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La strategia delle concezioni primarie della morte

La morte, sguardo sociologico

2.4 La strategia delle concezioni primarie della morte

Nel primo capitolo, affrontando la morte da un punto di vista filosofico, ci siamo imbattuti nel pensiero di Jakélévitch, per il quale il momento stesso della più profonda angoscia della morte è anche quello della rinascita ad una nuova vita (cfr. cap. 1.2). Il pensiero che dalla negazione di se stessi possa scaturire un livello di coscienza superiore ricorda chiaramente la dialettica di Hegel che procede per tesi, antitesi e sintesi, il quale, come ci ricorda Morin, era profondamente affascinato dalla figura della fenice, che rinasce dalle proprie ceneri. La negazione quindi non è un momento da evitare e rimuovere, perché è il presupposto della rigenerazione. Si potrebbe sostenere che psicologicamente questa è un’esigenza dettata dalla volontà di salvezza personale, dalla voglia di immortalità che cerca di sfuggire all’orrore scaturito dal dissolvimento della propria individualità, eppure l’uomo la trae dalle considerazioni più immediate che può riscontrare nel mondo naturale. Ci si lascia, per così dire, suggestionare: le stagioni si alternano in un ciclo sempre uguale di vita che cresce, che si ritrae e muore, per poi rinascere di nuovo; una preda uccisa è fonte di sostentamento per molti; lì dove prima c’era una foresta ridotta in cenere da un incendio ora risplende una nuova e più sfolgorante foresta; il sole tramonta e rinasce ogni giorno, così come la luna. La concezione della morte-rinascita dunque è naturalmente evidente all’uomo fin dalle origini, e si va ad affiancare ad un’altra, altrettanto importante: quella della sopravvivenza del doppio. Accade infatti che per garantire la sopravvivenza della propria individualità è necessario sdoppiare in due (ontologicamente) se stessi, in maniera che una parte venga perduta (e questo è evidente dalla decomposizione del corpo, come abbiamo visto) mentre un’altra mantenuta. Come vedremo in seguito lo sdoppiamento del sé (la creazione del doppio) comporta necessariamente anche lo sdoppiamento della realtà (dualismo). Si verrà a creare in questo modo un altro mondo da affiancare al primo, in cui far abitare il doppio che sopravvive alla morte. Anche per quanto riguarda il doppio l’uomo trae dalle esperienze concrete e naturali l’immagine di questa suggestione, che andrà col tempo a sviluppare e trasformare: l’ombra che proiettiamo sulla terra; l’immagine riflessa in uno stagno o in uno specchio; l’alternarsi di veglia e sonno in cui ci sentiamo come sdoppiati in due realtà separate (e in cui specialmente ci appaiono in sogno i morti).

Queste due concezioni (morte-rinascita e sopravvivenza del doppio) hanno delle caratteristiche molto differenti, ma nella storia delle credenze sulla morte la maggior parte delle volte appaiono intrecciate.

“Le due grandi credenze (morte-rinascita per trasmigrazione e morte-sopravvivenza del doppio), etnologicamente universali e peraltro rilevate dagli psicoanalisti o dagli psicologi infantili senza alcun previo contatto con gli etnologi, si ritrovano generalmente intrecciate l’una all’altra: infatti la credenza negli spiriti (doppi) si integra spesso a un vasto ciclo di rinascite che tiene legati l’antenato e il neonato” (Morin 1980: 119).

Per Morin sono queste due concezioni le forme originarie in cui l’uomo ha pensato e continua a pensare la soluzione alla morte. Su questi due capisaldi si basano tutte le strategie possibili per fronteggiarla veramente: esse sono le concezioni primarie della morte.

Vediamole nel dettaglio:

a) Morte-rinascita.

Per comprendere l’importanza della concezione primaria della morte-rinascita basti pensare che essa è alla base della credenza nella reincarnazione, che corrisponde al credo di centinaia di milioni di persone nel mondo. Allo stesso modo, ma in maniera più sottile e complessa, è alla base della visione della metempsicosi. Inoltre, favole, leggende, miti, canzoni di ogni dove del mondo hanno in sé, come struttura portante, la concezione secondo la quale da una morte segue una nuova vita, come dal sangue della testa di Medusa, per esempio, nasce il Pegaso, cavallo alato. La pratica del sacrificio rituale poi, comune a moltissime società arcaiche e simbolicamente sublimato anche in quelle moderne, parte dal presupposto della morte come forma di rigenerazione della vita, della morte feconda. Infatti “il sacrificio è il meccanismo, sistematico e universale, con cui utilizzare la forza fecondante della vita” (Morin 1980: 125). La morte dunque porta in sé una certa fecondità, ha in sé un seme che germoglierà. Lo stesso seme ideale che viene consumato nel pasto endocannibalico, lo stesso seme che viene interiorizzato nei riti di passaggio di cui parla Van Gennep. Quest’ultimi infatti affondano le radici nell’intuizione che ogni passaggio da una fase della vita ad un altro è un lasciar morire qualcosa per farlo rinascere in qualcos’altro. Scrive Remotti nell’ Introduzione a I riti di passaggio (Van Gennep 2007):

“Dalla nascita alla morte – anzi, prima ancora della nascita e anche dopo la morte – l’individuo non fa altro che passare da una condizione a un’altra, da un compartimento a

un altro: in una serie ininterrotta di occasioni determinate l’individuo lascia una stanza per entrare in un’altra di quella grande casa che è la società a cui appartiene. Da un punto di vista sociale vivere, per Van Gennep, è un processo continuamente scandito dai movimenti di separazione e di aggregazione, di uscita e di entrata. Vivere è un continuo morire e rinascere” (Remotti in Van Gennep 2007: XVII).

Così come in natura tutto si trasforma e cambia, nasce e muore, muore e nasce, così è per gli uomini e le regole societarie che si danno. Società e natura quindi sono intimamente interconnesse, non solo perché nei riti di passaggio è insita l’intuizione che ogni morte prevede una rinascita, ma anche perché gli stessi riti di passaggio non sono del tutto separati dal mondo naturale e da esso traggono spunto e indicazione. Perciò:

“Naturalizzazione della società umana e socializzazione o umanizzazione della natura possono essere considerate (interpretando Van Gennep al di là delle sue scarne indicazioni in proposito) come gli effetti convergenti dei riti di passaggio: i quali si configurano dunque come un ponte, un termine di mediazione tra i due regni o, in modo più pregnante, un codice di lettura comune, che consente di concettualizzare l’uno con le categorie dell’altro e viceversa” (ibidem).

Ma lo stesso Remotti si sbriga a precisare:

“Nonostante questa connessione con l’universo naturale ottenuta mediante i riti di passaggio, Van Gennep è molto consapevole della trasformazione che le vicende e i ritmi biologici subiscono nel processo di ritualizzazione. Vi è per esempio una parentela fisica e vi è una parentela sociale, vi è un’unione fisica e vi è un matrimonio sociale. Per il fatto stesso di riprodurre sul piano simbolico un evento naturale (nascita, morte, unione sessuale e così via) il processo di ritualizzazione pone in essere una serie di eventi parallela a quella naturale. Così, per esempio, è ben difficile che pubertà fisiologica e pubertà sociale coincidano” (ibidem).

Natura e società quindi non sono coincidenti nell’uomo, piuttosto si potrebbe dire, sempre secondo le riflessioni di Remotti, che l’uomo si serve dei riferimenti naturali come di un vocabolario da usare nelle sue creazioni sociali. La ritualizzazione umana prende in prestito, si rifà, usa nel suo linguaggio le parole della natura perché “la natura non si definisce come un insieme meccanico di possibilità, ma come un insieme per mezzo del quale vengono

significate delle intenzionalità molteplici” (Thomas 1976: 30)13. Ad un tempo quindi l’uomo converge verso di essa, se ne serve e ci si integra e di pari passo se ne allontana sostanzialmente. L’uomo è cosmomorfico e allo stesso modo la natura è antropomorfizzata. E’ per questo motivo che osservando la natura e i suoi processi trasformativi, l’uomo può concepire la morte come morte-rinascita.

Tra i riti di passaggio, oltre a quelli che si coagulano attorno al fenomeno della morte vera e propria, ovvero i funerali (di cui parleremo avanti), ce ne sono altri che si configurano, come sostiene Morin, in una concezione di morte-rinascita capovolta. Questi sono i riti di

iniziazione. I riti di iniziazione infatti rappresentano non tanto la morte e la successiva

rinascita quanto l’ingresso ad una nuova vita attraverso il potere purificatore della morte. La consapevolezza che non c’è ingresso ad una nuova condizione vitale (sia questa sociale, esistenziale, ontologica) senza lo stretto passaggio in una morte di un qualche tipo (simbolica, interiore, fisiologica) è il substrato comune che anima tutti i riti di questo tipo. Così per esempio, per entrare a far parte di alcune società segrete è necessario bere una bevanda contenente un po’ di veleno (oggi trasformatasi in semplice amaro) o per far parte della società degli adulti bisogna lasciar morire la vecchia condizione dell’infante (in questa visione spesso il novizio viene considerato morto per tutto il tempo dell’iniziazione). Le prove a cui è sottoposto l’individuo nei riti di iniziazione altro non sono che prove in cui egli o rischia di morire, facendosi quindi carico della possibilità della morte in sé, oppure muore simbolicamente, facendosi quindi portatore dell’esperienza della morte.

In questi riti dunque sono presenti molti fenomeni importanti per la nostra analisi. Tra di essi annotiamo il concetto di purificazione, che avviene perlopiù attraverso l’acqua, e la rinascita ad una vita superiore. Ma su quest’ultimo punto ritorneremo meglio in seguito.

La morte-rinascita spiega anche perché la vita sia vista come un ciclo che finisce lì dove è iniziato, ovvero il grembo materno, da cui siamo venuti alla luce la prima volta e che sembra doverci di nuovo accogliere nell’ora della morte. Morire infatti è anche nascere di nuovo e da qui l’idea di ritornare nel ventre della propria madre, cosa, tra l’altro, suggerita dal fatto che la posizione in cui molte salme venivano posizionate nelle tombe arcaiche richiama la posizione fetale del bambino nella pancia. Questa idea si traspone poi alla terra di origine nella misura in cui la propria patria è intesa come la propria madre. Su questi presupposti il mito del ritorno può esercitare il suo fascino per molti emigrati. La terra natale, la propria madre,

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Scrive ancora Thomas su questo argomento: “Questa concezione è stata spiegata assai bene da M. Houis: «Il mondo è per l’uomo una sorgente importante del suo immaginario, nel senso ch’esso è -il mondo fenomenico ambientale in cui egli attinge dei significati, ma anche quello in cui legge dei segni. La natura riflette una semantica fatta d’ordine, d’armonia e di ritmo. L’uomo vi si integra seguendo questo ritmo-»” (Houis 1971,

richiama come un magnete i propri figli da lontano. E più essi si avvicinano all’ora della morte più il richiamo si fa intenso. La madre-terra-patria li chiama a sé con lo stesso potere con cui li ha fatti nascere.

“Sono davvero rari gli esseri umani che, come gli uccelli migratori, non provino ad un certo punto un irresistibile impulso a ritornare, altrettanto forte di quello che li spinse a partire… Il richiamo misterioso della morte è insomma anche richiamo misterioso della terra in cui si è nati: hic natus, hic situs est” (Morin 1980: 132).

Altre metafore psicologiche del grembo materno sono la caverna o la casa. Da qui il desiderio di morire a casa, nel proprio letto, nel luogo più familiare e l’orrore di morire nell’estraneità delle stanze d’ospedale. Chiese e cattedrali poi, cos’altro sono se non caverne sopraelevate? (ivi: 133).

Il ciclo di morte e rinascita è ravvisabile anche nelle suggestioni del ciclo del sonno e della veglia. Ci si sveglia al mattino dopo un bel sonno rigeneratore perché questo è stato anche un breve viaggio attraverso la morte (i musulmani chiamano il sonno la “piccola morte”).

b) Sopravvivenza del “doppio”

Il doppio altro non è che la sensazione di esperire se stessi dall’esterno, di oggettivarsi non tanto in una operazione mentale, quanto di sentirsi e di vedersi concretamente dal di fuori. Il doppio vede quindi nel riflesso, nell’ombra e nell’alter ego dei sogni, la propria manifestazione fenomenica più evidente, a cui seguono le credenze sulla sopravvivenza, dopo la morte, della propria e dell’altrui individualità. Spettri, fantasmi, spiriti, angeli e demoni sono presenze reali, ma spogliate di una certa materialità, quella stessa materialità che va disfacendosi nel processo di decomposizione dei cadaveri. La materialità di cui sono composti i doppi è invece effimera e leggera. Assomiglia ad un riflesso, ad un soffio, ad un velo magico sopra le cose. Anche per quanto riguarda questa credenza i rimandi possibili al mondo dei miti, delle leggende, delle favole e del folklore sono così numerosi che appare difficile renderne conto definitivamente: dall’Eidolon greco ad Alice attraverso lo specchio magico di Carroll, dal Ka egizio fino al Regno delle ombre di Omero, dal Frevoli persiano alla realtà virtuale degli Avatar.

Il doppio è quindi presenza esterna di se stessi ma non necessariamente “semplice ri- produzione, copia conforme post mortem del deceduto” (ivi: 144). Esso trova nella morte fisica la sua liberazione definitiva, purificata dalle spoglie mortali, che potranno poi essere

trattate in diverse maniere14, ma è ancora una presenza che abita questo mondo perché è fatta della stessa sostanza di questo mondo. Il doppio è una realtà fisica e materiale alla stregua dell’altra presenza a cui si riferisce. Il mondo insomma è abitato da doppi che interagiscono fisicamente, da spettri che infestano i luoghi, da spiriti che abitano i boschi. E’ un mondo magico, fatto di doppie realtà, ma immanenti.

Un altro modo in cui il doppio si manifesta è nella sua alienazione, come sostiene Baudrillard (Baudrillard 1979: 155). Quando il doppio si libera dal carattere materiale della sua esistenza e assume in tutto e per tutto le caratteristiche dell’essenza principale di cui è composta la soggettività umana ecco manifestarsi l’anima, l’atman, l’io, atrofizzazioni e interiorizzazioni del doppio. Il doppio insomma, nella sua forma alienata, si spoglia delle caratteristiche terrene, si allontana, come un Dio nell’alto dei cieli, dal mondo di quaggiù e allo stesso tempo si fa più familiare di ogni altra cosa, certezza assoluta come il cogito ergo

sum cartesiano. Il doppio quindi da esteriore ed estraneo, si fa anima, interiore e

individualizzata. Ma esso è alienato perché non gli appartiene più ciò che più gli dovrebbe appartenere, ovvero il proprio rapporto con il corpo e la materialità dell’esistenza. Esso dunque è prigioniero del suo corpo, recluso similmente ai pazzi del XVII secolo descritti da Foucault (ibidem). La morte allora è concepita come liberazione definitiva, fine dell’alienazione, inizio della nuova e vera vita.

Il processo di enfatizzazione del lato astratto, ipostatizzazione del nucleo fondamentale di se stessi, come meccanismo di astrazione e sublimazione della propria individualità, comporta anche uno sdoppiamento e una gerarchia tra i mondi che le due entità abitano. Questo può accadere se la civiltà è abbastanza complessa da avere una gerarchia di classi al suo interno che le vede contrapposte (Donini 1991). Il soprannaturale o il trascendente allora altro non sarebbero che una trasposizione su scala metafisica dei rapporti di subordinazione e assoggettamento che gli uomini o gli schiavi vivono nella società così suddivisa. Perfino l’immortalità promessa nell’al di là è una promessa fatta solo ad alcuni. Ma la spiegazione della genesi di questo sdoppiamento può anche avere al suo interno motivazioni non soltanto economiche, bensì psicologiche, sociali, culturali ed economiche insieme, in sinergia. Ciò che è certo è il verificarsi di questo processo di svalutazione di un mondo, quello quotidiano, a dispetto di quello ultraterreno e soprannaturale. Da un lato abbiamo quindi il mondo dell’esistenza terrena, dove carne e anima convivono, dall’altro abbiamo l’al di là, dove permane in vita solo la parte più importante di noi stessi, ovvero l’anima. Il dualismo

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I metodi di trattamento sono i seguenti: cremazione, inumazione, imbalsamazione, endocannibalismo, esposizione all’aria e immersione. Quando invece un cadavere non viene trattato siamo in presenza di morti ignobili o funerali mancati (vedi il paragrafo 2.5).

connaturato alla credenza del doppio alienato non è quindi solo una semplice duplicazione della realtà, ma è anche un posizionamento su una scala di valori di questi due mondi. I due mondi non sono posti orizzontalmente l’uno affianco all’altro, ma gerarchicamente l’uno sopra l’altro. L’anima in questo modo si incarica di essere la testimone privilegiata dell’esistenza dell’al di là, vero e proprio ponte di comunicazione preferenziale, un po’ come la ragione socratica si incaricava di separare l’opinione (doxa) dalla verità (epistème) e nel far ciò di attingere al mondo delle idee (iperuranio).

Ma la comunicazione tra il mondo ultraterreno ed eterno (l’unico che possiede le caratteristiche di realtà per eccellenza) è possibile anche attraverso altre forme di epifanie. Irrompe sulla scena del mondo in questo modo il sacro, con le sue varie ierofanie, lasciando sullo sfondo il profano. Il sacro, come sostiene Mircea Eliade, sarebbe impensabile senza questo richiamo ad un altro mondo:

“Si potrebbe dire che la storia delle religioni, dalle più primitive alle più elaborate, è costituita dall’accumularsi di ierofanie, ossia dalla manifestazioni di realtà sacre. Dalla ierofania più elementare, per esempio la manifestazione del sacro in un oggetto qualsiasi, una pietra o un albero, alla ierofania suprema, che per un cristiano è l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo, non vi è soluzione di continuità. E’ sempre lo stesso atto misterioso: la manifestazione di qualcosa di completamente diverso, di una realtà che non appartiene al nostro mondo, in oggetti che fanno parte integrante del nostro mondo «naturale» e «profano»” (Eliade 2006:14-15).

Nel sacro quindi si manifesta qualcosa di completamente diverso, qualcosa che è più vero di tutto quanto il resto; esso è l’apparizione puntiforme del vero mondo all’interno di questo, effimero e profano. Ogni apparizione del sacro è un passaggio dimensionale, una finestra particolare che dà sul tutto (per parafrasare Jankèlèvitch); nel sacro, sia questo racchiuso in un alimento come l’ostia, in un rito come l’eucarestia o in un gesto come la benedizione, si addensa simbolicamente l’altro mondo a cui l’alimento, il rito o il gesto fanno riferimento, pur rimanendo profani nella loro funzione di segni. L’ostia infatti, prima di essere benedetta, non è nient’altro che pane, mentre dopo è il corpo di Cristo. Allo stesso modo mangiare l’ostia benedetta durante l’eucarestia non è il semplice ingerire del pane così come accade nella nostra quotidianità, ma il riproporre in uno spazio sacro, ovvero la chiesa, un tempo sacro, cioè quello dell’ultima cena. La sacralità crea dunque una discontinuità tra le cose e i tempi degli uomini, crea una scala di valori nell’omogeneità del cosmo, ma in seno al cosmo stesso,

perché la chiesa e la durata della messa, così come l’ostia e i gesti dell’eucarestia, sono anche mero spazio, semplice tempo, materia e azioni qualsiasi.

Il doppio quindi e la sua sopravvivenza in un mondo altro e sacro (a cui si accede dopo la morte) sono gli elementi che contraddistinguono la seconda concezione primaria di salvezza dalla morte escogitata dall’uomo: la sopravvivenza del doppio appunto15.

Ora che abbiamo delineato le caratteristiche della Morte-rinascita e della Sopravvivenza

del doppio (e tutte le loro conseguenze) possiamo comprendere meglio molti altri fenomeni.

Per esempio il sacramento del battesimo.

“L’uomo vecchio muore immergendosi nell’acqua e dà vita a un nuovo essere rigenerato. Simbolismo questo mirabilmente espresso da Giovanni Crisostomo (Homil. In Jho., XXV,2), il quale, riferendosi alla polivalenza simbolica del battesimo scrive: « Esso rappresenta la morte e la sepoltura, la vita e la risurrezione… quando tuffiamo la nostra testa nell’acqua come in un sepolcro, l’uomo vecchio è immerso, interamente sepolto; quando usciamo dall’acqua, compare simultaneamente l’uomo nuovo» (Eliade 2006: 85).

L’acqua insieme al fuoco è l’elemento purificatore per eccellenza. Con l’acqua ci si lava dalla sporcizia e in un rimando metaforico ci si lava dal passato e dai peccati. Assume così un ruolo predominante nei riti di passaggio come strumento sacro per l’accesso ad una nuova condizione. In quanto sacra l’acqua richiama un altro mondo, lo stesso mondo di cui il battezzato si ritrova a partecipare dopo esservi stato immerso.

Ma l’acqua è anche simbolo della morte con una forza e una potenza straordinarie, come se