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I presupposti sociali della coscienza della morte

La morte, sguardo sociologico

2.1 I presupposti sociali della coscienza della morte

Nel capitolo precedente abbiamo visto come il punto di vista di questa ricerca sull’origine della coscienza della morte sia di tipo “empirista” e non “innatista”. La coscienza della nostra morte è un tipo di conoscenza che scaturisce da fatti reali, cronologicamente successiva al nostro essere nati. Non c’è dunque un pensiero “a priori” del nostro dover morire installato nelle nostre menti nell’atto originario del venire alla luce. La coscienza della morte non è un sapere innato presente in tutti al di là dell’esperienza personale che se ne fa, come fosse un istinto particolare della nostra specie.

“Questa lucidità d’altronde non è la presa di coscienza di un sapere caratteristico della specie ma frutto di un sapere strettamente individuale: l’individuo si appropria della coscienza della morte che non è dunque innata, ma rappresenta una conquista della coscienza ormai in grado di cogliere il reale. E’ solo «per esperienza» che l’uomo sa di dover morire: la morte umana è un’acquisizione dell’individuo” (Morin 1980: 70).

La coscienza della nostra morte è sempre il risultato di un apprendimento che è coincidente con la morte dell’altro e attraverso questa esperienza deve sempre passare. Ogni uomo che nasce deve ogni volta riscoprire “sulla propria pelle” cos’è la morte e porsi ogni volta le relative e solite domande. Non è possibile esperire la morte come fosse un’illuminazione a tavolino, indipendente dagli eventi della vita. Vedremo in seguito che dietro a questa impossibilità c’è un motivo ben preciso. Ripeteremo ancora una volta e questa volta con le parole di Natoli qual è a nostro avviso il primo e originario modo di incontrare veramente la morte nella vita di un individuo:

“Il modo primo e originario con cui si fa esperienza della morte è la morte dell’altro: è lì che l’uomo incontra la morte per la prima volta. E’ nella morte di qualcuno, o nella storia di una morte, che tutti i nati incontrano prima o poi il morire e, con esso, la mortalità dell’uomo (Natoli 2010: 157).

Ma non basta incontrare la morte dell’altro affinché ci sia completa presa di coscienza della morte. Sono necessarie anche altre condizioni, dei presupposti cognitivi, altrimenti un qualsiasi animale che non sia l’uomo potrebbe, in linea generale, incontrando la morte di un suo simile, esperire la morte in sé. Invece la morte dell’altro o la notizia della morte dell’altro è la condizione necessaria ma non sufficiente affinché ci sia coscienza della morte. Infatti il bambino piccolo che non è ancora cosciente dell’individualità dell’altro (e di conseguenza della propria) non può esperire la morte del genitore, tanto meno quella di un estraneo. Una ricerca effettuata da Nagy sulla cognizione infantile e sulla comprensione degli aspetti peculiari della morte (Nagy 1948), cioè dei concetti di cessazione delle funzioni vitali, irreversibilità ed universalità, risulta molto importante nell’ambito della storia di queste ricerche. Attraverso i dati raccolti, l’autrice individua nei bambini 3 stadi di sviluppo del concetto di morte. Questi sono:

• prima dei 5 anni: la morte sembra essere paragonata al semplice dormire e dunque vista come uno stato reversibile.

• dai 5 ai 9 anni: la morte è vista come inevitabile e tipica della vecchiaia. • dopo i 9 anni: il bambino è capace di concettualizzare la morte come un evento

universale ed irreversibile.

Altri autori (Childers e Wimmer 1971; Furman 1964; Vianello e Marin 1985) non sono d’accordo con questa classificazione e ne propongono delle altre, ma per la nostra analisi è importante sottolineare come tutti siano concordi nell’affermare che la coscienza della morte subentri ad un certo punto della vita del bambino, motivo per cui gli autori si riferiscono a questo evento come ad una vera e propria “scoperta”10.

In sintesi: le condizioni necessarie ma da sole non sufficienti sono: la morte dell’altro, la possibilità di rintracciare una individualità nell’altro e la sua generalizzazione.

Ora si dà il caso che l’individualità che noi attribuiamo all’altro non è una caratteristica prettamente razionale ed astratta che si distribuisce a macchia d’olio e indiscriminatamente a tutto il genere umano, ma è vincolata ad una serie di processi affettivi e contingenti. L’altro che per noi è proprietario di una individualità è colui con il quale siamo entrati in contatto, nei cui occhi ci siamo specchiati. Dobbiamo quindi aggiungere che la coscienza della morte nella sua totale e definitiva complessità si compie nella morte dell’altro che ci è vicino (mort du

prochain). Non un altro qualsiasi quindi bensì quell’altro a cui siamo affezionati, a cui

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http://www.salus.it/psicologia-c41/psicologia-infantile-c109/la-scoperta-della-morte-e-il-lutto-nellinfanzia- 1633.html

riconoscevamo un’ importanza nella nostra vita e che ora ci manca. Ci manca la sua presenza che era parte di noi. Con la sua morte sparisce una parte di noi11 perché “[…] la morte dell’altro non mi ricorda solo che devo morire: in un certo senso essa è anche un poco la mia

morte” (Thomas 1976: 273-274).

“Quanto più il morto ci era vicino, intimo, familiare, amato e rispettato – vale a dire «unico» - tanto più il dolore per la sua scomparsa sarà intenso; quando muore l’essere anonimo che non era «insostituibile», invece, siamo appena turbati o non lo siamo affatto” (Morin 1980: 42).

La morte di colui che non è insostituibile equivale al “si muore” heideggeriano, quell’anonimo essere vivente che non ci appartiene in nessuna maniera, con cui non condividevamo nulla e la cui morte non può assolutamente innescare tutta una serie di processi cognitivi a cui abbiamo già accennato nel capitolo precedente. D’altro canto nessun uomo può sentire le stesse emozioni per la morte di uno sconosciuto così come le proverebbe per un familiare. E’ una sorta di meccanismo di regolazione del sentire emotivo che altrimenti sommergerebbe di dolore chi fosse consapevole della morte di un qualsivoglia appartenente al genere umano. L’impossibilità della partecipazione empatica universale alle sorti dello straniero, ma anche dell’anonimo della propria città, ci porta a percepire come significativa la morte dell’altro, come abbiamo già detto, solo in determinate situazioni di “vicinanza”, ma questo non deve far credere che la vicinanza debba per forza essere di tipo spaziale ed effettiva. Possiamo sentire vicino anche un personaggio della TV che non abbiamo mai conosciuto personalmente, ma le cui vicissitudini biografiche siano state con costanza presenti alla nostra mente. Ne sono testimonianza i popolatissimi funerali delle star del cinema, come sostiene Morin:

“Se diamo retta ai pettegolezzi, del resto, scopriremo che la morte di una stella del cinema, di un ciclista, di un capo di Stato o di un dirimpettaio fa più effetto di quella di diecimila indù morti in un’inondazione” (Morin 1980: 42).

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E' bene sottolineare come l'incontro con la coscienza della morte può avere luogo anche nella morte di un animale domestico e non soltanto nella morte di un uomo. Molte volte anzi è proprio la morte di un gatto o di un cane a comportare per il bambino il primo incontro con la morte e le prime domande su “dove sia finito”, con la ricezione delle relative spiegazioni da parte dei genitori. Questo non inficia però il discorso, perché non è tanto l’altro in quanto essere umano quanto l’altro in quanto parte integrante della nostra intima attività emotiva e

E’ l’empatia, il senso di fratellanza che noi abbiamo con il caro estinto che ci fa legittimamente dedurre che così come lui adesso non c’è più un giorno anche noi non ci saremo più. Questa consapevolezza non è pacifica e senza conseguenze. Prima di tutto non è pacifica perché produce sgomento, senso irreparabile della perdita definitiva, quella mancanza angosciante del caro che sappiamo che non rivedremo più. Questo senso di vuoto e di disperazione non è proprio solo della specie umana (Homo sapiens) anche se in essa trova la sua massima espressione. Ne sono un esempio il cane che si lascia morire sulla tomba del padrone o la madre scimpanzé che continua a trascinare il corpo senza vita del proprio piccolo per 68 giorni proteggendolo persino dalle mosche. Tuttavia l’uomo possiede un senso più completo della morte dell’altro (Tattersall, 2008), a cui fanno seguito le varie forme di rituale funebre, di lutto e cordoglio, presenti in ogni tipo di cultura del mondo12 (Thomas 1976). Di fatto, per coloro che rimangono, ogni decesso viene percepito come un trauma, un vuoto a cui far fronte, un momento di instabilità in cui un tassello viene a mancare. La società infatti è costituita da individui e ogni morte provoca su di essa un rimodellamento. Questi rimodellamenti possono essere rapidi o lenti, ben riusciti o mancati, come vedremo in seguito, ma comunque si attuano sempre attraverso degli strumenti precisi, che sono diversi a seconda del contesto sociale e della cultura in cui gli individui sono cresciuti.

“Di fronte alla morte, caratterizzata da un livello particolarmente alto di entropia e disfacimento, tutte le culture hanno fornito, in misura diversa, risposte di riduzione della complessità, promuovendo concezioni di buona e cattiva morte, offrendo riti a esse connesse, e più in generale modelli di gestione del post mortem. L’intero gruppo sociale non può disinteressarsi della perdita dei suoi membri, e soprattutto non può non stabilire (in modo progettuale) dei modelli di buona morte, di rito funebre ben svolto e di lutto «normale», a cui viene rapportato comparativamente ogni singolo morire umano” (Sozzi 2009: 15).

In secondo luogo la morte non è pacifica e senza conseguenze perché, come sostiene Morin, c’è l’orrore, il terrore di fronte alla decomposizione del cadavere, motivo per cui probabilmente nelle società arcaiche si sono istituite alcune pratiche funebri. Robert Hertz

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Ciononostante alcuni studiosi come James Anderson e Tetsuro Matsuzawa si sono concentrati su alcuni comportamenti del tutto simili a quelli umani degli scimpanzé in seguito a determinati lutti. Comportamenti che ricordano il pianto per i morti e il prendersi cura del morente. Tali comportamenti erano stati osservati anche da Jane Goddal, pioniere negli anni sessanta degli studi sui primati, in particolare sugli scimpanzé e sono particolarmente significativi in quanto dimostrano che i primati, per quanto riguarda la consapevolezza della morte, sono più vicini a noi di quanto potessimo immaginare. (http://oggiscienza.wordpress.com/2010/04/27/il- lutto-fra-i-primati/).

(1978) ha infatti evidenziato come il periodo del lutto corrisponde alla durata della decomposizione. Inoltre è stato osservato come alla base del periodo che deve intercorrere tra il decesso e i funerali ci sia il clima del luogo: maggiore dove fa più freddo, minore dove fa più caldo. Questo perché lì dove fa più caldo è più veloce il processo di decomposizione, che deve essere evitato assolutamente, in quanto impuro o semplicemente orribile. Per questo, nella cultura islamica, dare sepoltura prima possibile è un precetto importante. Da questo orrore per la decomposizione del cadavere traggono origine le pratiche per accelerare il processo di decomposizione come la cremazione e l’endocannibalismo, per evitarla nel caso dell’imbalsamazione e per allontanarla come nel caso dell’inumazione (Morin 1980). Eppure questo orrore non si verifica se al cadavere non è attribuita una individualità, se non lo si sente vicino e simile. La carogna animale provoca schifo e repulsione, ma non orrore. Il cadavere del nemico o del traditore è lasciato marcire sul suolo senza troppe smancerie funebri, perché a lui non gli si riconosce un’individualità. “L’orrore insomma non sta nella carogna, ma nella carogna del simile; ed è l’impurità di quel cadavere a essere contagiosa” (ivi: 42).