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La crisi delle strategie

La morte, sguardo sociologico

2.9 La crisi delle strategie

che alla società contemporanea occidentale è accaduto qualcosa nel suo rapporto con la morte. Rispetto al passato quindi l’uomo moderno sta vivendo un momento di forte alterazione della relazione che aveva instaurato precedentemente con la morte. In alcuni studi questo cambiamento è inteso come degenerazione. In Ariès per esempio esso assume la caratteristica di allontanamento da un passato ideale che stenta a ritornare. La «morte

addomesticata» degli antichi infatti è quel tipo di morte che nel suo naturale arrivare non

spaventa perché è inserita nel ciclo degli eventi, mentre oggi la morte è più selvaggia e terrorizzante e genera una vera e propria rottura. Dopo aver citato un passo da Solženitsyn in cui si sottolinea come in passato i vecchi accettassero serenamente la morte, Ariès scrive:

“Così si è morti per secoli o millenni […]. Il vecchio atteggiamento in cui la morte è al tempo stesso familiare, vicina e attenuata, indifferente, contrasta troppo con il nostro, in cui la morte fa paura al punto che non osiamo più pronunciarne il nome. Per questo chiamerò qui questa morte familiare la morte addomesticata. Non voglio dire che la morte, prima, sia stata selvaggia e che poi abbia cessato di esserlo. Voglio dire al contrario che oggi è divenuta selvaggia” (Ariès 2006: 25-26).

Immaginando un passato ideale in cui la morte era accettata e del tutto gestita con successo dalla società e dalla psiche umana, Ariès ci avverte del cambiamento in atto, ma a nostro avviso non coglie in pieno la consistenza del processo, anche perché nella sua analisi storica si riferisce a documenti, come romanzi romantici o poemi epici medievali, che non possono avere valenza scientifica in quanto rappresentano idealizzazioni dei modi di vivere degli antichi (Elias 1985: cap. 4). Il bersaglio viene centrato solo in parte: se infatti è vero che oggi la morte, rispetto al passato, è meno sistematizzata, impronunciabile e selvaggia, è anche vero che nei secoli precedenti non era vissuta con quella serenità di cui parla Ariès, ma a costo di un grande sforzo personale e comunitario. “Non è gratuitamente che la morte viene domata” (Thomas 1976: 367). Dunque la morte spaventava alla stessa maniera che adesso, ma gli strumenti a disposizione erano più efficaci ed espliciti. D’altronde già Görer (1963) nelle sue storiche analisi a riguardo aveva spiegato come la morte sia ormai diventata pornografica, ovvero socialmente inaccettabile e l’aveva accomunata al tabù del sesso dell’era vittoriana. Egli, spinto alla riflessione da vari e importanti lutti personali, si lamentò della difficoltà dell’uomo inglese del suo tempo, al contrario di quello del secolo precedente, a rimarginare le ferite inferte da una perdita personale, nonché a convivere con il morente in casa, da accudire e supportare, situazione tra l’altro già ravvisata e descritta in maniera perfetta dalle parole di Tolstoj in La morte di Ivan Il’ič.

“L’atto terribile, spaventoso della sua morte, egli lo vedeva, era ridotto, dalle persone che aveva intorno, a livello di spiacevole incidente, di indecenza perfino, come se si trattasse di una persona che entrando in un salotto emani cattivo odore” (Tolstoj 1999: 33).

Questo fenomeno, già presente nell’ottocento, col tempo si è sempre più consolidato. Qui siamo di fronte ad una visione che non fa necessariamente del cambiamento della società una degenerazione, come se gli uomini di oggi siano più freddi e cinici di quelli del passato, ma che comunque si interroga sull’incapacità attuale di comportarsi di fronte alla morte. Sulla stessa lunghezza d’onda sono anche altre interpretazioni. Elias per esempio (Elias 1985) analizzerà la questione ponendo l’accento solo sui cambiamenti della società, anche se questi cambiamenti sono preoccupanti. I mutamenti sociali in questione consistono nel crescente

individualismo e nella frammentazione e gli effetti che ne derivano sul rapporto dell’uomo

con la morte sono quelli di portarlo a vivere la morte, di se stessi e degli altri, con estrema solitudine. Infatti nelle aree dove è sempre più evidente “il crollo della collettivizzazione dei fenomeni sociali quale era profondamente avvertita e condivisa nell’arcaica società contadina e pastorale” (Canta, 2006) la morte è «rimossa» (Elias 1985: 26-27). L’uomo che muore vive la morte in questa maniera non solo perché non c’e senso della comunità a fronteggiare e lenire il dolore (processo di individualizzazione) (ivi: cap. 14); non solo perché subisce l’incapacità di rapportarsi a se stesso, anche solo formalmente, da parte di chi gli dovrebbe stare accanto (processo di informalizzazione) (ivi: cap. 7); non solo perché non avendo avuto familiarità da piccolo con queste situazioni ora gli sembrano assurde e inaspettate (processo di

defamiliarizzazione dalla morte) (ivi: cap. 5); non solo perché spesso muore in ospedale in

condizioni asettiche e nascoste (processo di igienizzazione) (ivi: 104-106; Glaser, Strauss 1965), ma anche perché egli stesso, avendo in passato sperimentato con altri morenti il peso di queste situazioni su di sé, non vuole morire facendole provare a sua volta agli altri.

“In una situazione che enfatizza la dimensione individuale (dell’individualizzazione, come la chiama Elias), al di là del valore della soggettività che è soprattutto capacità di relazione con l’altro, dove aumentano le situazioni di solitudine e di anomia, anche la scelta del modo di morire è in solitudine, non essere visto dagli altri, soprattutto per paura di non essere rispettato” (De Vita 2007: 275).

E’ l’incapacità di vivere insieme la morte che, esponenzialmente, genera situazioni di solitudine sempre maggiore, eliminando la stessa possibilità che le cose prendano strade nuove (processo di desocializzazione della morte (Thomas 1976).

L’uomo rimane così solo di fronte alla morte, il che significa, in base alle analisi del paragrafo 6 di questo capitolo, che rimane d’un tratto sprovvisto delle strategie messe in atto dalla comunità per fronteggiare l’entropia causata dall’avvento della morte. Queste considerazioni sono in accordo con la prospettiva di Marina Sozzi, la quale per descrivere la situazione della morte nella nostra società si serve della categoria di “densità culturale” di Remotti e conia la metafora del “tessuto liso”, ovvero di una situazione in cui un argomento culturale, precedentemente ben affrontato e sistematizzato, subisce una destrutturalizzazione graduale (Sozzi 2009). Ciò che prima era organico ora diventa una zona opaca, poco chiara, poco densa appunto. In quelle vicinanze gli uomini si comportano in maniera incerta perché non hanno gli strumenti collettivi per interpretare e gestire al meglio il fenomeno.

Ma come è potuto accadere questo cambiamento? Come si è potuto logorare il tessuto? Per Elias la rimozione della morte è stata possibile in primis perché la durata della vita, nelle società evolute occidentali, si è allungata notevolmente e di conseguenza anche il nostro fare i conti con la morte si è rarefatto.

In secondo luogo la morte non ci spaventa più come prima (e quindi non ci pensiamo più come prima) perché abbiamo l’ingenua consapevolezza che la medicina e la scienza ci aiuteranno in questo passaggio che è del tutto naturale (da qui il concetto di morte naturale29) e che, prima o poi, ma più poi che prima, arriverà. Bauman chiama questo meccanismo «decostruzione della morte» (Bauman 1995: cap. IV). La morte non è più intesa come intrinseca alla vita, bensì spezzettata in varie e infinite cause di morte, apparentemente fronteggiabili e curabili. L’uomo moderno quindi ne è inconsciamente angosciato30, attimo dopo attimo, perché sua (e dei medici che curano, i “nuovi sacerdoti”) è la responsabilità di allontanarla il più possibile. In questo modo “in pratica, la morte è stata tramutata da boia a guardia carceraria” (ivi: 185).

Il terzo fattore determinante nella vaga rappresentazione occidentale della morte è l’elevato grado di pacificazione interna delle nostre società. Almeno nel contesto societario occidentale

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“Alla definizione biologica di morte e alla volontà logica della ragione corrisponde una forma ideale e standard di morte che è la morte «naturale». E’ una morte normale perché arriva «al termine della vita». Il suo stesso concetto nasce dalla possibilità di far arretrare i limiti della vita: vivere diventa un processo di accumulazione, e la scienza e la tecnica entrano in gioco in questa strategia quantitativa” (Baudrillard 1979: 179). In tal modo sembra che la scienza e la tecnica debbano garantire ad ogni uomo questo tipo di morte e che tutti gli altri siano “innaturali”, “anormali” e specialmente “ingiusti”.

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“Se la morte arriva alla fine della vita, la difesa della salute la riempie tutta. Il prezzo per aver scambiato l’immortalità con la salute è una vita vissuta nell’ombra della morte; per differire la morte occorre dedicare la vita a combatterla” (Bauman 1995: 187).

infatti non sono più all’ordine del giorno la guerra, la violenza e la malattia, con la conseguenza che la maggior parte delle persone immagina che morirà tranquilla nel proprio letto di casa.

In quarto luogo c’è una motivazione filosofica: se l’uomo moderno si concepisce come monade (Homo clausus) e cerca di darsi un senso al di là delle relazioni con il mondo e con gli altri, anche il modo di morire che ne scaturirà sarà dello stesso tipo, ovvero isolato e autoreferenziale. La morte è insensata perché presa isolatamente non può fondarsi, così come l’uomo in sé non esiste e finisce con l’implodere in un vano solipsismo (cfr. cap. 1.4).

“La chiusura solipsistica delle persone, favorita da numerosi processi socio-culturali caratteristici della «post»-modernità, disarticola le relazioni «forti» e quindi porta pure alla de-costruzione della socializzazione (Martelli, a cura di, 2003), e pure della socializzazione religiosa. Ciò crea problemi nella trasmissione dei valori sia civili sia religiosi, ed è questa la dinamica più preoccupante, che può rallentare o, al limite, interrompere l’andirivieni plurisecolare in atto tra la città dei vivi e quella dei morti, con esiti pericolosi soprattutto per l’identità e la coesione sociale della prima” (Martelli 2005: 165).

Sembra quindi esserci un parallelismo tra vita e morte, tra modo di vivere e modo di morire31. Una vita individualizzata genera una morte della stessa natura. “La solitudine della vita sfocia nella solitudine della morte (essendone essa stessa il risultato)” (Bauman 2005: 64).

Dunque se la comunità è debole l’individuo sente maggiormente il peso dell’irruzione della morte perché gli viene meno la strategia per fronteggiarla messa in opera dalla collettività. Non riesce a lenire correttamente il dolore e la relativa destabilizzazione risulta amplificata. Se poi ci troviamo in una situazione di scetticismo circa il futuro dei morti nell’aldilà, come può verificarsi in una società molto secolarizzata, l’effetto destabilizzante è addirittura moltiplicato per due, in quanto vengono meno tutte e due le funzioni proprie delle cerimonie funebri che abbiamo analizzato, ovvero accompagnare il defunto nel viaggio verso il regno dei morti e rimarginare la ferita sociale apertasi con la sua scomparsa. Da un lato infatti non è più possibile capire il perché di determinati gesti, parole, rituali; dall’altro il senso di imbarazzo di fronte agli altri, il non saper che dire, come comportarsi in simili

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Qui Elias si serve del racconto di Tolstoj (da noi già analizzato per altri motivi) per descrivere questo nodo cruciale della sua analisi. Il modo di vivere del padrone è attivo e pieno di speranza e si trasmette al suo modo di

circostanze, crea disagio e senso di alienazione collettiva. Il momento di aggregazione, se mal gestito, rischia di trasformarsi nel suo opposto ed è allora che il funerale, da momento di unione del gruppo qual era in principio, diventa una cerimonia vuota e macchinosa, spettacolo di marionette ormai desueto, vestigia di un mondo antico ormai morto, dove coloro che soffrono veramente per la perdita del caro provano senso di repulsione verso le etichette retoriche e mal recitate del caso, mentre coloro che partecipano al cordoglio si sentono impacciati e incapaci di stare accanto a chi soffre.

Il processo dunque sembra essere questo, in breve: la morte si allontana dalla vita quotidiana e comporta la diminuzione del senso di familiarità che noi abbiamo con essa. Ma dal momento che è proprio la morte con il suo dilemma a spingerci sulla strada di un senso più grande da dare alla vita (cap.1.2 e cap. 2.4 e 2.5) la nostra mancanza di familiarità con la morte si trasforma in una mancanza di familiarità con un senso più grande della vita, che ora è ridotto a mero consumo, edonismo ed egoismo. Anche qui l’esponenzialità del processo è evidente.

“Quest’uomo moderno non teme più la morte come l’uomo antico; così come la sua frenesia di lavoro e di profitto lo trascina fuori da ogni contemplazione di Dio e del mondo, così questa stessa insensibilizza in modo tutto particolare alla idea della morte. L’immersione nel turbine degli affari in vista dello stesso affaccendamento, ecco […] il vero rimedio, assai dubbio, grazie al quale il tipo moderno di uomo rimuove l’idea chiara ed evidente della morte e fa dell’illusione di una continuazione indefinita della vita la sua disposizione esistenziale immediata” (Scheler in Cavicchia Scalamonti 1984: 76-77).

L’uomo è solo di fronte alla morte perché la morte lo mette finalmente allo specchio ed egli si accorge proprio in quel momento di non possedere nient’altro se non se stesso. Quando la morte bussa alla porta e presenta il conto ecco che o ci coglie impreparati e spauriti come bambini oppure ci costringe a trovare sbrigativamente un senso a tutto, come nel film “Vivere” di Kurosawa (1952), in cui un funzionario statale che aveva vissuto tutta la vita lavorando in modo meschino scopre improvvisamente di avere pochi giorni di vita e cerca, almeno alla fine, le varie possibilità per darsi un senso32.

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Dopo aver provato a vivere la vita fino in fondo con giochi d’azzardo, donne e quant’altro e aver capito che queste cose non lo riempivano di senso, deciderà di combattere, contro ogni burocrazia e impedimento politico, per la realizzazione di un parco giochi per bambini, nel bel mezzo della crescente metropoli. Un gesto piccolo e difficile, ma pieno di senso e speranza nel futuro.

“La morte era una potenza che dava forma e direzione alla […] vita; un principio di organizzazione e di costruzione dell’esistenza. Mentre l’uomo moderno vive – letteralmente - «giorno per giorno», fino al momento in cui, cosa curiosa, di colpo egli non possiede più alcun giorno” (ivi: 78).

Ma il senso trascendente che può dare forza e organizzazione alla vita, nella nostra società occidentale, è ostacolato da un processo interno e non dalla mancanza di volontà degli individui. E’ qualcosa che costituisce la stessa struttura culturale dell’occidente, la sua storia fino ad oggi. Ciò che ostacola questo processo costruttivo è infatti la forte disillusione nei confronti del potere salvifico delle religioni e il fenomeno della secolarizzazione (il disincanto weberiano), intimamente connesso al potere, al ruolo e all’attenzione data all’individuo nella nostra storia. La morte di Dio, lo scetticismo, l’ateismo, il nichilismo, il solipsismo e in generale la risoluzione del mondo trascendente a quello immanente, comportano la difficoltà per l’uomo moderno occidentale a credere nell’immortalità della propria individualità. Viene così a cadere la strategia del doppio e della salvezza personale analizzata nel paragrafo 5 di questo capitolo, trascinandosi appresso la credenza in un regno a cui approdare dopo la morte, un regno sacro proprio perché altro da quello della quotidianità. Da ciò ne segue che il mondo si de-sacralizza e tutto si fa profano. Non c’è più differenza e tutto è indifferente. Inoltre l’idea di una permanenza dopo la morte del proprio “Io”, così interconnesso con la materialità del cervello e del corpo, appare una favola destinata a dissolversi come la stessa materialità di cui siamo costituiti.

Ma passiamo ad una altra forte disillusione per l’occidente: quella politico-immanente. La fine del comunismo storico infatti ha comportato un forte disincanto circa il potere salvifico dalla morte che esso incarnava e che abbiamo analizzato nel paragrafo 7, in un procedimento del tutto analogo all’indebolimento del potere salvifico delle altre religioni. In un certo senso infatti la speranza dell’avvento della buona novella comunista e del raggiungimento del regno della libertà distraeva dalla morte fisiologica della propria individualità e si focalizzava su quella intesa come alienazione di sé, aiutando i militanti a vivere come dei fanatici religiosi o a morire come dei martiri. Inoltre c’è da considerare che altre utopie politiche di siffatto spessore teorico, a tutt’oggi, sembrano non esserci più. La venerazione dello Stato e della Patria, per esempio, che affonda le sue radici nell’età romantica e trova il suo acme nel primo novecento, può essere annoverata tra le credenze di tipo religioso.

“L’idea ottocentesca di «religione civile», tornata in auge negli ultimi anni, allude a questa pretesa delle ideologie nazionali di spingere i cittadini al culto di un complesso di valori che hanno al centro il destino della patria.

L’invenzione della nazione, con i suoi corollari di eguaglianza e fratellanza fra i membri (si noti di nuovo l’impiego di termini tipici del linguaggio religioso), riporta a un livello più ampio l’idea di demarcazione tra «noi», internamente omogenei perché unificati dal sentimento nazionale e dalle istituzioni statuali, e «gli altri», i diversi, perché non membri della nostra compagine nazionale” (Ambrosini 2010: 28).

I mezzi a disposizione per la diffusione di questa «religione civile» sono molteplici, L’educazione pubblica, i rituali civili (bandiera, inno nazionale, altare della patria, funerali di Stato), il culto degli eroi e dei morti per la causa, le ricorrenze solenni della storia nazionale, le squadre nazionali sportive, la coscrizione obbligatoria etc. etc. (ivi: 27). Ciononostante anche questa credenza, per quanto alimentata e instillata dai mass media, dalla propaganda e da élites politiche (vedi per esempio la costruzione dell’identità Padana in Cotesta 2009: cap. 22), è facilmente criticabile attraverso le riflessioni sulla “crisi narrativa dello Stato-nazione” (Pepe 2009).

Ma la fine di queste speranze immanenti ci porta solo alla fine della lista delle credenze decedute. Infatti in questa prospettiva di individualizzazione e frammentarietà è difficilissimo all’uomo moderno qualsiasi tipo di partecipazione (così come l’abbiamo intesa nel paragrafo 6) e quindi rischiare di morire con coscienza e coraggio per qualche causa, nonché pensare alla morte con coraggio. In questa prospettiva l’uomo trova sbarrate tutte le strategie tranne, forse, quella della salvezza cosmica da noi analizzata nel paragrafo 5, il che spiega la moda tutta occidentale e contemporanea di professarsi appartenenti a religioni asiatiche o comunque a concezioni religiose che anche se tradizionali hanno subìto un forte rimpasto de- secolarizzante. In questi contesti la morte è “naturalizzata” (Morandi in Martelli 2005) ovvero interpretata non come rottura definitiva, ma come momento necessario nel ciclo ininterrotto di morte e rinascita. D’altronde fu già lo stesso Nietzsche a dire che probabilmente all’occidente sarebbe stato necessario un buddismo europeo prima della vera consapevolezza della fine di ogni possibile illusione33. Ma chi non riesce a credere nella dissoluzione del proprio “Io” come fonte di ogni turbamento non riesce nemmeno a trovare beneficio nell’idea di morte come annullamento pacifico di sé e si ritrova di fronte ad un problema assurdo, la morte

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Anche Bauman analizza questo processo e ne dà un’analoga interpretazione: “Il desiderio di trascendere la mortalità del soggetto ha condotto, una volta spinto al suo limite filosofico, alla distruzione («dissoluzione») del soggetto stesso. L’immortalità non è stata garantita, ma non conta molto ora, in quanto la vita stessa si è rivelata nient’altro che un’illusione o una finzione. Dopo secoli di tormenti moderni, dopo la bancarotta delle speranze moderne, siamo invitati a rilassarci nel nirvana della postmodernità” (Bauman 1995: 101).

appunto, senza possibili sbocchi. Rimane solo il senso di impotenza di fronte alla catastrofe imminente. L’unica strategia possibile è quella di allontanarsi il più velocemente possibile da questa assurdità e sprofondarla nell’oblio (cap. 2.3), il che equivale alla rimozione della morte di cui parla Elias e Scheler o alla negazione analizzata da Acquaviva:

“[…] quando l’angoscia di morte cresce a causa delle crisi delle religioni, forse diventa difficile (se non impossibile) sublimarla, e quindi non rimane che negarla (Acquaviva 1991: 131).

L’occidente sembra quindi braccato dalla morte come da uno spettro silenzioso che sappiamo esserci, ma che non vediamo mai veramente nel suo orribile e angosciante volto, se non quando è venuto il momento di affrontarlo sul serio. In questo senso la morte, come Nera Signora (Di Nola 2006), non ha mai fatto così paura, perché mai come adesso siamo stati così sprovvisti di strumenti per fronteggiarla.

Forse una speranza può venirci da chi, abitatore di altri luoghi e figlio di una diversa storia, ha intatti i suoi strumenti sociali e culturali da condividere con noi in questa partita a scacchi.