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La strategia marxista nel cuore della storia dell’uomo

La morte, sguardo sociologico

2.7 La strategia marxista nel cuore della storia dell’uomo

E’ noto come per Marx il dispiegarsi della storia nei secoli sia un continuo alternarsi di sfruttamenti di alcuni uomini su altri. Così era per lo schiavo nell’epoca greco-romana, come per il contadino medievale e allo stesso modo è “ora” per il proletario. La storia di ogni società si configura quindi per Marx come “storia di lotte di classi” (Marx, Engels 1998: 7). L’avvento del comunismo in questo senso segna la fine della preistoria e l’inizio della storia, in quanto sarà finalmente cosciente e avrà fine questo perverso e ingiusto modo di operare degli uomini sugli altri uomini. Ma a quale ingiustizia si riferisce esplicitamente Marx e verso quale emancipazione verte la sua idea di futuro? L’ingiustizia è fondamentalmente quella dell’esproprio della propria vita da parte di alcuni uomini su altri, un’appropriazione indebita inferta con la forza e in maniera indiretta nelle epoche passate e con delicatezza e parvenza di

libertà nell’epoca industriale moderna. Il contadino infatti, cacciato con la forza dalle terre comuni che abitava (Bills for Inclosures of Commons), che manteneva vive e che lo mantenevano in vita, diventa proletario, si ritrova cioè a poter disporre solo e soltanto, per sopravvivere, della sua forza-lavoro, del suo corpo, della sua vita, ma quest’ultima, svincolata dai beni di produzione, non è niente, non lo può sostentare, ed è per questo che egli si ritrova costretto ad accettare, a qualsiasi condizione, il lavoro impostogli dal capitalista, possessore dei beni di produzione. In altre parole è il capitalista che compra la sua vita come fosse una merce e dispone del tempo di cui essa è composta. In cambio il proletario riceverà dal capitalista il salario che però non corrisponde in toto al valore produttivo delle sue giornate di lavoro, ma solo al valore che gli permetterà di mantenerlo in vita per potersi poi, il giorno dopo, ripresentare in fabbrica (secondo l’ottica della ben nota distinzione tra valore d’uso e

valore di scambio). Questa eccedenza di lavoro, ovvero il pluslavoro, da lui prodotto ma

espropriato, andrà a ingrassare il capitale del capitalista, in un meccanismo perverso ed esponenziale di valorizzazione del valore del tutto svincolato dai reali bisogni della società. Il proletario, d’altra parte, non può ribellarsi legalmente in alcun modo a questa condizione perché rimane formalmente libero di non firmare il contratto o di licenziarsi, ma praticamente assoggettato perché oltre alla sua forza-lavoro da spendere con altri capitalisti egli non possiede niente ed è quindi costretto a lavorare per sempre e sempre alle stesse condizioni di miseria. La sua situazione dunque è praticamente identica a quella dello schiavo greco- romano, che veniva comprato e di cui il compratore disponeva liberamente per sempre. Per Marx sono cambiati solo gli oppressori e gli oppressi, il meccanismo è rimasto identico nei secoli.

“Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, sia questo proprietario kalòs kagathòs ateniese, teocrate etrusco, civis romanus, barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno, o capitalista” (Marx, 1984: 269).

Questa riflessione, porterà Baudrillard in “Lo scambio simbolico e la morte” (Baudrillard 1979) a parlare di Morte differita. Se infatti il capitalista compra la vita del proletario come fosse una merce alla stregua del proprietario ateniese che comprava uno schiavo al mercato e

allora egli è padrone non solo della sua vita ma anche della sua morte, così come è padrone di utilizzare fino alla fine una qualsiasi altra merce che abbia comprato. Il proletario non è più uomo ma oggetto, schiavo a cui è stata risparmiata la vita e della quale non dispone più. La sua dunque è una morte che non avviene subito, ma nel tempo, allo stesso modo di come accade per un maiale nato, cresciuto e pasciuto grazie ad un allevatore al solo scopo, un giorno, di essere messo a morte e mangiato. O meglio: di un asino destinato a morire di fatica.

Baudrillard non esita a rintracciare le origini di questo processo, ancora una volta, nel rapporto che l’uomo ha avuto, storicamente, con i servi. In principio essi erano coloro che, vinti in battaglia e fatti prigionieri, venivano risparmiati dalla morte, e con-servati (= servus) (Baudrillard 1979: 55). Da qui divennero successivamente schiavi, domestici suntuari, lavoratori servili e infine lavoratori salariati. Ciò che permane dunque come un’eredità tramandata nel tempo, al di là dei cambiamenti storici delle forme di schiavitù, è la loro effettiva condizione di morti-viventi. La loro vita dunque non è nient’altro che una sentenza di morte procrastinata di giorno in giorno, appunto una morte differita22, di cui il vincitore ha addirittura fatto dono al vinto23. La liberazione dalla schiavitù avverrà solo con la morte dello schiavo24.

Inoltre: il vincitore moderno, affinché il morto-vivente sconti il più possibile la propria morte risparmiata e differita, gli rende il salario, che è una forma mascherata ed edulcorata del vecchio vitto e alloggio concesso allo schiavo e che quindi è per Baudrillard la

monetizzazione della morte, l’equivalenza della propria morte. Nel salario quindi osserviamo

come fosse sotto i nostri occhi la nostra stessa vita ridotta ad equivalenza, cioè a denaro. Il tempo che passiamo lavorando, lo stesso tempo di cui è composta la nostra stessa vita, è denaro perché il nostro tempo, tradotto in forza-lavoro (e diventato quindi merce a tutti gli effetti) noi l’abbiamo venduto a qualcuno.

“La forza lavoro si fonda sulla morte. Bisogna che un uomo muoia per diventare forza- lavoro. E’ questa morte che egli monetizza nel salario” (ivi: 55).

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“Questa morte non è violenta o fisica, è la commutazione indifferente della vita e della morte, la neutralizzazione rispettiva della vita e della morte nella sopravvivenza, o la morte differita” (ibidem).

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Per Baudrillard il dono della vita che il vincitore fa al vinto non può essere ricambiato per intero finché il vinto è in vita, può essere ricambiato solo con il sacrificio violento, ovvero con una scelta consapevole e immediata da parte del vinto di riappropriarsi della propria vita nella morte. Il potere del vincitore infatti non deriva dal mettere a morte (cosa che sarebbe un onore), ma dal mantenere in vita. Questo dono non può essere ricambiato in alcun modo e dunque per recuperare definitivamente il dominio della propria vita bisogna mettersi volontariamente a morte (ivi: 56).

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Nel racconto Padrone e servo Tolstoj descrive l’atteggiamento differente che i due protagonisti del titolo hanno nei confronti della possibilità di morire in una tempesta di neve. Il padrone, per il quale la vita è piena di significato e valore, combatte per sopravvivere, mentre il servo, costretto a servire tutti i giorni e quindi a non vivere una vita libera, si abbandona alla fatalità degli eventi, quasi non ci fosse alcuna differenza tra il morire e il rimanere in vita a quelle condizioni.

Da queste considerazioni ne nascono necessariamente delle altre: non c’è, grazie al salario, scambio simbolico tra datore di lavoro e lavoratore, almeno secondo una prospettiva maussiana. Il salario che il datore di lavoro rende al lavoratore non è un vero e proprio scambio di doni, perché il dono è caratterizzato dal fatto di creare un rapporto asimmetrico, al di là delle equivalenze. Il dono crea una situazione di squilibrio momentaneo e di conseguenza la necessità di un contro-dono che rinsalderà il legame tra le parti (Mauss 1965). Il dono non ha funzione commerciale, ma sociale perché prima di esso non esisteva rapporto, mentre dopo che è stato fatto si. Il salario invece, come abbiamo visto, è uno mero scambio mercantile simmetrico che serve a pagare la morte risparmiata al salariato. Quest’ultimo sa, a volte in maniera inconsapevole o semplicemente intuendolo, che in esso è racchiuso questo rapporto di forze in cui egli è il dominato e il datore di lavoro il dominatore. Il salario è dunque, in quanto monetizzazione della propria morte risparmiata, anche la materializzazione della propria sudditanza, della propria non-vita. In esso c’è uno scambio simbolico, ma non tra pari che attraverso dei doni reciproci intraprendono un viaggio ognuno alla scoperta dell’altro; lo scambio simbolico insito nel pagamento del salario è invece pregno di potere e sottomissione. Questo è ben evidente nel termine tedesco Arbeitgeber che significa

imprenditore ma anche “datore di lavoro” e nel termine Arbeitnehmer che significa operaio

ma anche “prenditore di lavoro” (Baudrillard 1965: 57). Finché c’è qualcuno che dà e qualcuno che non può far altro che prendere il meccanismo simbolico che ne scaturisce sarà sempre squilibrato e a favore di chi dona. Il potere acquistato in tal guisa è un potere decisamente più grande di quello economico, anche se l’opinione comune molte volte non si accorge di questo fraintendimento (ibidem). Nel salario quindi si può scorgere la propria morte e la propria schiavitù.

Ma a questo punto accade una cosa singolare: grazie al salario il lavoratore può comprare a sua volta della merce, che non sarà però soltanto equiparabile ad oggetti e basta, nel loro valore d’uso. La merce che il lavoratore può comprare grazie al salario vedrà in essa trasferita tutto il rapporto sociale che ha permesso di comprarla, ovvero il rapporto di sudditanza psicologica che il prenditore di lavoro ha subìto da parte del datore di lavoro. Analizziamo queste ultime affermazioni: già Marx aveva intuito nel Capitale il carattere di “feticcio della merce” allorché sostiene che le merci “racchiudono in sé l’antagonismo sociale del mondo moderno. Per questa via, la merce viene a esercitare un dominio feticistico sugli uomini, vittime dell’illusione che essa sia semplicemente una «cosa» e non il prodotto del loro lavoro sociale” (Marx in Fusaro 2010: 264).

Il lavoratore che può comprare delle merci non si limita dunque, oggigiorno, ad intuire in esse questo condensamento feticistico dei rapporti sociali, egli le compra anche per riversare su di esse la propria voglia di riscatto sociale, generando consumismo.

“E il prenditore di salario si trova a riprodurre nel consumo, nell’uso degli oggetti, esattamente lo stesso rapporto simbolico di morte lenta che egli subisce nel lavoro. L’utente vive esattamente della stessa morte differita dell’oggetto (egli non lo sacrifica, lo “usa”, ne “usa” funzionalmente) di quella del lavoratore nel capitale” (Baudrillard 1965: 58).

La morte è sempre al centro dunque. Al centro del rapporto tra nuovi schiavi e nuovi padroni, come tra consumatori e oggetti di consumo.

Merito di Baudrillard è l’aver individuato nel mezzo dell’analisi marxiana del rapporto di sfruttamento tra proletario e capitalista (che poi altro non è che il modello esasperato su cui tutti i rapporti tra gli uomini nella preistoria si sono formati) il concetto di morte e le sue conseguenze sullo sviluppo della società, benché Marx stesso non ne abbia mai fatto esplicito riferimento. E a questo punto della riflessione si pone spontaneo un interrogativo: perché Marx non ha mai fatto esplicito riferimento alla morte? Uno dei motivi di questa omissione potrebbe essere che per Marx l’individualità andrebbe sacrificata a favore della comunità, in quanto è importante solo e soltanto la vita della società degli uomini, sorta di superorganismo che trascende i singoli. In questo contesto il problema della morte degli individui isolatamente presi non si porrebbe. Ma questa interpretazione del pensiero di Marx non trova riscontro in molte delle sue considerazioni. Marx infatti più che il pensatore dell’”uguaglianza” e della “comunità” sembrerebbe quello della “libertà” e dell’”individuo”, messaggero quest’ultimo di un individualismo etico “finalizzato al riscatto dell’individuo da ogni legame di dipendenza e asservimento” (Fusaro 2010: 296). Il motivo della dimenticanza della morte nei testi di Marx va ricercato altrove e probabilmente nella sua convinzione per cui i problemi non risolvibili praticamente (prassi) siano solo falsi e inutili problemi (Thomas 1976: 170), così come lo furono tutte le fantasticherie idealistiche e filosofiche prima di lui. Probabilmente è per questo che Pasolini in La Ricotta (Pasolini 1963) fa rispondere ad Orson Wells, alter ego di se stesso, interrogato su cosa ne pensi della morte: “Come marxista è un fatto che non prendo in

considerazione”. Eppure tale affermazione del marxismo di Pasolini sembra addirittura

contraddetta nell’ambito della stessa opera pasoliniana (o forse superata integrandola con la sua visione della vita come “cordone tra il sacro e il profano”, religiosa e allo stesso tempo atea), quando Stracci, sottoproletario costretto dalla miseria a recitare la parte del ladrone in

croce, morirà di stenti a causa di una indigestione di ricotta. A questo punto, sotto gli occhi degli astanti che non aspettano altro che la sua battuta (ovvero: “Quando sarai nel regno dei cieli, ricordati di me”) il regista si accorgerà della sua morte e reciterà la frase poi censurata: “Crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione”, a testimonianza del fatto che, proprio come sostiene Baudrillard, è solo nella morte che lo sfruttato può trovare la sua liberazione definitiva dall’asservimento. Stracci quindi sacrifica la propria vita per la propria definitiva liberazione, come Cristo morendo in croce ha sacrificato la propria vita per la liberazione dell’umanità, chiudendo la preistoria e annunciando una nuova era di salvezza: il regno dei cieli appunto.

Questo azzardato parallelismo tra comunismo e cristianesimo è in realtà tale solo apparentemente e come vedremo ci darà la possibilità di aprire il discorso a nuove e produttive riflessioni. Infatti per Marx l’avvento del comunismo è paragonato all’avvento del “regno della libertà”, ovvero di quell’unica forma di convivenza tra gli uomini per cui saranno superate tutte le contraddizioni e le aporie della società ingiusta capitalista e in cui gli uomini diventeranno finalmente attori consapevoli della loro storia (Fusaro 2010: 279). Il comunismo è perciò l’unica forma di convivenza che riuscirà a colmare il sostanziale scarto che sussiste in ogni individuo tra la condizione di Citroyen e la condizione di Bourgeois, ovvero tra quella condizione che fa di ogni uomo un cittadino formalmente libero e uguale di fronte agli altri e la sua condizione sociale reale in cui si contrappone egoisticamente agli altri uomini. Per Marx, attento studioso della Rivoluzione Francese, la politica proclama nei cieli astratti della ragione l’uguaglianza dei cittadini (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino) per poi sconfessarla ogni giorno sulla terra con i reali rapporti interindividuali.

“Soltanto quando l’uomo reale, individuale, compendia in sé il cittadino astratto, e come uomo individuale nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nei suoi rapporti individuali è diventato ente di genere (Gattungswesen), soltanto quando l’uomo ha riconosciuto e organizzato le sue «proprie forze» come forze sociali, e per ciò stesso non disgiunge più da sé la forza sociale nella figura della forza politica, soltanto allora l’emancipazione umana è realizzata” (Marx 2007: 157).

Ogni uomo che vive la modernità capitalista per Marx è fondamentalmente scisso in due personaggi contraddittori l’uno con l’altro, l’uomo ideale e quello concreto. Il regno della libertà futura è quindi il momento, messianicamente atteso, in cui questi due estremi si scioglieranno, la prassi avrà finalmente preso il sopravvento sulla teoria, o detto altrimenti: il

momento in cui la prassi si sarà finalmente ricongiunta con le sue aspirazioni fino ad oggi solo teoriche.

Ritorniamo dunque al tema dell’emancipazione da cui siamo partiti, ma da un altro punto di vista e arricchiti delle considerazioni appena fatte: l’emancipazione di cui parla Marx sembra adesso avere i connotati di un’ emancipazione totale dell’uomo, una vera e propria novità per la storia dell’umanità. Anche se Marx rimarrà sempre vago sui connotati specifici del suo “regno della libertà” e finirà per definirlo secondo la prospettiva della “teologia negativa” (ovvero in contrapposizione all’attuale modello capitalistico della società) gli elementi ci sono tutti per fare un accostamento tra religione e marxismo anche se è bene sottolineare da subito e con forza la differenza tra le idee di Marx (che più che ad un sistema chiuso assomigliano ad un «cantiere aperto» (Fusaro 2010: cap. 1.4)) e la dogmatizzazione religiosa avvenuta dopo la sua morte da Engels, Kautsky e Lenin (ivi: 37)25. D’altronde è stato lo stesso Engels a notare che la storia del cristianesimo delle origini presenta notevoli punti di contatto con quella del moderno movimento operaio (ibidem). Questo carattere trascendente e religioso del marxismo è perfettamente riassunto da Morin in “Cultura e

barbarie europee” allorché afferma che:

“In effetti c’è un messianesimo ebraico-cristiano laicizzato nel cuore della sua concezione. Il proletariato industriale diventa un messia, la rivoluzione un’apocalisse e la società senza classi la salvezza terrena. La maggior parte dei marxisti ha creduto di praticare la razionalità più totale, senza rendersi conto di praticare una religione della salvezza terrena” (Morin 2006: 49).

Una religione della salvezza terrena che altro non è che il debito che Marx ha nei confronti di Hegel (in quanto esponente della sinistra hegeliana), per il quale esiste un fine verso cui la storia tenderebbe (telos) e verso cui inevitabilmente e dialetticamente giungerà. Il Dio di Hegel, come per Marx, non è più extramondano, non è più abitatore di un altro mondo, lontano e irraggiungibile, ma è intramondano, immanente e installato all’interno della storia degli uomini26.

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“Come ogni movimento religioso, anche il marxismo (la cui «religiosità» e il cui dogmatismo culminarono con l’esperienza staliniana), per poter fare presa sulle masse, ha dovuto assumere la forma di una «grande narrazione» (grand récit) – per dirla con Jean-François Lyotard -, fideisticamente accettata e graniticamente compatta, non sottoponibile a dubbi e a critiche (atteggiamento incompatibile con quello che permea l’opera marxiana e che trova la sua più chiara formulazione nel «sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica» del Capitale)” (ibidem).

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In questo modo possiamo distinguere come idealismo platonico quell’idealismo che vede la presenza di due mondi separati qualitativamente e come idealismo hegeliano quell’idealismo che vede nella struttura stessa della storia e del reale il compiersi di un principio universale.