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Brown: l'ontologia è un letto di Procuste

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 128-132)

16 L'improvvisazione come opera d'arte (oggetto di apprezzamento) Ora, vorrei sviluppare la visione di Stephen Davies (2007) e Kania (2011) secondo cui l'opera è un

16.2 Brown: l'ontologia è un letto di Procuste

Un'altra obiezione sarebbe questa (Brown 2011, 174): perché ancorare l'ontologia ad un genere di pratica? L'operazione pluralista di Kania intende l'ontologia comunque rigidamente. Ad esempio, seguendo Kania, come inquadreremmo il jazz-rock di Miles Davies o di Pat Metheny? Come un'ar- te senza opere o un'arte senza performance? Le tradizioni si scompongono in sub-tradizioni che

hanno spesso confini molto permeabili. Per Brown non si può dare un resoconto ontologico – un letto di Procuste – buono per tutti i casi della tradizione musicale di riferimento, né si può assumere che tali casi non siano meno centrali e importanti per tale tradizione, né si può pensare che per cia- scun caso ci sia solo una tradizione di riferimento. Pertanto è giustificato il giudizio di Kania (2008c) secondo cui Lee B. Brown è l'unico filosofo che ha proposto un descrittivismo estremo. Cioè, dice Kania, Brown rifiuta una caratterizzazione ontologica o metafisica degli enti musicali, in favore di una metodologia che prende in carico le specificità di ciascun oggetto musicale. Il descrit- tivismo è una teoria che mi sento di difendere soprattutto per le musiche improvvisate, le quali sono trattate da Brown con competenza e profondità (Brown 1991, 1996, 2000a).95

Brown ingaggia allora un dibattito con Kania. Il punto polemico riguarda la rigidità che un'ontolo- gia come quella di Kania sembra promuovere. Brown sostiene che non c'è alcuna ragione per affer- mare, innanzitutto, che nel rock l'opera è il pezzo registrato, e non la canzone che viene cantata ai concerti, ripresa da altri musicisti, ecc. Questo non è il modo in cui ascoltiamo il rock: nei concerti i pezzi cambiano nella musica o nei testi, vengono suonate canzoni mai registrate, c'è improvvisa- zione. Andiamo ai concerti perché il materiale live differisce da quello registrato, se non altro per- ché c'è la possibilità di vedere le proprie rockstar preferite. Ma anche se l'ascolto del disco fosse il modo preminente con cui ascoltiamo il rock, scrive Brown (2011, 173) – ipotizziamo anche che va- lutiamo il rock per il 70% dagli album e per il 30% dai concerti – comunque non possiamo conclu- dere che l'oggetto ontologico primario, l'opera cioè, sia l'album. Analogamente, sarebbe pure sba- gliato ritenere che nel rock l'oggetto ontologico primario sia la canzone (magari la canzone per la performance in studio, come dice Stephen Davies), poiché anche questa sarebbe un'operazione ri- duzionistica.

Una volta che si propende per una posizione sull'altra, per Brown stiamo abboccando ad una do- manda sbagliata. “Che cos'è l'opera?” richiede, per Brown, una risposta necessariamente comples- sa, stratificata su piani diversi. Su questi piani giocano le pratiche di produzione, di esecuzione, di critica valutativa, di diffusione. Spesso tali piani sono in conflitto; una risoluzione dei conflitti pra- tici però avviene nel plesso delle pratiche stesse, mai in seguito a speculazioni logico-filosofiche (Brown 2011, 182).

Il secondo punto, sul jazz. Per Kania, l'improvvisazione è la ragione per cui non si può normativa- mente proporre un'ontologia che consta di opere e performance nel jazz. Per Kania valutiamo tutte

95 Il descrittivismo estremo di Brown è molto vicino alla critica marxista di Carles e Comolli del free jazz: “L'arte ha inoltre nelle società borghesi la doppia funzione di concentrazione e di sfruttamento delle illusioni di purezza e per- fezione (realizzazione dell'Idea trascendentale-divina), nonché di parallela censura di tutto quanto l'idealismo con- danna in nome dei medesimi concetti di purezza e perfezione: la materia, il disordine, i contrasti sociali.” (Carles e Comolli 1973, 282).

le performance jazz, anche quelle registrate (ad esempio da Miles Davis per la Columbia con gran- di manipolazioni ai nastri), come fossero delle performance live. Ma questo perché? Perché secon- do Kania (e Alperson 1984; e Hamilton 2007b), richiediamo un grado di freschezza e novità al jazz. Sicché il jazz diventa un'arte performativa pura, per Kania. Per Brown le cose non stanno così: ci sono ragioni per dire che la registrazione gioca un ruolo centrale nella produzione e nella documen- tazione del jazz (quindi Kania dovrebbe mutuare l'ontologia del rock al jazz). Ma ci sono tanti altri casi: ad esempio il fatto che Davis, Monk o Montgomery suonino tutti Round Midnight a prescin- dere dalle differenze di arrangiamento e di improvvisazione. Una descrizione per ciò che avviene con gli standards potrebbe essere quella proposta da Young e Matheson;96 ma come gli stessi autori

hanno suggerito, abbiamo visto, ci sono numerosi controesempi che fanno parte della tradizione dominante: ad esempio My Favorite Things suonata da Coltrane o Free jazz di Coleman – sarebbe antistorico l'argomento che dice che questi sono esempi che appartengono a qualche tradizione se- condaria, con una loro specifica ontologia.

Brown stesso manifesta una dovuta cautela nel maneggiare il caso del jazz e dell'improvvisazione: se in principio è stato sostenitore di una non-work ontology per il jazz (1996; 2000a), poi (2011) ammette che la mancanza di opere non significa che manchino opere d'arte né oggetti durevoli. Brown intende questo: se chiamiamo opera l'astratto che può essere esemplificato in occorrenze multiple, secondo un principio estetico classicista e idealista, viennese e ottocentesco, sinfonico e notazionale, allora non possiamo dire che ci sono opere nel jazz. Come ho dichiarato più volte, sono perfettamente d'accordo.

Come scrive Brown, l'ontologia va in cerca di “specificare di che genere (kind) la musica sia cen- tralmente” (Brown 2011, 177). Ma Brown ha il giustificato timore che anche la non-work ontology abbia questo vizio di forma congenito: c'è il pericolo che questo tipo di ontologia negativa dica che non ci sono opere, come fosse necessario e migliore, in senso valutativo, un'arte con opere e occor- renze. La non-work ontology di Davies e Kania, scrive Brown, sostiene che non ci sono opere per- ché non essendoci oggetti costanti nel tempo, apprezza esteticamente solo le performance. Brown rimprovera questo: non ci sono opere in senso stretto; ma l'improvvisazione, come facevo notare prima a proposito della teoria di Kania, non può essere il principio di discrimine ontologico tra pra- tiche e tradizioni musicali diverse come la classica, il jazz e il rock.

Brown scrive che anche nel jazz abbiamo esperienza di ripetizioni, ritorni, persistenze: la tecnolo- gia di registrazione, ad esempio del Köln Concert di Jarrett, rende disponibile nel tempo anche un

96 Young e Matheson scrivono che un'opera è individuata dalle istruzioni armoniche, melodiche e strutturali di massi-

evento effimero come l'improvvisazione.97 E anche se molte performance improvvisate rimangono

non-registrate, ci sono documentazioni, citazioni, trascrizioni, ricordi, ecc. (Brown 1996, 358; Bro- wn 2011, 178).98

Brown critica anche la constatazione di Kania che lo standard jazz sia “un aiuto per la creatività in tempo reale dei performer” (Kania 2011, 396). “Vorremmo analogamente insistere che un pezzo in una sinfonia di Beethoven o Brahms sono solo occasioni per lo sviluppo allegro della sonata?” (Brown 2011, 178). L'improvvisazione non è quasi mai così “irrispettosa” del tema o della progres- sione armonica da cui proviene e su cui interagisce. Anche nel caso di standard ripresi, che in gergo vengono chiamati contrafacts,99 ad esempio tutti gli anatole o rhythm changes, il jazzista improvvi-

sa con il materiale che la contraffazione propone, non con quello dello standard da cui la contraffa- zione deriva. Lee Konitz, che proponeva un tipo di improvvisazione molto più attento alla melodia che all'armonia, suggerisce un tipo di improvvisazione diverso in Ornithology e in How High The

Moon; in Donna Lee e in Indiana – sono contrafacts con la stessa armonia.100

Un altro caso è quello in cui lo standard non lascia poco o nessun momento di improvvisazione. È tutto scritto e previsto, eppure è jazz: un esempio è il Concerto for Cootie di Duke Ellington. Que- sto pezzo si comporta come un pezzo sinfonico: qui la connotazione jazz è data sicuramente dai mezzi performativi in cui abbondano i fiati, dal ritmo swing, dalla melodia ricca di blue note e le- gati, dal giro armonico pieno di risoluzioni con la settima di dominante, ecc, ma non dall'improvvi- sazione (Hodeir 1993).

Così il jazz sembra presentare troppi casi ed elementi diversi per proporre un'ontologia unificante,

un letto di Procuste. Non si può dire aprioristicamente quale tra questi casi ed elementi sia centrale nella pratica in questione. Brown si chiede, per esempio, come dovremmo vedere ontologicamente una rimasterizzazione su cd di un lp: come una nuova opera, come una versione, come un'occorren- za genuina, ecc.? È così che la pratica musicale funziona oggi. E i concetti che impieghiamo nella filosofia o sono funzionali alla pratica, cioè funzionano con essa, o sono falsi.

Una cosa sembra chiara. Anche se le analisi ontologiche, come esemplificato sopra, fossero utili

97 Non è detto che ciò che ha fatto Jarrett a Colonia sia valutabile come un'improvvisazione in senso proprio e totale (libera), visto la progressione armonica ben riconoscibile; Reason (2004) e Nanz (2011) e Brown (2000a, 115) in- fatti propongono di chiamare Jarrett un instant composer piuttosto che un improvvisatore; ma queste sono distinzio- ni di poco conto, dal mio punto di vista.

98 Nel jazz la critica, a partire da quella letteraria di Henry Gates, ha coniato il termine signifyin[g] per indicare la pra- tica citazionistica che, tuttavia, altera il materiale di partenza, in modo spesso dissacrante, parodico o sarcastico. Vedi Sparti (2007b, 88-118); Benson (2004); Monson (1996, 103 e segg.). Per Lock (2004, 7) signifyin[g] ha acqui- sito lo stesso significato stereotipato di “ritmo naturale” per gli africani. È la sua versione postmoderna.

Signifyin[g] vuol dire un riferimento indiretto, e questo riferimento occorre per mezzo di una ripetizione con una differenza (la [g] tra quadre è un chiaro riferimento alla filosofia di Derrida).

99 Vedi Bertinetto (2013c).

a razionalizzare le dispute attorno ai meriti artistici delle ripubblicazioni delle registrazioni rock, o delle diverse performance delle canzoni jazz, un tipo di cose non sarebbe utile a questo scopo – ovvero le idee sul concetto di opera della musica rock, o del jazz.Che tipo di concetti sono questi? Meri artefatti della filosofia, vorrei insinuare. (Brown 2011, 181)

Brown scrive che a differenza del rock e del jazz, nella classica il concetto di opera ha una funzione pratica evidente, quella che ha illustrato Goehr con l'esempio beethoveniano: come si deve rendere performativamente una composizione scritta? Ma allora sembra che l'ontologia della musica classi- ca abbia contagiato dannosamente anche altri ragionamenti attorno al rock e al jazz facendo credere che l'opera debba essere tal quale all'opera “classica”.

Kania (2012) replica a Brown che il tipo di indagine ontologica, di Kania stesso, attorno all'opera in altre tradizioni musicali oltre alla classica, può avere un risvolto funzionale importante. Infatti, secondo Kania, esiste al centro di ciascuna pratica un modo standard di intendere le cose; ovvia- mente l'ontologia non riguarda i casi periferici o le sub-tradizioni, ma proprio ciò che risiede al cen- tro delle pratiche. Questo nucleo pratico non è stabilito astrattamente: Kania è d'accordo con Brown che è la dinamica immanente alla stessa pratica a porre l'attenzione su un aspetto tale da renderlo paradigmatico. E in questa dinamica immanente i filosofi giocano un ruolo al pari dei musicisti, del pubblico e dei critici (2012, 102).

Brown (2012) ribatte: perché mai il dibattito attorno al jazz e al rock dovrebbe nutrirsi di concetti come quello dell'opera? Perché dobbiamo supporre esista uno standard pratico all'interno di queste tradizioni? Nel jazz, ad esempio, l'attenzione estetica verso l'improvvisazione corre parallela all'at- tenzione estetica verso la composizione, sin dagli esordi (2012, 105). Scrive Brown che il resocon- to ontologico di Kania, enfatico sull'improvvisazione, forse è più adatto a pratiche come il free jazz degli anni '60 e '70. Ciononostante, per smentire Kania, possiamo affermare che il free jazz sia qualcosa di ontologicamente periferico? Brown è chiaro: nel jazz non esiste una singola storiogra- fia che mette al centro una singola prassi (2012, 105). L'ontologia riduzionista, ritiene Brown, vuo- le escludere il diverso per evitare conflitti che sappiamo gestire: “più abbiamo voglia di diversifica- re, più stiamo convergendo verso la pratica, che non ha problemi a elaborare la diversità – neanche con duri conflitti” (2011, 184).

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 128-132)

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