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I migranti, ovvero il volto della morte rimossa

Il migrante e la morte

4.8 I migranti, ovvero il volto della morte rimossa

Proviamo per un po’ a seguire la logica di una suggestione: nel secondo capitolo, allorquando abbiamo analizzato la prospettiva di Baudrillard in “Lo scambio simbolico e la

morte” (Baudrillard 1979) abbiamo analizzato il concetto di morte differita per quel che

riguarda gli sfruttati dal potere capitalistico, che nella visione marxista sono i vecchi braccianti, spinti o espulsi con la forza dalle campagne all’inizio del periodo di industrializzazione e che si ritrovano, senza mezzi propri di sussistenza, a popolare le nuove realtà urbane. In questo contesto gli spostamenti degli uomini sono una migrazione intra- nazionale che vanno da una periferia ad un centro. Ma centro e periferia sono anche i termini che ricorrono nell’analisi del “sistema mondiale dell’economia” di Wallerstein e il cambiamento sociale prodotto dal capitalismo moderno è proprio l’oggetto della sua analisi della globalizzazione (Cotesta 2009: 13-24), così come l’oggetto dell’analisi marxiana era il cambiamento sociale verificatosi con l’avvento del primo capitalismo in Inghilterra. Grazie ad un simile processo di espropriazione delle terre (che nel primo caso è attuato con il colonialismo e nel secondo tramite le leggi inglesi sulle recinzioni) e ad un simile meccanismo di drastica riduzione delle possibilità di vita (che sia nel primo che nel secondo caso deriva dalle disperazione e dalla povertà), ecco che è possibile tracciare un’analogia tra

la morte differita del proletario che migra in città e la morte differita del migrante che migra dai paesi periferici del sistema mondo a quelli del suo nucleo centrale. E così come il capitalismo delle origini aveva bisogno di manodopera che richiamava in città per il suo pieno sviluppo, così il nuovo capitalismo della globalizzazione ha bisogno di manodopera dei migranti, sia nelle zone periferiche, semiperiferiche che centrali. Quindi le migrazioni internazionali odierne, che si verificano dai paesi poveri, sottosviluppati e sfruttati non sarebbero altro che il riversarsi sulla scena dei paesi ricchi, sviluppati e sfruttatori delle popolazioni che non sanno come mantenersi in vita perché non hanno le infrastrutture e i mezzi di sussistenza necessari o perché cercano una vita migliore. Insomma:

“Le attuali migrazioni di lavoratori e di rifugiati rappresentano il logico completamento degli originari insediamenti e spedizioni coloniali che incorporano nell’economia mondiale capitalistica ampie sezioni del pianeta in una posizione subordinata (Portes 2000: 163).

E infatti:

“E’ così ampliata la visione di K. Marx che, occupandosi dell’esodo rurale che accompagna l’industrializzazione e l’urbanizzazione, parlava d’emigrazione forzata, sottolineandone il carattere espulsivo: è la logica stessa dello sviluppo capitalistico a produrre impoverimento e disoccupazione aumentando l’esercito industriale di riserva” (Zanfrini 2007: 97).

Se il proletario era uno schiavo a cui era stato tolto tutto tranne che la vita, anche il migrante, secondo quest’ottica, lo è perché lo sfruttamento del pianeta è appropriazione indebita delle risorse dei paesi e del tempo delle popolazioni sfruttate, quindi della loro stessa vita. Riprendendo qui la visione pasoliniana della morte e del sacrificio (che abbiamo già analizzato precedentemente: cap. 2.7) potremmo avanzare un dissacrante accostamento: così come nel mediometraggio “La ricotta” l’incarnazione reale e contemporanea del Cristo ha le sembianze del sottoproletario Stracci, sacrificato al vuoto borghese, così oggi il nuovo Cristo potrebbe essere identificato nel lavoratore straniero, emarginato e subalterno, che porta la croce (Fig. 4 e Fig. 5). Il migrante che viene in Italia dall’Africa e cerca di racimolare disperatamente del denaro raccogliendo pomodori è un già-morto che si muove come un fantasma per i campi e le baracche. Il migrante è un morto-vivente, uno zombie che si sposta per le nostre strade e che ci ricorda continuamente e in maniera “perturbante” da dove viene

tutto il benessere di cui disponiamo. E allora se nelle

società contemporanee occidentali la morte è cacciata

dalle scene e allo stesso tempo (e proprio per questo) presente in ogni cosa (Bauman 1995), anche il

migrante è “Richiesto e respinto” (Ambrosini 2010) e l’immagine del migrante africano che cammina nelle nostre città e nelle campagne sta lì a ricordarci l’inevitabile presenza della morte, la fa riemergere alla superficie della coscienza, atterrendoci con angoscia. Forse è per questo che cerchiamo di bloccarli all’ingresso, forse è per questo che cerchiamo con tutta la forza di respingerli come in un ghetto lì da dove vengono: per far sì che non puntino il dito sulla nostra “falsa coscienza” e ci ricordino persino che prima o poi dovremo morire. La morte infatti, obliata e rimossa, che non compare mai sui nostri visi e nei nostri discorsi, non può materializzarsi in persone in carne ed ossa che inopportunamente ce la rammentano con la loro disperazione. La stessa disperazione che leggiamo sull’Indipendent irlandese il 29 settembre 2009 in un articolo che approfondisce il carattere di un tipo di immigrazione in Italia:

“Ore interminabili di un lavoro faticoso, e ampiamente tollerato dalle autorità per motivi economici, che viene pagato appena 15-20 euro al giorno per poi tornare a casa in squallidi campi di fortuna senza acqua corrente né elettricità.

«Perfino i cani stanno meglio di noi,» dice Bailo, ventiquattrenne della Guinea che lotta per la sopravvivenza in una zona della Puglia conosciuta come «Il Triangolo dell’oro rosso» che produce il 35% dei pomodori italiani. «E’ meglio morire che vivere così», aggiunge66”.

Meglio morire che vivere così, aggiungiamo noi, perché vivere così in realtà è già essere morti.

Eppure questi morti-viventi molto spesso mettono su famiglia e rimangono fino alla fine nei paesi d’accoglienza, trasformando il loro viaggio da temporaneo a permanente. In quest’ottica la loro morte appare come qualcosa di “paradossale”. Verrebbe da dire che il

66

I raccoglitori di pomodori in Italia vivono come “schiavi dei tempi moderni”: Articolo di Società cultura e religione, pubblicato martedì 29 settembre 2009 in Irlanda sull’Independent. L’articolo integrale si può trovare in: http://italiadallestero.info/archives/7794.

Fig. 4: un fotogramma tratto da “La ricotta” di Pasolini. Stracci, sottoproletario, recita la parte di Cristo

Fig. 5: Collage grafico. Il Cristo di Velasquez crocifisso sulla gru dei migranti a Brescia

migrante, in quanto già-morto, non dovrebbe permettersi di morire una seconda volta. La famiglia infatti implica integrazione e assimilazione e per chi è considerato solo e soltanto forza lavoro questo non è permesso. Come scrive infatti Chaïb:

“La question de la mort de l’immigré vient rappeler ce paradoxe dont s’accomode la société d’accueil: ainsi, en vertu de la représentation de l’aspect tempora ire de l’immigration, l’hipothèse de l’immigré malade, accidenté et surtout de l’immigré mort ne saurait se poser, celui-ci ne puvant exister que vivant et prêt à offrir sa force de travail”67 (Chaïb 2000: 22).

Ciononostante questa per fortuna è solo una suggestione e una possibile via interpretativa. Sappiamo infatti che la “teoria del sistema mondiale dell’economia” di Wallerstein nonché la critica della società moderna di Marx peccano di eccessiva economicizzazione dei fenomeni sociali. I migranti (e forse anche i proletari a suo tempo) non sono “soggetti passivi soggiogati dalle logiche dello sviluppo capitalistico” (Zanfrini 2000: 99), ma attivi e specialmente “reattivi”.

Speriamo con tutto il cuore che sia così. Nel frattempo concludiamo questo stravagante paragrafo con una altrettanto strana citazione: Montalbano di Andrea Camilleri:

“Forse, pinsò Montalbano, bisognerebbe fari un gran monumento, come il Vittoriano a Roma, in memoria dei lavoratori clandestini ignoti morti sul lavoro per un tozzo di pane” (Camilleri 2006, in Ambrosini 2010: 11).