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Migranti e senso della comunità

Cap III Il migrante

3.4 Migranti e senso della comunità

comunità d’origine, ovvero dalla famiglia e dal mondo di relazioni, sociali e culturali nel

quale ha vissuto la propria infanzia. Per noi quindi il migrante non sarà solo l’africano o il cinese, ma anche il tedesco o lo statunitense.39 Questa distanza quindi non è indefinita e vaga, ma ha una soglia ben precisa, ovvero il territorio nazionale italiano. Altrimenti la definizione includerebbe anche alcuni italiani che hanno compiuto delle migrazioni interne al territorio nazionale, altrettanto disomogeneo di quanto potrebbe risultare rispetto ad uno stato estero. Di fatto però non si esclude a priori che i risultati di questa ricerca possano andar bene nel primo caso come per il secondo. Tuttavia impedimenti di carattere pratico mi impongono di tagliare fuori, come dicevamo al principio, alcuni aspetti del reale e di privilegiarne degli altri, facendo sembrare queste scelte contraddittorie, ma solo apparentemente. D’altronde, al di là della mancanza di forme stabili ed ontologicamente valide, per poter parlare di qualcosa, è necessario tracciare dei confini, anche solo per poterli ridefinire o addirittura reinventare completamente in seguito. Su questo, ovvero sul carattere apparentemente contraddittorio, dialogico del pensiero scientifico, ci sentiamo di sottoscrivere la seguente affermazione di Morin:

“Il carattere complesso dell’attività pensante [...] associa incessantemente in sé, in modo complementare, processi virtualmente antagonistici che tenderebbero ad escludersi l’uno con l’altro. Così il pensiero deve stabilire frontiere e traversarle, aprire concetti e chiuderli, andare dal tutto alle parti e dalle parti al tutto, dubitare e credere, esso deve rifiutare e combattere la contraddizione ma, nello stesso tempo, deve farsene carico e nutrimento” (Morin 1989: 205).

3.4 Migranti e senso della comunità

La condizione del soggetto migrante, così come la stiamo configurando, ovvero di colui che è lontano dalla propria comunità d’origine, è una condizione che aumenta il senso di

39

“Noi definiamo come «immigrato» solo una parte degli stranieri che risiedono stabilmente e lavorano nel nostro paese. Ne sono esentati non solo i cittadini francesi o tedeschi, ma anche giapponesi e coreani, perfino quando rientrano nella definizione convenzionale di immigrato adottata dall’Onu: «una persona che si è spostata in un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno» (Kofman et al. 2000). Lo stesso vale per il termine extracomunitari, un concetto giuridico, «non appartenenti all’Unione Europea», diventato invece sinonimo di «immigrati», con conseguenze paradossali: non si applica agli americani, ma molti continuano a usarlo per i rumeni. Immigrati (ed extracomunitari) sono dunque ai nostri

instabilità personale, visto che alla comunità stessa, in molti momenti della vita dell’individuo, è delegato il compito di sorreggere ed aiutare quest’ultimo a ristabilire l’equilibrio quotidiano indispensabile per il normale proseguimento della vita sociale. Ma l’essere lontani dalla comunità di origine non significa tout court essere privi di una comunità nel paese che ci ospita, anzi il più delle volte lo straniero sceglierà determinati contesti nazionali proprio in base a collegamenti che nel tempo si sono andati formando. Le persone infatti non emigrano a caso e non scelgono una destinazione nemmeno in base a considerazioni di tipo strettamente economico-razionale, come è sostenuto dalla teoria neoclassica dell’economia. Il più delle volte si lasciano guidare dalla cosiddetta catena

migratoria, ovvero dalle esperienze di altri migranti che li hanno preceduti. A lungo andare

questa catena migratoria, grazie ad un processo che è allo stesso tempo di creazione della rete e di dipendenza della rete (Zanfrini 2007), fortifica dei percorsi privilegiati tra le nazioni, che vengono chiamati network. Questi network sono dei veri e propri ponti immaginari tra le nazioni, che possono avere valenza personale, storica, culturale e che di fatto non fanno giungere il migrante in terra straniera con la consapevolezza di essere un totale forestiero.

“I network si fondano sulla parentela, l’amicizia, la comune origine, la condivisione di una cultura o di una relazione; tali network connettono i migranti con altri migranti che li hanno preceduti, o con migranti nelle aree di origine e di destinazione” (ivi: 100).

Siamo qui di fronte a quello che potrebbe essere considerato un apparente ribaltamento della questione: il migrante, proprio colui che più sembra esposto alle difficoltà del vivere lontano dal senso di una comunità protettrice, è invece colui che per sua stessa natura si preoccupa di iniziare il viaggio lì dove sa per certo che potrà contare sull’apporto di amicizie, contatti e in generale, di un consistente capitale sociale.

“In particolare l’appartenenza ad un network consente al migrante potenziale di accedere a due fondamentali tipi di risorse: le risorse cognitive – per esempio le informazioni sulle opportunità disponibili, le conoscenze e i contatti, ecc. – e le risorse normative, che riguardano la possibilità d’emulare i modelli di comportamento adeguati alle varie situazioni «nuove» che il migrante si trova a dover affrontare” (ibidem).

Da questi presupposti si arriva facilmente a sostenere che se il migrante che si è avvalso dei network è già dotato, di base, di un capitale sociale a cui fare riferimento, ed arriva in un

posto dove il resto della popolazione, a causa di processi storici che abbiamo già analizzato40, è invece fortemente individualizzata e in cerca di un senso ormai perduto della comunità, egli stesso si troverà su questo punto più avanti rispetto al resto della popolazione.

“A Portes e J. Sensenbrenner sostengono che gli immigrati sperimentano un «elevato senso di comunità» e che è proprio la loro condizione di stranieri a spiegare l’emergenza di tipi specifici di capitale sociale. E’ il fatto di condividere una determinata storia migratoria, di parlare una lingua diversa da quella dominante nella società ospite, di avere specifiche pratiche e credenze religiose, di essere insomma un gruppo distinto dal resto della società, o comunque percepito come tale, a stimolare una forma di solidarietà interna al gruppo” (ivi: 155).

Non siamo di fronte a comunità che si mantengono intatte tra il prima e il dopo dell’atto migratorio, cioè non stiamo parlando di un semplice spostamento di comunità da una nazione ad un’altra, come potrebbe essere stato per alcune modalità migratorie del passato e le conclusioni a cui arriva la Zanfrini ce lo dimostrano:

“A riprova della natura situazionale e dinamica dell’etnicità, le identità che definiscono i vari gruppi e generano solidarietà reciproca non sono, dunque, necessariamente quelle «originarie», ma spesso si formano proprio in emigrazione a fronte delle difficoltà incontrate” (ibidem).

L’elevato senso di appartenenza ad una comunità non è quindi dato da una comune origine, ma da una comune condizione di difficoltà che unisce e genera partecipazione emotiva e sociale. La globalizzazione dimostra in questo contesto la sua natura contraddittoria e difficile da definire in un sol colpo: da un lato favorisce “un nuovo ecumene mondiale, l’omologazione e la standardizzazione, dall’altro rivitalizza le identità comunitarie, etniche, culturali e religiose” (Colombo 2008: 25), per quanto riscoperte o meglio reinventate. La nostra identità, nel mondo globale, è sempre meno legata a caratteri ascritti e definiti una volta per tutte, sempre meno legata necessariamente ad uno specifico luogo e contesto. I migranti, su questo punto, proprio perché trasversali e bipolari, sono avvantaggiati rispetto ai cosiddetti cittadini nazionali.

A tal riguardo ci sono due fatti di cronaca che fanno perfettamente al caso nostro. Il primo è la morte di Miriam Makeba, anche chiamata Mamma Africa, cantante di successo

sudafricana, avvenuta a Castel Volturno il 9 novembre 2008. Miriam Makeba aveva accettato di cantare ad un concerto anticamorra dedicato a Roberto Saviano, ma subito dopo la

performance e in seguito ad un malore avuto sul palco, è deceduta in ospedale. Il commento

di Roberto Saviano, che riflette sul significato del morire lontano da casa, centra appieno la questione:

“Se c’è un conforto nella sua tragedia è che si può dire che non è morta lontano. Ma è morta vicino, vicina alla sua gente, tra gli africani della diaspora arrivati qui a migliaia e che hanno fatto proprio questi luoghi, lavorandoci, vivendoci, dormendo insieme, sopravvivendo nelle case abbandonate del Villaggio Coppola, costruendoci dentro una loro realtà che viene chiamata Soweto d’Italia. E’ morta mentre cercava di abbattere un’altra township col mero suono potente della sua voce. Miriam Makeba è morta in Africa. Non l’Africa geografica ma quella trasportata qui dalla sua gente, che si è mescolata a questa terra a cui pochi mesi fa ha insegnato la rabbia della dignità. E spero pure la rabbia della fratellanza” (Saviano 2009: 33).

Ma perché Saviano conclude scrivendo di «rabbia della dignità» e «rabbia della fratellanza»? Per capirlo dobbiamo fare riferimento al secondo fatto di cronaca a cui accennavamo e che ci farà comprendere come una comunità di migranti possa arrivare ad indignarsi e ad esprimere tale indignazione con voce più forte ed unita di quel che gli stessi italiani siano mai riusciti a fare. Ci riferiamo alla strage di immigrati africani ad opera della Camorra a Castel Volturno, il 18 settembre 2008. “Il massacro degli immigrati, attuato con modalità inedite, causò il giorno successivo una sommossa della comunità immigrata contro la criminalità organizzata e contro le autorità, chiedendo che gli assassini venissero assicurati alla giustizia, un episodio unico nell’intera storia d’Italia”41. Ma è l’interpretazione di Saviano esposta nella trasmissione televisiva “Dall’inferno alla bellezza” a darci il giusto senso della portata sociologica dell’avvenimento:

“Negli ultimi venti anni in Italia ci sono state due vere manifestazioni, io direi rivolte, contro le organizzazioni criminali: una in Campania contro la Camorra casalese, una in Calabria, a Rosarno, contro l’Andrangheta. Sia in Campania che in Calabria le manifestazioni sono state degli africani. Arrivano in Italia per lavorare e arrivano a costo della vita. A chi, come la Camorra, prende e decide di togliergliela, questo non lo perdonano. I cadaveri che loro hanno visto per terra non hanno innescato come nella

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comunità italiana… «Vabbè ma questo a me non mi interessa… io non ho denunciato, io non vivo lì… che c’entra? Si uccidono tra di loro…». No. Quei cadaveri hanno significato per la comunità africana: «I prossimi siamo noi». Quei cadaveri la comunità africana li ha sentiti propri, ma non solo così per solidarietà verso dei giovani ammazzati di cui uno pare essere stato l’obbiettivo, il resto sono stati falciati dall’AK 47… sono stati ammazzati così, perché si trovavano lì… No si sono proprio identificati, hanno visto nel loro viso il loro viso e quindi manifestano e quindi rivolta. E quindi la Camorra indietreggia, sparisce per un po’. E soprattutto loro danno un messaggio chiaro: «Non osate». Non osate toccarci la vita, non osate toccarci quello che abbiamo conquistato, quello che stiamo conquistando»”42.

E’ l’elevato senso della comunità a far reagire di colpo gli individui come fossero parte di un organismo più grande che, soffrendo delle ferite inferte sul proprio corpo, si ribella all’unisono contro il carnefice.