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12 Un'ontologia pluralista: Stephen Davies

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 103-110)

Recuperando il filo del mio discorso sull'improvvisazione, cito Stephen Davies il quale ha il meri- to, secondo me, di costruire un'ontologia plurale, aperta, descrittiva. Davies dice che non c'è un solo tipo di opera, quella “astratta”. Ce ne sono invece molti, e l'improvvisazione è uno di essi. An-

76 Ad esempio il platonista più agguerrito di tutti, Julian Dodd, è molto superficiale su questo punto. Egli scrive: “alla morte di Socrate, Santippe divenne una vedova, ma questo non fu un cambiamento genuino in Santippe stessa, poi- ché essere una vedova è una proprietà estrinseca, non intrinseca ad un oggetto” (Dodd 2007, 53). “Certo, la questio- ne filosofica di come bisogna analizzare la distinzione tra proprietà intrinseche ed estrinseche è sostanziale e spino- sa; ma qualcosa del genere sembra corretto: una proprietà intrinseca di un oggetto è quella che l'oggetto possiede in virtù di essere tale, cioè non dipende da altre cose […]. E anche se tale definizione richiede un affinamento, la di- stinzione intrinseca/estrinseca è intuitiva abbastanza da essere afferrata tramite il genere di esempi paradigmatici delle proprietà intrinseche ed estrinseche che ho fornito” (Dodd 2007, 54 nota 16).

che se non amo particolarmente il termine “opera”, per la ragione suesposta da Goehr, adotto la classificazione di Davies. Per me l'opera è un tipo particolare di composizione, come l'improvvisa- zione, e di tipi di composizione ce ne sono tanti. Prima di vedere quali e quanti, espongo le polarità lungo cui si classifica (Stephen Davies 2007, 6 e segg.): 1. l'opera è per la performance/l'opera non è per la performance; 2. l'opera è per la performance live/l'opera è per la performance registrata; 3. l'opera è ricca di proprietà (opera spessa, thick works)/l'opera è povera di proprietà (opere sottili, snelle, o fini, thin works).

Lungo questi tre assi, vediamo che l'opera compare accanto alla performance. Un punto che trovo convincente, è che per Davies l'opera non è quella cosa che hanno in comune le diverse realizzazio- ni. Non è possibile, per Davies, divorziare l'opera dalle sue varie rese performative: dobbiamo, per capire l'ontologia, capire anche cosa è “fornito dal compositore e dal performer, e perché” (2007, 11). Se l'opera fornita compositore è molto densa di proprietà allora ciò che è comune alle sue rea- lizzazioni può essere molto più snello di quanto specificato dal compositore, poiché il performer ha comunque la facoltà di adottare uno “stile” personale, distintivo. Molte performance avranno diffe- renze significative anche rispetto a dettagli specificati dalla composizione. Se invece l'opera è mol- to snella, astrarre dalle realizzazioni può dare l'impressione che si tratti di un pezzo più ricco di quanto specificato dal compositore. La storia delle performance riporta casi di viralità, imitazione, tradizione, scuola, maniera. Davies scrive che “in generale cerchiamo certe qualità nelle opere, al- tre nelle performance e ancora altre nelle improvvisazioni, e, in queste categorie, facciamo ulteriori distinzioni di genere di ciò che ascoltiamo” (Davies 2007, 9). Secondo Davies dalle tre polarità ri- caviamo 6 categorie ontologiche in cui classificare le opere/performance/improvvisazioni:

1. l'improvvisazione (non c'è né una composizione, né una performance di una composizione);

2. un'opera per la performance live, ad esempio un'orchestra che esegue il Concerto Brande-

burghese n.2;

3. la registrazione live del Concerto Brandeburghese n.2;

4. l'intervento dell'ingegnere del suono sul Concerto Brandeburghese n.2. In questo caso la performance è di studio come Bitches Brew di Miles Davis e assemblato da Teo Macero77;

5. non c'è nessuna performance invece nell'assemblare materiali da parte dell'ingegnere del suono, come Revolution n.9 dei Beatles;

6. uno crea un disco con materiali puramente elettronici – praticamente tutta la musica techno, per esempio –, e dà vita ad un'opera per il playback, non per la performance.

Vediamo il primo caso, l'improvvisazione.

12.1 L'improvvisazione

Che cos'è l'improvvisazione secondo Davies? Egli propone una concezione dell'improvvisazione come “grado zero” dell'ontologia musicale. L'improvvisazione per Davies non ha né opere, né tanto meno performance di opere. È un puro fare musica sic et simpliciter (2007, 11). Anche nel caso del jazz, che secondo Davies è una musica sofisticata, o nel caso di certa musica classica – Davies cita Lukas Foss –, l'improvvisazione è un “primitivo” musicale. È un modo spontaneo di fare musica – tal quale alla definizione di Alperson.

In nome del suo contestualismo, tuttavia Davies riconosce che ciò che conta come spontaneo può cambiare a seconda del contesto, il quale trasmette convenzioni e regole diverse all'improvvisatore – Davies cita il “secondo” Wolterstorff (1994). L'importante è che il vincolo non sia diretto: con l'improvvisazione, ritiene Davies, non abbiamo una causa tra composizione e performance. Il con- testo è importante per la formazione e l'apprendimento dell'improvvisatore. Sicché il modo in cui l'improvvisatore sa improvvisare è contestualmente “limitato”, più che “determinato”.

Davies rifiuta la dicotomia ontologica work/performance, calcata sulla dicotomia type/token, per il caso dell'improvvisazione. Per Davies la coppia concettuale ha un senso solo dove si parla di esem- plificazione multipla. La musica prodotta con l'improvvisazione tuttavia non è associabile al con- cetto della ripetibilità. È invece il qui ed ora che ci attrae esteticamente per l'improvvisazione, quin- di, per Davies, ontologicamente le cose sono messe in modo diverso. Davies corregge Alperson (1984), il quale propone come abbiamo visto una tesi dell'improvvisazione come la creazione di una istanziazione singolare di un'opera-type (Alperson 1984, 26). La mancanza di ripetibilità e di persistenza ontologica impongono di rinunciare al termine “opera” e quindi, giocoforza, all'idea che la performance improvvisata sia la resa di una qualche opera.

Un'improvvisazione può essere registrata o trascritta, e quindi può sempre essere ripetuta, ma questo sembra incidentale al suo fascino. (Infatti, alcuni credono che le improvvisazioni perdo- no il loro interesse quando sono catturate su disco […]). Poiché possono essere registrate su nastro o carta, le libere improvvisazioni possono essere imitate dagli altri, ma questo potenziale di ripetibilità non è sufficiente per stabilire che sono opere. Non sono né intese né convenzio- nalmente recepite come modelli per essere copiati. L'ethos della musica come il jazz (che è il soggetto di Alperson) o l'estemporaneità dei compositori-performer della tradizione classica (che è il soggetto di Kivy) sta contro l'idea che le improvvisazioni generano opere musicali, come conferma la pratica sociale in cui l'improvvisazione è attesa e valutata. Quindi non c'è nessun vantaggio a vedere le libere estemporaneità come opere. (Davies 2007, 14)

Anche la nota 6, stessa pagina, è interessante:

Non nego che alcuni dischi di improvvisazioni libere hanno raggiunto lo status di opere, a pre- scindere da ciò che era intenzione dei musicisti o da ciò che è lo standard del genere in questio- ne […]. Questa non è la norma, tuttavia. Infatti, si oppone alla norma in quanto fissa ciò che è concepito come libero. Diventando un'opera che altri possono eseguire, l'originale assume una nuova posizione ontologica, una posizione simile a quella delle moderne registrazioni pop. Questo mostra solo che ciò che nasce come improvvisazione può essere trasmutato in un'opera, non che, come improvvisazione, è un'opera. (Davies 2007, 14 nota 6).

La storia della musica fornisce molti esempi di transustanziazioni del genere; ancora prima della re- gistrazione magnetica e digitale, era consuetudine annotare l'improvvisazione su spartito ex post, al fine di esercitare un'analisi secondo criteri formali. Davies, ricordando il caso proposto da Kivy – Bach che improvvisa L'offerta musicale – pensa che esso proponga due opere diverse: una è l'im- provvisazione, l'altra è la trascrizione dell'improvvisazione che diventa un'opera per l'analisi e il tramando. Apprezzo la volontà di distinguere che mostra Davies. Egli qualifica per esempio l'im- provvisazione in quanto mera aggiunta esornativa ad una performance – come in certa tradizione performativa classica, in certo rock o in certo jazz “conservatori” – in modo diverso dall''improvvi- sazione libera e spontanea. L'improvvisazione esornativa è un caso di confine: è una performance- di-un'opera che presenta un'improvvisazione non sostanziale.78 Davies battezza l'opera che consente

un abbellimento improvvisato di questo tipo thin work, cioè “opera sottile”. Per essa vale il model- lo work/performance, ma con la differenza che la maggior parte delle qualità della performance è data dalla libera interpretazione del performer. Il performer è quindi più libero di controllare aspetti della performance (Davies 2007, 16).79

Ma Davies è molto attento e rispettoso del contesto, più che preoccupato di escogitare una teoria netta buona per sempre (Davies 2007, 19). In un'opera sottile, non è possibile sapere a priori quanto peso avrà l'intervento performativo sull'opera stessa; sappiamo solo che l'opera e il modo in cui vie- ne usata dalla produzione musicale, consentono più libertà di quanto lo fa la notazione esaustiva. Di sicuro l'improvvisazione libera, nel senso di Davies, è qualcosa di diverso dall'improvvisazione su un tune rock o jazz, o dall'abbellimento di una performance classica.

Davies dice che c'è un modo per distinguere tra l'improvvisazione basata su di una canzone e la

78 Più avanti Davies cita come casi di confine tra improvvisazione e performance di un'opera sottile (thin): I've got

Rhythm di George Gershwin, The Girl from Ipanema di Norman Gimbel e Antonio Jobim, Stardust di Hoagy Cam- richeal (Davies 2007, 19).

79 A dire il vero Davies, a distanza di poche pagine, ridimensiona il suo giudizio e confessa la propria flessibilità onto- logica. Davies è molto più attento e rispettoso del contesto, più che preoccupato di escogitare una teoria netta buona per sempre (Davies 2007, 19).

performance di un'opera thin. La prima usa la canzone e la thinness dell'opera solo come un tram-

polino, e non vincola in alcun modo il materiale. La seconda invece rimane fedele alle magre carat- teristiche dell'opera. Anche i rischi sono diversi per l'improvvisazione sul trampolino e la perfor- mance dell'opera thin: nel primo caso si deve decidere nel corso della performance dove va la musi- ca, nel secondo no. Quindi per Davies l'improvvisazione è maggiormente legata ad una responsabi- lità personale da parte dell'improvvisatore:

Semplicemente, le libere improvvisazioni sono più libere di quanto le performance di opere po- tranno mai esserlo, poiché le ultime sono vincolate a seguire le direttive del compositore, anche se queste dicono «sii libero». (Davies 2007, 17)

L'improvvisazione è diversa dalla composizione rispetto a come viene creata. L'improvvisazione avviene contestualmente alla performance, mentre la composizione avviene su spartito o su altri supporti prima della performance – Davies qui cita Lee B. Brown.

Manca invece in Davies una certa diffidenza nei confronti della tesi di coincidenza temporale tra performance e improvvisazione. In realtà, ritengo, ci sono molti elementi per dire che l'improvvisa- zione è anche un processo di lunga durata. Prendere una decisione qui e ora non significa che il tempo di riflessione per arrivare alla decisione sia una questione di tempo immediato, anzi.

Ciò comunque non toglie che l'improvvisazione abbia una “presenza” dovuta a decisioni effettiva- mente improvvise. Davies scrive che queste non solo devono “suonare giuste, ma anche ci devono colpire come sorprendenti, andando oltre non solo al prevedibile e al cliché, ma anche alla zona di comfort del musicista” (Davies 2007, 17). Davies si mostra d'accordo con Alperson e ammette che ci sono diversi valori in gioco nella valutazione dell'improvvisazione da una parte e della composi- zione scritta dall'altra. E qui convengo. Scrive: “l'improvvisazione si basa sull'energia nervosa ge- nerata dall'immediatezza e dall'apertura” (Davies 2007, 18). Come vedremo anche con Brown il ri- conoscimento della presenza nell'improvvisazione è un fattore determinante per la sua valutazione estetica.

12.2 Le opere

Davies ha smarcato l'improvvisazione dalla performance della thin work.

Qui mi interessa discutere della presa di posizione di Davies secondo cui le nozioni di thin e thick costituiscono una distinzione nel campo delle opere da performance – non tutte le opere sono con- cepite, come vedremo, per essere eseguite: alcune sono semplicemente riprodotte. Il pregio di una partizione del genere sta nell'adesione della teoria a un vincolo posto dalle varie prassi. Ripeto, io

non adoro il termine work usato da Davies, in quanto, come afferma Goehr, è legato a un solo tipo di prassi. Però, al di là del dettaglio terminologico, vedo un'affinità con la teoria storico-contestuali- sta di Goehr e quella di Levinson. La tesi comune è che esistono molti modi di classificare i tipi di composizione musicale, cui corrispondono proprietà, valutazioni estetiche, ricezioni critiche, pro- fessionalità, ecc. diverse.

Vediamo prima la topografia proposta da Davies, poi muovo un piccolo rimprovero alla sua teoria pluralista. La distinzione fondamentale è quella tra opera sottile e opera spessa.

L'opera sottile ha poche proprietà essenziali o costitutive e molti aspetti fondamentali sono a scelta del performer: l'intonazione, le inflessioni melodiche, il timbro, l'enfasi, la costruzione polifonica dell'armonia, il timbro. È il modello della musica con basso figurato, della canzone, di tradizioni non-occidentali. L'opera spessa invece ha tante proprietà fondamentali, trasmette tante proprietà per la propria identità alle performance e deve essere riprodotta fedelmente. Più è spessa e più è il com- positore a controllare i dettagli sonori delle sue istanziazioni. È il modello tipico della musica clas- sica occidentale. Tuttavia, anche in questo tipo di prassi, scrive Davies, e per me non è un'osserva- zione en passant, “inevitabilmente, le performance accurate mostrano proprietà che devono essere ascritte all'interpretazione dei musicisti più che all'opera in sé” (Davies 2007, 20).

Come può l'opera, thin o thick, trasmettere le condizioni di identità alla performance? Secondo Da- vies l'opera spessa consegna normativamente le istruzioni del compositore al performer per mezzo di una partitura o per mezzo di una prima esecuzione. Il compositore dell'opera thin invece istruisce i performer o con una notazione semplificata, od oralmente, o per mezzo di una performance a mo' di modello. Davies però afferma chiaramente che le condizioni di identità non sono consegnate to-

p-down; anzi, presuppongono una comprensione da parte dell'esecutore del tipo di opera che andrà ad eseguire – il genere e lo stile – e la pratica performativa che presuppone. Il performer può ese- guire correttamente l'opera alla luce di una comprensione delle convenzioni e delle pratiche perfor- mative. Nemmeno per l'opera spessa non tutto di quanto scritto è determinante, né tutto ciò che è determinante è notato, pertanto il performer deve sapere come rendere acusticamente un segno muto e incompleto (2007, 20 e segg.). Oppure, nel caso dell'opera sottile rock, la quale di solito è riprodotta e reinterpretata a partire da una performance-modello, il performer si trova in difficoltà a estrarre dalla performance le qualità costitutive dell'opera, cioè separare il modello dalla perfor- mance. Le convenzioni del rock ammettono sia la cover esatta del modello che una resa distintiva del modello. (Davies 2007, 21). Il performer può scegliere quanto spessa o sottile è l'opera per lui e

per il suo contesto di produzione performativo.

giusto notare la perizia musicologica di Davies: cita, per esempio, lavori di Cage come Bacchana-

le, Imaginary Landscape n.4, Knobs; lavori di Nono come La fabbrica illuminata. Davies argo- menta con questi esempi l'idea che la strumentazione preparata o quella elettrica abbiano imposto di riqualificare la nozione di notazione, e che la specificazione di proprietà e azioni fondamentali cambiano a seconda dei contesti. C'è una differenza, nota Davies tra Knobs, in cui i mezzi elettroni- ci devono essere agiti dal performer, e La fabbrica illuminata, in cui i nastri sono solo riprodotti e il performer è la sola soprano (Davies 2007, 25). C'è una differenza tra generare elettronicamente i suoni e riprodurre dei suoni elettronici già generati e registrati. Secondo Davies alcune opere non sono concepite per essere performate: ad esempio le opere di musica puramente elettronica, come

Études pathétiques di Schaeffer, devono essere semplicemente riprodotte. E ha senso pensare che altre musiche, appartenenti a contesti più pop, non sono performabili così come sono registrate. Una conseguenza di questo fatto è che anche la riproduzione, non solo la performance, si può dire più o meno accurata. La qualità della riproduzione è dipendente dall'impianto stereo e dalla qualità dell'incisione su disco o cd. Ovviamente, per un contesto “audiomaniaco”, non si parlerebbe di una riproduzione accurata se non nel caso in cui l'impianto audio è assolutamente hi-fi e l'esemplare concreto della registrazione è vicino alla matrice (controllando il numero di edizione o di serie): un mp3 in un iPod, per un audiomaniaco, è una riproduzione infedele (vedi Ashby 2010, 137-149). Al- lora, nello specifico contesto di produzione e ascolto elettronico e audiomaniaco, un'opera è estre- mamente satura di proprietà determinanti: tutte quelle che l'orecchio è capace di cogliere. (Davies 2007, 26-27). La registrazione, in questo contesto è l'opera, più che una occorrenza di essa.

Ad esempio Davies discute Linda Ferguson (1983), la quale scrive che Sergeant Pepper's dei Bea- tles non è un'opera, poiché i suoi dettagli dipendono dalla tecnologia di registrazione. Per Davies, tuttavia, il disco è riproducibile fedelmente – anzi, con il massimo della fedeltà possibile – e perma- ne identico nel tempo e nelle sue riproduzioni. Quindi Davies ribatte che è un'opera metafisica-

mente diversa da quelle per performance. In seguito affronterò la questione della registrazione, e quella intimamente connessa dell'improvvisazione registrata.

C'è però un punto in cui non sono d'accordo con Davies: per lui, ogni opera è ontologicamente una cosa autonoma. Io invece credo che non bisogni isolare gli oggetti, e invece trovarne le connessio- ni. Questo principio è conforme alla prassi critica tradizionale e il modo in cui valutiamo i pezzi musicali. Le cover rock, ad esempio, mostrano dei legami forti con gli originali, anche quando sono completamente divergenti o hanno proprietà diverse. Secondo me Davies è in torto quando dice che Jimi Hendrix crea un'altra opera rispetto a Star Spangled Banner (Davies 2007, 57-8; per una di- scussione vedi Bartel 2011, 391; Benson 2003, 157 e segg.; Bertinetto 2013c). A me piace l'atten-

zione alla diversità e al pluralismo: ma perderemmo troppo quando non riconoscessimo i legami, le citazioni, i rimandi tra i pezzi. Non coglieremmo la salienza estetica della versione di Hendrix ri- spetto all'inno americano.

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 103-110)

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