il senso della comunità” (Sozzi 2009: 18-19).

La cultura infatti non è un pacchetto definito e immutabile di istanze, ma una cassetta per gli attrezzi (Swidler 1986), ambigua e conflittuale (Clifford e Marcus 1997; Hannerz 2001), sempre pronta ad essere aggiornata e ridefinita, in un processo che si instaura senza soluzione di continuità tra le parti. In conclusione: la possibilità di avere sulla scena pubblica “altri modi di morire” potrebbe installarsi correttamente e proficuamente sulla “richiesta sociale di religiosità” dell’occidente post-moderno di cui parla Martelli.

Ma oggigiorno abbiamo anche un’altra esigenza, la più impellente: cercare di aiutare chi è straniero ad esperire il lutto nella maniera più adeguata possibile alla sua cultura d’origine. Metterlo almeno nella condizione di poter osservare le pratiche che egli sente più rappresentative della propria identità. Come abbiamo visto infatti, l’elaborazione della perdita attraverso i riti e lo spazio per la commemorazione ed il ricordo dei cari defunti (cap 2.6), sono elementi importantissimi che soccorrono gli individui nel momento del più grande spaesamento esistenziale e dell’incertezza sociale. La memoria e il ricordo agiscono a due livelli: individuale e collettivo. Essi sono la colla che ci lega al passato e ci ancora al presente, dandoci la sensazione di poter affrontare il futuro. Tramite il ricordo e la memoria (e quindi i funerali e la tomba nei cimiteri, nonché le ricorrenze) ci riconosciamo in una particolare filiazione famigliare, ma anche in una particolare tradizione culturale, il che comporta un arricchito senso di stabilità. Lasciare che un tale processo di ricostruzione della propria identità sia messo seriamente in discussione a causa di varie problematiche (come vedremo nel capitolo VII) implica per gli individui interessati una serie di conseguenze disastrose:

“Quando questo processo fallisce viene meno la possibilità di soddisfare il nostro essenziale bisogno di continuità, di proiettare in un dimensione temporale quanto di stabile presupponiamo in noi. Viene meno la possibilità di riconoscere e di riconoscerci nel trascorrere della nostra esistenza. Di sapere e di credere d’essere un poco immortali. Allora il tempo assumerà valenze d’incubo. Il presente sarà ridotto ad un istante inafferrabile, il passato un pozzo terrorizzante che tutto ingloba e il futuro come una attesa angosciante che piomba inaspettatamente su di noi.

E i morti diventeranno un’ossessione, perché non si è più in grado di seppellirli, d’integrare cioè il morto nella vita collettiva, di produrre quello sforzo che trasformi il putrescente in qualcosa che duri” (Cavicchia Scalamonti 1992: 36-37).

Il Servizio Sociale48 dunque, come dottrina teorica e pratica, non può esimersi dall’affrontare questo tema. In Italia esiste solo un precedente che si occupa delle relazioni tra i migranti e la tematica della morte ed è lo studio di Maria Cristina Manca in area fiorentina. Scrive Eugenio Paci nell’introduzione al libro “Le cerimonie funebri come riti di passaggio”: “Sono sicuro che questo libro di Maria Cristina Manca aprirà nuove opportunità per arricchire una conoscenza che è essenziale per orientare e guidare la ricerca e il cambiamento nella nostra assistenza sociale e sanitaria, contribuendo non solo a migliorare l’intervento per le persone immigrate, ma l’insieme della nostra riflessione sul prendersi cura dell’altro” (Manca 2005: 11).

La stessa autrice auspica per il proprio libro di diventare il battipista per nuove e sempre più approfondite ricerche.

“Mi auguro che questa breve ricerca sia seguita da ulteriori approfondimenti di carattere più scientifico e interdisciplinare e possa essere un piccolo frammento per ricostruire il puzzle del fatto sociale totale. […]

La domanda di servizi funebri non cattolici è considerevolmente cresciuta in questi ultimi anni, diventerà sempre più pressante e richiederà un tipo di servizio multiculturale che è fondamentale già studiare attentamente e iniziare a realizzare” (Manca 2005: 75).

Nel dossier sull’immigrazione della Caritas del 2009 per la prima volta è dedicato un capitolo al tema della morte per i migranti, affrontando così nello specifico i dati e le problematiche relative, anche se in quello del 2010 il tema non è stato aggiornato. Si fa strada quindi lentamente la consapevolezza dell’importanza del tema e della sua centralità per comprendere e agevolare la vita degli stranieri. In ambito europeo lo studio più esplicito a riguardo è il libro di Chaïb, L’émigré et la mort, (Chaïb 2000). Il testo è un’analisi sociologica ed antropologica del problema della morte per gli immigrati in Francia, specialmente magrebini e di fede musulmana.

Questa ricerca quindi può far luce su due esigenze differenti ma correlate tra loro: approfondire le conoscenze sulle culture altre per generare un ripensamento delle nostre e allo

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Il Servizio Sociale è definito sul documento dell IFSW del 2006 (International Federation of Social Workers) così (Montreal Definition 2001): “The social work profession promotes social change, problem-solving in human relationships, and the empowerment and liberation of people to enhance well-being. Utilising theories of human behaviour and social systems, social work intervenes at the points where people interact with their environments. Principles of human rights and social justice are fundamental to social work” (http://www.ifsw.org/cm_data/IFSW-GoldenJubilee_1.pdf: 27). “La professione del servizio sociale promuove il cambiamento sociale, la soluzione di problemi nei rapporti umani e l'emancipazione e la liberazione delle persone per aumentare il benessere. Utilizzando le teorie del comportamento umano e dei sistemi sociali, il servizio sociale interviene nei contesti in cui le persone interagiscono con i loro ambienti. I principi dei diritti umani e la giustizia sociale sono fondamentali per il lavoro sociale” (Traduzione personale).

stesso tempo mettere chi è diverso nella condizione di poter esprimere se stesso al meglio. Queste due esigenze, che sono anche i principali obiettivi della presente ricerca sono sintetizzati benissimo da Sozzi in queste righe:

“Poiché l’immigrazione dai paesi del Terzo e Quarto Mondo è una realtà in tutto l’Occidente, il problema della carenza di riti si è ulteriormente modificato: si tratta infatti di immaginare spazi rituali atti a dare risposte ai cittadini colpiti da una perdita in società ormai strutturalmente plurali e multiculturali” (Sozzi 2010: 42).

La domanda che ne consegue è: come possono i rituali dei migranti aiutare una nuova e necessaria ritualizzazione in Occidente? E inoltre: quanto presto i migranti assorbiranno o magari si lasceranno totalmente investire, se non ci sarà questa commistione favorevole, dal modo di morire occidentale, dal momento che un incontro di culture è sempre uno scambio reciproco e mai univoco?

In America per esempio, come ci spiegano Huntington e Metclaf (Huntington e Metcalf 1985), molti migranti, invece di mantenere vive le tradizioni dei paesi d’origine, hanno adottato l’American way of death. Emanuele Severino (come abbiamo visto nel cap 1), ci avverte del trend globale che la concezione della morte sta prendendo. Infatti individualismo, capitalismo, globalizzazione, omologazione e morte intesa come “annullamento totale” sono fenomeni strettamente intrecciati tra loro. Se non poniamo attenzione a salvaguardare le differenze, gli altri modi di intendere la morte (che non siano cioè la Follia Estrema dell’annullamento dell’Io propria della cultura greco-occidentale) saranno sopraffatti e schiacciati, lasciandoci meno ricchi di un tempo.

La questione della morte degli altri è una questione di fondamentale importanza per la valutazione del grado di civiltà della società di accoglienza. Su questo terreno si gioca la partita basilare della reale accoglienza che un paese è in grado di dare agli stranieri, a tal punto che, come scrive Chaïb, “La mort est en effet une épreuve de vérité pour le groupe car comme le soulignent les anthtopologues, aucun groupe ne se désintéresse de ses morts ou ne le abbandonne; «l’homme est l’animal qui ensevelit ses morts», fait remarquer Louis-Vincent Thomas”49 (Chaïb 2000: 22).

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Allo stesso tempo la morte dei migranti non è solo una questione etica e quindi di principio, quanto una questione pratica, utile da affrontare anche per il mantenimento dell’ordine della società di accoglienza. Ogni società infatti è chiamata a risolvere il problema della morte dei suoi membri al fine dell’equilibrio e della durata delle sue stesse componenti strutturali (Cavicchia Scalamonti 1992). La questione dell’inserimento dei morti stranieri nell’universo simbolico della nostra società è un elemento per cui ne vale la durata e la stabilità della nostra stessa società. Istituzionalizzare la morte dell’altro è quindi un importante scudo contro il terrore. Per i migranti che sono fuori da questo scudo l’effetto è quello di essere fuori da questa possibile protezione dal terrore e per la società di accoglienza questa mancanza di protezione si riverbera sulle strutture protettive dell’ordine sociale.

“Essere fuori dalle convenzioni, perciò, significa essere privi di questo scudo ed essere esposti, soli, agli assalti dell’incubo. Il terrore della soluzione, pur essendo probabilmente già presente nella costituzionale socialità dell’uomo, a livello di significato si manifesta nell’incapacità umana di condurre un’esistenza significativa in stato di isolamento dalle costruzioni convenzionali della società” (Berger, Luckmann 2007: 144).

Thomas (1976: 77) ci spiega che il diritto, dopo Durkheim, è il fatto sociale per eccellenza, “espressione diretta della coscienza collettiva” (ivi). Si cristallizza in formule, leggi, regolamenti. Tale istituzionalizzazione può essere in anticipo sulla coscienza collettiva, in

ritardo o rappresentare solo la volontà del gruppo dominante. La presa di coscienza

istituzionale della morte all’estero dei migranti, a tutt’oggi, essendo l’Italia un paese di nuova immigrazione ed essendo il fenomeno dei migranti morti ancora relativamente ridotto, ha solo in parte i caratteri del ritardo, ma molto spesso trova l’opposizione di chi non vorrebbe che si radicassero nel territorio.