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Il triplice dato antropologico della morte

La morte, sguardo sociologico

2.2 Il triplice dato antropologico della morte

La morte dunque è un grande trauma (ivi: 43), ma questo trauma ha anche un grande potere rigenerativo ed è per questo che è importante analizzare cosa accade nel momento della presa di coscienza della morte. Per Edgar Morin (ibidem) esiste un triplice dato antropologico sulla morte che sarebbe tale solo analiticamente, in quanto il fenomeno è comprensibile soltanto se osservato globalmente. Questo triplice dato antropologico della consapevolezza umana della morte è il seguente: a) coscienza della morte come fatto reale, b) coscienza traumatica, c) affermazione di un immortalità che superi e risolva il trauma della morte. Questi tre momenti sono componenti psicologiche universali che operano all’interno del singolo soggetto ai quali però corrispondono altrettanti momenti sociologici. In un tipico ribaltamento della causa e dell’effetto che spesso mette in scena Morin è possibile infatti affermare anche il contrario, ovvero che “la triplice realtà sociologica riconduce perciò alla triplice realtà psicologica che ne chiarisce la natura” (ivi: 43) . Questo è vero già per l’uomo arcaico e si mantiene allo stesso livello di complessità fino ad oggi, senza nessuna possibilità di pensare gli uomini primitivi come più ingenui di quelli odierni, anche perché le strutture fondamentali di questo dato antropologico sono riscontrabili nelle società arcaiche come nel

in prima istanza con atteggiamenti infantili. Lo sgomento, la presa di coscienza e, perché no, la possibile soluzione trascendente, sono sempre le stesse, operano da sempre e allo stesso modo nell’intimo della psicologia umana, definendo, come abbiamo accennato, anche la realtà sociologica. Nella morte dunque è facilmente osservabile come psicologia e sociologia siano interconnesse e il modo chiaro in cui dialoghino. E’ insomma facilmente osservabile quel processo dialettico bipolare che si instaura tra individuo e società, tra individuo e comunità. Per Morin infatti è la stessa coscienza della morte ed il suo trauma a far emergere con chiarezza la consapevolezza di sé come individui. Impossibile entrare nel meccanismo del triplice dato antropologico senza portare con sé anche la consapevolezza della propria individualità e del defunto. Maggiore il grado di quest’ultima maggiore lo spavento di fronte alla morte. La coscienza della morte è un fatto che riguarda l’individuo e la paura della morte deriva dalla paura di perdere la propria individualità. Il gioco è dialettico: l’individualità persa dal defunto genera orrore ed è questo orrore che ci fa chiaramente intuire quanto consideravamo quel morto individuo. E’ nella perdita e nel trauma che ad essa consegue che emerge con chiarezza l’entità della individualità che si è persa. Il vuoto che si viene a creare con la perdita è lo stesso nel quale sprofondiamo. Tanto più sprofondiamo tanto più ci si palesa l’importanza della perdita.

“Quanto più l’uomo scopre la perdita dell’individualità dietro la realtà putrida di una carogna, tanto più è «traumatizzato»; e quanto più è coinvolto dalla morte, tanto più scopre l’irreparabile perdita dell’individualità” (ivi: 44).

In questo preciso momento sentiamo un disadattamento generale di noi stessi alla vita. L’uomo, nel preciso istante in cui nella perdita dell’altro si rende conto dell’altro e di se stesso, sente di non poter risolvere il problema della morte con le proprie forze e il disadattamento alla vita gli si palesa con tutta la forza possibile. “A che pro?” dice Jankélèvitch (cfr. cap.1.2). L’individuo non può da solo rispondere a questa domanda terrificante, non può da solo risolvere questo disadattamento, non può risolvere il problema della perdita della propria individualità. La propria individualità, stando così le cose, andrà persa, questo è certo. Non c’è salvezza possibile. Il cadavere dell’altro, del proprio amato, quel volto che ormai è maschera senza espressione vitale (cfr. Levinàs cap. 1.3), la scomparsa definitiva del dialogo con lui (Thomas 1976: 269), sta lì a dimostrare che non c’è più vita, individualità e questa perdita assoluta così come riguarda il suo caro riguarderà un giorno anche lui. Ed allora è il momento dello spaesamento, del senso di estraneità al mondo, dell’angoscia della mancata corrispondenza tra il sé e il cosmo, la sensazione che il mondo

non sia una casa da abitare, ma un inutile deserto da attraversare senza soluzione. Eppure questo disadattamento è relativo (Morin 1980: 87) e lo dimostra il fatto che l’uomo continua a vivere nonostante abbia sentito questa musica funebre, questa sentenza di morte definitiva ed incontrovertibile.

“Se ogni singolo essere umano fosse del tutto disadattato alla morte morirebbe di morte, perché nel mondo della vita la morte è sanzione di qualsiasi disadattamento assoluto; del resto colui che non riesce a tollerare l’idea della morte alla fine muore: di angoscia […] o di morte volontaria, suicidandosi” (ibidem).

Se l’uomo continua a vivere nonostante l’esperienza traumatica della morte è perché in lui coabitano varie possibilità di superamento di questo disadattamento fondamentale. Ma come può l’uomo adattarsi alla morte? Morin ci dice che adattarsi alla morte in senso assoluto non è possibile ed essa rimane sullo sfondo, sempre e comunque, come il non-senso più radicale, come mistero insolubile e origine di tutti i misteri. Ogni volta che presteremo attenzione al problema della morte esso si presenterà intatto e forte come la prima volta. Esistono però delle vere e proprie strategie che operano a diversi livelli (psicologico, sociale, antropologico) e che permettono all’uomo di fronteggiare la morte, di entrare in guerra con essa. Esamineremo queste strategie una ad una perché sono il modo migliore di dimostrare come la guerra sia combattuta su tutti i fronti possibili e di conseguenza come la morte sia “un fatto sociale totale”. Nel capitolo precedente infatti abbiamo potuto constatare, sul piano filosofico, come dalla morte derivassero la filosofia, la scienza, il nichilismo e la trascendenza in generale. Ora è venuto il momento di affrontare le conseguenze della morte dal punto di vista sociologico e antropologico, avendo già visto come dalla morte scaturisca la presa di coscienza della propria e dell’altrui individualità.