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Le strategie della comunità: le cerimonie funebri e il lutto

La morte, sguardo sociologico

2.6 Le strategie della comunità: le cerimonie funebri e il lutto

Come abbiamo visto i funerali hanno la funzione di iniziare il defunto, nella sua nuova condizione di doppio, ad una nuova vita (iniziazione suprema), ma allo stesso tempo assolvono anche ad un’altra funzione, quella di equilibratori sociali. Da una parte infatti assicurano al “novello viaggiatore” tutto il necessario, sia praticamente che psicologicamente, per poter compiere un buon viaggio nel regno dell’aldilà16, dall’altra uniscono maggiormente coloro che rimangono su questa terra e permettono loro di far fronte alla perdita; perdita dolorosa da un punto di vista personale per i cari e perdita funzionale per la comunità, che si ritrova senza uno dei suoi membri. Ogni morte infatti genera all’interno della collettività un vuoto, uno shock, un momento di instabilità in cui un tassello viene a mancare. Il suo impatto è dirompente e le conseguenze sulla società coinvolgono un gran numero di persone (Blauner, in Cavicchia Scalamonti 1984: 20).

Se dovessimo paragonare i gruppi umani a organismi in se stessi auto-poietici, diremmo che ogni morte genera uno squilibrio, una febbre. Le comunità e le società quindi, costituite da individui, devono fronteggiare sempre un periodo di riassestamento complessivo dopo una

perdita, una convalescenza. Questo riassestamento è come un’onda d’urto di un terremoto: più forte nelle vicinanze dell’epicentro, ovvero per le persone che erano più vicine emotivamente (e non solo17) al defunto e meno dirompente per chi vi era lontano. La percezione del terremoto arriva comunque a tutti i membri, anche se soltanto sotto forma di eco distante. Altro elemento importante per capire l’intensità di questo shock è la condizione sociale più o meno elevata del defunto (Van Gennep 2007: 128).

Dunque la morte genera due movimenti collegati tra loro: da un lato produce un vuoto e dall’altro stimola alla ricomposizione, come spiega D’Agostino:

“Death operates as a double mechanism for action and reaction in which the first breaks down the texture of the gameinschaft and the second tends to recompose its unity” (D’Agostino 1977: 18)18.

In questo meccanismo il ruolo della comunità è terapeutico in primo luogo perché la

solidarietà si intensifica. Si rinsaldano i legami familiari, ci si stringe attorno a chi ha subito il

lutto, si instituiscono nuovi vincoli; in secondo luogo per un meccanismo di compensazione, perché la comunità cerca di sostituirsi il più possibile alla famiglia che ha subito la perdita; in terzo luogo per un effetto di diffusione del dolore, perché più si è, meno il dolore è percepito. Come dicono i proverbi: “Aver compagni al duolo scema la pena” (ivi: 20-21), “Mal comune mezzo gaudio”.

“La più lontana ragione d’essere del rituale si ritrova dunque nel riequilibrarsi dei ritmi biologici e sociali. I rituali danno una sensazione di benessere ed alleviano lo stress prolungato ed intenso. Questo anche perché il rituale dà significati a situazioni stressanti, come la presenza della morte” (Acquaviva 1991: 26).

Importante inoltre la familiarità che si è avuta specialmente nel corso della propria infanzia con il tema della morte, nonché con la morte vera e propria. Scrive a questo proposito D’Agostino: “Early socialization of children to death helps diminish the anguish and fear of

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Molto spesso la morte di un individuo diventa per la società anche un problema pratico: “mancanza di manodopera e di sostegno economico all’interno della famiglia nel caso di un uomo, difficoltà organizzative e di riproduzione biologica e culturale all’interno dello spazio domestico nel caso di una donna, problemi di continuità della stirpe nel caso di un/una bambino/a” (Manca 2005: 43).

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Traduzione: “La morte opera come un doppio meccanismo d'azione e reazione, in cui nel primo momento scompone il tessuto sociale, mentre nel secondo tende a ricomporre la sua unità”.

death” (D’Agostino 1977: 14)19. In un piccolo paese del sud Italia20 per esempio, in passato, ma anche in Africa (Thomas 1976), i bambini venivano fatti assistere all’esposizione pubblica del corpo del defunto e partecipavano al cordoglio imitandolo. Essi erano considerati parte della comunità in tutti i suoi eventi e alla stregua degli adulti. Di conseguenza avevano la possibilità di sviluppare una sorta di anticorpi naturali alla tematica, che li rendeva più preparati nel momento in cui si sarebbero verificati altri lutti. I comportamenti da tenere in simili circostanze diventavano parte integrante della loro memoria di base.

Gli strumenti in mano alla collettività dunque sono diversi a seconda del contesto sociale e della cultura. Analizziamo i più diffusi: cade sotto il termine di lutto l’intervallo di tempo che deriva dall’entropia generata dalla morte e si conclude con il nuovo equilibrio. Il lutto apre di fatti il periodo di riassestamento sociale e si conclude con la auspicata chiusura della ferita, perché il lutto è la formalizzazione di questo processo di rimarginazione. Impossibile isolare i fatti sociali da quelli psicologici o semplicemente stabilire una cronologia tra di essi per capirne la genesi. La perdita personale agisce insieme a quella collettiva e retroagisce in maniera altrettanto complessa, creando modalità di partecipazione, di interazione e comportamenti. Non si può parlare di una legge universale: i meccanismi in cui i diversi piani interagiscono creano le particolari usanze di ogni cultura. Essi sono storici e contingenti, ma ciò che vale per tutte le culture è la funzione di riorganizzazione psicologica e sociale svolta dal lutto. Coloro che partecipano al lutto infatti sono come in un limbo situato tra un prima e un dopo, che molte volte corrisponde allo stesso limbo in cui si troverebbe concretamente il defunto, ancora non completamente approdato nel regno degli antenati (Van Gennep 2007: 128). Il lutto è dunque il doppio simbolico dello stato fisico del defunto. Tramite il lutto ci si allontana dalla persona cara, ci si ritrae da essa, si fa fronte al dolore che abbiamo subito con la sua scomparsa e si riafferma gradualmente un nuovo equilibrio, così come il defunto si allontana dal mondo dei vivi e giunge in quello degli antenati. Il lutto poi “include il comportamento, gli atteggiamenti e i sentimenti di una persona che recentemente è stata separata per la sua morte e che sta sforzandosi di rinunciare a lui” (Krupp in Cavicchia Scalamonti 1984: 186). Include quindi anche il cordoglio e l’afflizione, ovvero per quanto riguarda il primo le emozioni interiori e in parte le manifestazioni personali di queste emozioni, mentre per quanto riguarda il secondo l’insieme di comportamenti che scaturiscono dall’esteriorizzazione del cordoglio e che quindi hanno una valenza prettamente sociale (ivi:

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Traduzione: “La socializzazione precoce dei bambini alla morte li aiuta a diminuire l'angoscia e la paura della morte”.

186). Se non fossimo intimamente legati agli altri, se il nostro “Sé” non fosse costituito e intrecciato con quello degli altri (come sostiene Lévinas), il lutto, il dolore, l’angoscia e il senso di spaesamento sarebbero impensabili e incomprensibili. Raramente ci si sofferma su questo punto che, da solo, costituisce una prova empirica di come ogni persona sia in sé e per sé tutto tranne che una monade autosufficiente.

Prima e durante il lutto vengono messi in pratica varie ritualizzazioni che hanno lo scopo di condurre a compimento il lutto stesso, ovvero la rimarginazione della ferita sociale e personale. Sono momenti che scandiscono la durata complessiva e allo stesso tempo ne costituiscono l’essenza. Maria Cristina Manca, elenca tre tipi di ritualizzazioni, rifacendosi alla classificazione di Van Gennep21:

a) di separazione o preliminari (lavaggio, preparazione della salma, trasporto della salma);

b) di margine o liminari (presenza del morto nella camera ardente o del feretro in casa, preghiere prima della purificazione e la purificazione);

c) di aggregazione o postliminari (preghiere dopo la purificazione, espressioni di condoglianze, il lutto vero e proprio, momenti di aggregazione come pranzi o cene, chiusura del lutto e feste commemorative) (Manca 2005: 46).

Antropologicamente le maggiori e più sostanziali differenze culturali si situano all’interno dei riti di margine o liminari e questo perché, come abbiamo visto, il margine ed il confine sono essi stessi le metafore con cui viene spiegata la morte. Il margine è lo spazio che divide i due mondi e la morte li mette in comunicazione. L’attraversamento del confine, ovvero il morire, è il passaggio da una condizione ad un’altra. E’ questo il nucleo teorico da cui possono prendere piede le varie liturgie perché il rituale funebre è in realtà un rito di iniziazione e il rituale di iniziazione si serve del simbolismo della concezione della morte- rinascita, come abbiamo visto. Il corpo del defunto è quindi l’asse centrale da cui prendono il via le varie differenziazioni, perché è lui ad essere, con l’orrore che provoca, lo scandalo, ma anche il mistero, un mistero che incombe su tutta la comunità e la trascende (Morandi in Martelli 2005: 126). Affrontando infatti la questione dei diversi modi di trattare il cadavere

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“Van Gennep è stato il primo ma non l’unico a utilizzare l’espressione riti «di passaggio». Dopo di lui: Turner (1976) che descrive la fase liminare non solo come una fase intermedia ma come categoria autonoma; Thomas (1976) – il quale ha proposto una successione di fasi leggermente differente: oblation, séparation, réintégration,

notiamo come la purificazione delle spoglie mortali (una specie di metal detector da passare prima dell’imbarco per il nuovo mondo) nelle diverse culture sia affidata a moltissime possibilità, secondo quella che Bachelard chiama “La legge delle quattro patrie della morte” e che corrisponde ai quattro elementi naturali: acqua (immersione), aria (esposizione), fuoco (cremazione) e terra (inumazione).

Nella figura 1 illustriamo una rivisitazione dello schema di Morin (Morin 1980: 152) dove sono elencate le possibilità per la gestione (e non) del cadavere da parte della comunità e le relative conseguenze:

(fig. 1) Rielaborazione personale dello schema di Morin (1980: 152)

La resurrezione del corpo è infine quella credenza, particolare nel suo genere, che vedrà il doppio ricongiungersi alle sue spoglie mortali un dì e per cui è importante conservarne un residuo da qualche parte, ovvero nella tomba che sta in un cimitero. Quest’ultimo poi diventa funzionale ai riti di aggregazione, superando la funzione di semplice stoccaggio delle spoglie, in quanto permette, con le varie visite e preghiere, di allontanarsi definitivamente ma gradualmente dal defunto, e istituirlo come antenato. I cimiteri inoltre sono le città dei morti all’interno del mondo profano e proprio perché rappresentano la morte, cioè il contatto con il mondo sacro, sono essi stessi luoghi sacri che suggeriscono l’assoluto e spingono alla Eliminazione della decomposizione Decomposizione naturale Fallimenti nella

decomposizione Imbalsa- Mazione, Mummi- ficazione Mummia Endocan- nibalismo Ossa Crema- zione (Fuoco) Ceneri Conservazione di un residuo indistruttibile per il culto

Torri del silenzio (Aria) Immer- rsione (Acqua) Sepol- tura (Terra) Morte ignobile, (niente funerale) Funerali mancati Fantasmi inconsolabili Vampiri (doppio- cadavere) Doppio - cadavere Morti ossessionati

meditazione. In essi infatti non sono permessi comportamenti ordinari (Gustafsson in Cavicchia Scalamonti 1984:178). Interessante notare inoltre come i cimiteri siano significativi anche per chi non crede nell’immortalità dell’anima e andare per esempio a passeggiare nel cimitero può essere considerata una forma di religiosità dell’uomo secolarizzato (ivi: 179). I cimiteri, sotto forma di giardini ben tenuti e silenziosi, così simili alla rappresentazione del mondo paradisiaco delle origini, dove regnano bellezza e pace assolute, suggeriscono la riflessione sulla vita, la comunione con il passato e gli uomini che ci hanno preceduto, ovvero proprio ciò che più manca all’uomo moderno, isolato e perso nel vortice della fretta.

Cerimonie funebri, lutto, cordoglio, senso della comunità, tombe e cimiteri sono quindi strumenti che gli uomini hanno a disposizione per lenire socialmente e psicologicamente l’impatto dirompente che ogni morte comporta su di loro. Tutti insieme possono esser considerati la struttura paradigmatica della morte (D’Agostino 1977: 9) che assolve la funzione regolatrice degli equilibri interni, o l’ideologia funeraria (Vernant 1989). Quest’ultimo termine ha due significati: da un lato è lo sdoppiamento della costituzione sociale dei vivi che si riflette nelle relazioni significative che si addensano attorno al fenomeno della morte, dall’altro è, molto più significativamente, il lavoro che “l’immaginario sociale fa per elaborare un’adeguata acculturazione della morte, per permetterne la gestione, per «civilizzarla», ed anche per trasformare nell’attribuzione di senso, quanto di incomprensibile, di mostruoso, di sommamente angoscioso si cela dietro l’essere mortali” (Cavicchia Scalamonti, Pecchinenda 1992: 15).