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6 La teoria dell'interdipendenza di Alperson e le obiezioni di Spade Ritorniamo all'articolo seminale di Alperson Alperson prende per buona l'analisi in due tempi della

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 41-45)

prassi musicale compiuta da Goodman; ma la prende per metterla in discussione:

Ci sono buone ragioni per dire che il compositore è già, in un senso importante, il suo esecutore o performer. Questo è il caso comune in cui un compositore siede al piano, immagina varie for- mulazioni musicali, suona effettivamente questa o quella formulazione al piano. […] Il compo- sitore pensa, suona un po’, scrive sullo spartito e, alla fine di questo scambio tra costruzione im- maginaria e la produzione di suoni udibili pubblicamente, il compositore presumibilmente deci-

de che la composizione è finita. […] Ci sono molti resoconti di compositori (Mozart e Verdi) che sono capaci di comporre musiche molto complesse nella loro testa, per così dire, senza la necessità di produrre suoni pubblicamente udibili. Tuttavia anche qui possiamo identificare una performance, vale a dire la costruzione immaginaria delle formulazioni musicali nell’orecchio della mente del compositore […]. (Alperson 1984, 19)

Alperson fa un'affermazione non banale: infatti, sostenere che il compositore compone per prove, errori e conferme, oppure che compone grazie alla propria immaginazione, equivale a sostenere che la composizione non si identifica con l'iscrizione su spartito di tali conferme o di tale immaginazio- ne. Alperson quindi asserisce che la composizione deve necessariamente essere, pubblicamente o mentalmente, udibile. Non è di poco conto: abbiamo visto come Goodman identifichi l'opera musi- cale con la classe di iscrizioni congruenti alla notazione, e in tale classe le esecuzioni udibili rap- presentano una sottoclasse. Questo è ambiguo: porta a pensare che per Goodman anche le copie dello spartito, purché stampate precisamente con tutti i segni uguali al manoscritto, sono esemplifi- cazioni che appartengono alla classe. Goodman non ritiene che l'udibilità sia un requisito necessa- rio per l'opera; Alperson sì, nonostante lasci aperta la possibilità che l'opera sia udibile pubblica- mente o immaginariamente.

Alperson inoltre espande la natura dell'opera: Goodman richiede che l'opera sia meramente nota- zionale, Alperson invece concede che si possa trattare di un abbozzo grafico o uno schema mentale, le cui nature non sono notazionali. Alperson prosegue. Non solo il compositore è già un performer, ma anche il performer è sempre un compositore. Così otteniamo la teoria dell’interdipendenza tra composizione e performance nei due sensi reciproci. Vediamo la teoria dell'interdipendenza al com- pleto:

D’altra parte, l’attività performativa sembra coinvolgere necessariamente la composizione. Una performance musicale, pubblica oppure nella mente di un individuo, implica sempre decisioni formali su come un pezzo dovrebbe suonare, p.es. decisioni sulla forma o la composizione del pezzo. Senza dubbio, è vero che il compositore può, per tramite della partitura musicale, fornire istruzioni sull’essenza e sulla struttura del pezzo, ma la notazione musicale standard non speci- fica molte decisioni circa il tempo, il fraseggio, l’enfasi e i timbri, cose che alla fin fine deter- minano come un pezzo debba suonare.(Alperson 1984, 19)

Ecco la teoria dell’interdipendenza tra composizione e performance: la composizione è già un'ese- cuzione, e l'esecuzione è un tipo di composizione.24

24 Butch Morris, che può essere stato a conoscenza dello scritto di Alperson, dichiara che “nella Conduction [il suo particolare metodo produttivo, vedi oltre] l'arte della composizione e l'immediatezza della performance diventano interdipendenti” (Morris 2007, 170).

Tale teoria ha avuto tuttavia i suoi detrattori: è stata accusata da Paul V. Spade di spingere troppo per l'indifferenza tra composizione ed esecuzione (Spade 1991). L'obiezione che avanza Spade è questa: non è sufficiente affermare che la composizione coinvolge un certo tipo di performance e che per converso la performance implica un certo tipo di composizione per dire che esse sono atti- vità interdipendenti. Secondo Spade, invece, si distingue molto bene tra composizione e performan- ce, e ha senso mantenere la distinzione netta, nonostante la composizione implichi un certo tipo di performance e la performance implichi un certo tipo di composizione. Spade scrive che, affinché ci sia interdipendenza tra composizione e performance, occorre che il loro rapporto sia reciproco: la composizione deve richiedere la performance allo stesso modo in cui la performance richiede la composizione. Spade fornisce tre argomenti per avanzare la sua obiezione:

1. Non può essere ammissibile che un compositore sia in grado di prevedere come un pezzo suoni con la stessa precisione con cui ne sarebbe capace nell'ascolto vero e proprio; non può prevederlo né con suoni pubblicamente udibili, né con suoni mentali. Perché non può preve- derlo? Perché anche se il compositore riesce a comporre con “l'orecchio interno”, c’è una grande differenza tra dire che questa immaginazione sia la performance del pezzo, e il dire che sia solo un’immaginazione della performance del pezzo. L'immaginazione può essere vivida e verosimile; ma è un'altra cosa dall'effettività. La fisicità del suono è diversa, se non per sostanza almeno per grado, dalla capacità di immaginare il suono con la mente, per quanto uno possa essere abile ad usare questa facoltà. Konitz e Hamilton, per esempio, ri- tengono che per stimolare l'orecchio interno sia necessario canticchiare le melodie (Hamil- ton 2007b, 108).

2. Spade sostiene che la performance implicata dalla composizione non sia che uno schema molto vago, al contrario delle scelte compositive implicate nella performance, le quali han- no una salienza tale da determinare il suono finale del pezzo. Ad esempio, se il compositore compone per un'orchestra a più voci, sarà impossibile per lui avere un quadro preciso e si- multaneo di tutte le voci dell'orchestra. Il compositore siede al piano, prova sulla tastiera la parte che immagina sarà per oboe, poi prova quella assegnata ai violini, la stessa cosa poi per gli ottoni, ecc. ma tutte queste parti, che saranno effettivamente eseguite simultanea- mente e con strumenti diversi, vengono provate sempre e solo al piano, una dopo l'altra. Nell'esempio, il colore timbrico che il compositore immagina essere di volta in volta diver- so, nella sua performance privata sarà sempre lo stesso. In più, la resa armonica delle diver- se parti sarà nella sua performance privata un mero susseguirsi di melodie al pianoforte, non c'è senso verticale ma solo orizzontale. Concludendo: il compositore può usare solo l'imma-

ginazione in mancanza dell'ascolto reale della performance.

3. Spade afferma che il compositore compone per prove, conferme ed errori: suona un po’, quanto prova non gli piace, torna indietro, riprova, fissa su spartito, alla luce delle nuove so- luzioni cambia quanto aveva scritto molte pagine prima, ecc. Il performer, dal canto suo, non può fare queste cose. Il performer può andare solo avanti; i suoi errori sono irreversibi- li; “provare” per il performer assume il significato di “prepararsi”, non ha il valore della possibilità logica come per il compositore.

Alperson non ha esitato a rispondere alle obiezioni che gli sono state poste da Spade (Alperson 1991). Alla prima obiezione di Spade, cioè quella che fa leva sul fatto che la performance immagi- nata non può essere considerata una vera performance, Alperson ribatte che l’importante non è che la performance sia solo immaginata o vera, ma che le decisioni a cui conduce la performance im- maginata o vera, siano effettive. Il compositore può immaginarsi o sentire pubblicamente la melo- dia eseguita da un corno francese, questo non è rilevante; ciò che è importante è che scelga effetti- vamente di costruire la sua composizione nel modo in cui ha immaginato di udire, o udito pubblica- mente. Dovessi fare io l'arbitro della contesa, qui comunque darei ragione a Spade, poiché Alperson invoca un principio che fa capo alla composizione per sostenere che non c'è differenza tra perfor- mance immaginata o reale. Io supporto Spade nell'osservazione secondo cui la performance menta- le non può essere, per grado o sostanza, come la performance pubblicamente udibile. L'immagina- zione non è il mondo fisico. Non è una riproposizione del dualismo mente/corpo, poiché l'immagi- nazione può non essere solo mentale, come quando ci immaginiamo un certo dolore; piuttosto la differenza è che l'immaginazione è gioco solipsistico, laddove invece il mondo fisico è fatto di rela- zioni, rimandi, adattamenti a situazioni, a cose e a persone.

Credo invece che Spade sia eccessivamente negativo nella sua seconda obiezione, e, per quanto possa valere, che Alperson abbia possibilità di difesa. Spade faceva notare che un compositore non starebbe eseguendo una performance del suo lavoro, quando questa fosse solo privata o mentale, poiché non riuscirebbe “anatomicamente” a suonare tutte le parti contemporaneamente, e non po- trebbe immaginare melodie, timbri o armonie che non conosce per esperienza. Benson (2003, 72) dà ragione a Spade.

Non credo però sia impossibile per un compositore colto e dotato della più fervida immaginazione riuscire a comporre immaginando il suono complessivo di più strumenti dai timbri diversi. Sono processi mentali molto complessi, ma ben descritti dalla letteratura psicologica (vedi Sloboda 1988, 186-187). Basta non credere che le qualità personali di cui un bravo compositore ha bisogno siano

qualcosa di misterioso e sovrannaturale. Non serve nemmeno avere queste qualità personali, da quando sono nati specifici ausili elettronici di audio modeling, i quali ricalcano sempre più fedel- mente timbri e suoni diversi. Né trovo implausibile che un compositore sia in grado di immaginare suoni inauditi; non è semplice dire che cosa derivi dalla memoria e cosa no, ma accade spesso che un compositore, sentendo un certo suono, lo desideri più acuto, argentino, forte, più sporco ecc. senza avere per questo un riferimento empirico preciso in mente; magari il compositore pesca da ambiti empirici lontani dalla musica, cercando somiglianze con i suoni della natura o dei contesti urbani... ma chissà se il compositore ricorda, cosa ricorda, o semplicemente immagina secondo ciò che gli piace e gli sembra più adatto (Goldoni 2012, 63 e segg.).

Riguardo alla terza obiezione, Alperson concorda con Spade: è vero che tornare indietro, eseguire pezzi nota per nota, risistemare le cose scritte in precedenza secondo coerenza, ecc. è un lusso che il compositore si può permettere, mentre non se lo può il performer. Ma sfumerei la cosa facendo notare che, per inciso, è corretto ammettere che le decisioni compositive prese dal performer non sono frutto solo del momento della performance, ma anche del periodo precedente che non è possi- bile determinare con precisione. L'esecutore può decidere “compositivamente” anche molto tempo prima della performance. Alcuni tratti esecutivi sono costruiti con pazienza in un tempo medio-lun- go: ad esempio il timbro, il tocco e l'attacco sono parametri musicali che possono essere elaborati coscientemente solo dopo una paziente confidenza con il proprio strumento.

Faccio ora una mia valutazione verdittiva, riferendomi a ciò che dirò dell'improvvisazione: l'inter- dipendenza tra composizione e esecuzione non può essere completa e uguale per ciascuna direzione verso cui si muove. Non è così che la prassi musicale occidentale tradizionale (si) pensa. L'improv- visazione, rispetto a questa prassi, appare come un'interferenza, un principio estraneo.

7 L'improvvisazione è un medio tra performance e composizione?

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 41-45)

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