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15 Le opere nel jazz e l'improvvisazione

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 120-125)

Se già nella musica classica non è motivato affermare che le proprietà in partitura, soprattutto altez- za e durata, siano le uniche proprietà essenziali o siano le più costitutive, dal momento che diciamo così solo in base ad un ideale di notazionalità che non esiste in pratica – una ragione logico-argo- mentativa – e possiamo produrre numerosi esempi in cui la partitura non determina i dettagli più importanti dell'opera – una ragione pratica fatta di controesempi – allora in altre pratiche musicali la cosa si fa ancora più evidente. Nella musica “classica” la concessione all'improvvisazione è vera- mente minima, tendente allo zero. Ma in altre prassi ci sono più libertà per l'improvvisazione. Prendiamo ad esempio il jazz, diciamo quel jazz che consiste nel prendere uno standard e improv- visare un assolo sul giro armonico – prescindo dalla differenza tra improvvisazione tematica e im- provvisazione modale.89 Goehr scrive che in questo caso la nozione di opera è fuori luogo:

Se nelle performance di musica classica aneliamo alla massima congruenza con una partitura pienamente specificata, nell'improvvisazione jazz tradizionale, dove operano nozioni molto di- verse di congruenza, i musicisti cercano i limiti della minima congruenza ai pezzi e ai temi. Nella maggior parte del jazz, l'estemporaneità è la norma, ed è solo questa caratteristica che ci impedisce la possibilità di parlare comodamente di una e della stessa opera (piuttosto che di un pezzo, un tema o una canzone) semplicemente istanziata in differenti performance. (Goehr 2007, 99-100).

Nel jazz abbiamo questi punti scomodi: 1. la partitura è solo un abbozzo, la quale esprime i temi melodici in modo rozzo e l'armonia in modo accordale, e gli esecutori possono parafrasare entram- be, melodia e armonia; 2. ogni altra indicazione, come la strumentazione, oppure indicazioni esecu- tive come i tempi, abbellimenti, agogica, dinamica, ecc. non sono incluse nei Real book o nei Fake

book, le raccolte di partiture jazz – si noti che si chiamano sia “real” che “fake” –; maggiori dettagli sembrano inclusi negli Aebersold o in altra editoria graficamente più elegante e notazionalmente più precisa, ma anche qui, rispetto alle partiture di classica, le indicazioni sono molto più scarne; 3. possiamo anche non avere le partiture, e i pezzi possono essere trasmessi, eseguiti e imparati ad orecchio o oralmente; 4. la partitura non esprime una parte saliente del pezzo, cioè l'improvvisazio-

ne; 5. l'improvvisazione non è ovviamente congruente con la partitura a livello di compitazione, ma è esteticamente congruente con l'armonia o con le azioni degli altri musicisti non solisti in termini di articolazione, pronuncia, uso delle scale, degli arpeggi, dei pattern, dei modi, ecc.

Tenendo fermi tali punti, vediamo ora se riusciamo a parlare di “opere” nel jazz secondo un model- lo ontologico che ne enuclei le proprietà essenziali; quelle proprietà che fanno diventare l'opera un oggetto persistente e ripetibile. La mia risposta sarà negativa. In questo capitolo procedo così: pri- ma espongo le ragioni di chi non vuole rinunciare alla nozione di opera nel jazz; poi comincio a dire perché questa nozione non sia necessaria – ma lascio al prossimo capitolo l'ultima parola in merito.

Young e Matheson (2000) identificano l'opera jazz con lo standard o tune: Round Midnight ad esempio. Per Young e Matheson l'opera così identificata non è che una mera consegna di istruzioni performative – un “trampolino” – e di strutture – “una cornice” – per l'improvvisazione. In ciò la nozione di opera di Young e Matheson sembra recuperare la nozione di megatype scartata da Alper- son, accomodandola all'unicità della performance determinata dal suo momento improvvisato (2000, 132). L'opera è “lasca”, per Young e Matheson; cionondimeno c'è. Ma cosa specifica l'opera, se viene vista come “lasca”? Quali sono le istruzioni che consegna al performer? Non possono es- sere quelle che riguardano la “struttura sonora”, visto che i temi sono spesso parafrasati (anche nel- l'esposizione e nella ripresa, non solo nell'improvvisazione), i voicing degli accordi sono invertiti, gli accordi stessi sostituiti, c'è l'improvvisazione, ecc. Come diceva Duke Ellington, “tutto è possi- bile, se suona bene”.

Young e Matheson dicono allora che una performance jazz è una le cui proprietà strutturali non sono completamente predeterminate, ma improvvisate. Le proprietà strutturali non sono quelle viste come essenziali dalla tradizione filosofica analitica – cioè soprattutto altezza e durata. Young e Ma- theson compongono l'elenco delle proprietà strutturali in un livello più elevato: la melodia, l’armo-

nia e la struttura del pezzo. Così Young e Matheson possono dire che tali elementi sintattici di ordi- ne più elevato chiedono un rispetto “di massima”. In quanto le proprietà strutturali sono improvvi- sate, l'improvvisare non riguarda le proprietà che Young e Matheson chiamano “espressive”. Le proprietà espressive sono: tempo, rubato, dinamica, ecc. Quindi, in contrasto con quanto ho scritto sopra a proposito dell'improvvisazione nella musica “classica”, per Young e Matheson l'improvvi- sazione che determina le proprietà espressive non è una vera improvvisazione. Io sono più tolleran- te su questo punto – e Kania (2011, 395-396) è d'accordo.

tune.90 Secondo Young e Matheson due performance jazz possono essere esempi della stessa opera

quando condividono il punto di partenza melodico, armonico e strutturale (2000, 128). In ciò l'im- provvisazione jazz non può essere spontanea, perché si basa su un punto di partenza. Non c'è per- fetta congruenza tra il suono e la notazione, nel jazz, ma c'è, secondo Young e Matheson, la con- gruenza lasca di idee sintattiche “generali” – melodia, armonia, struttura – tra la performance e il

tune. Il modello canonico (2000, 129) del jazz prevede che se una performance rispetta di massima, o più o meno, queste idee allora è una performance-di-quell'opera. La melodia che deve corrispon- dere è quella del tema, più o meno, non quella dell'improvvisazione che invece è lasciata a discre- zione del solista; l'armonia può conoscere sostituzioni e alterazioni, ma più o meno è sempre quella, così come la struttura. Per Young e Matheson non c'è solo la congruenza di massima ad una struttu- ra sonora sintattica “lasca”, ma il rispetto di alcuni riferimenti taciti, come le intenzioni e le condi- zioni contestuali: se in una terra gemella esistesse un’opera che suona uguale a Round Midnight così come è suonata da Davis, un musicista nella terra gemella eseguirebbe un’altra opera (Young e Matheson 2000, 128).91

Ma tale modello canonico non funziona, nemmeno per gli stessi autori, dal momento che molte performance non rispettano le consegne generali. Come prendere il caso di Lennie Tristano che suona All of Me (Line Up in Tristano 1956) senza accennare mai alla melodia originale? Possiamo considerarla un’esemplificazione di quell’opera solo per l’osservazione dell'armonia prestabilita dallo standard? Se sposassimo questa tesi, sosterremmo che basta l'armonia a identificare un'opera jazz, e quindi che il momento topico dell'opera jazz è l'improvvisazione sull'armonia. Ma ci sono

standard diversi i quali condividono la stessa armonia e la stessa struttura – basti pensare al blues; ciò non significa per Young e Matheson che ogni performance blues potrebbe essere indifferente- mente un token di qualsivoglia blues. Inoltre ci sono casi, come i tune di Ornette Coleman, i quali sono senza struttura armonica. In The Shape of Jazz to Come (1959) e Free Jazz (1960) le istruzioni non sono date sotto forma di armonia e melodia, ma sotto forma di motivi. Quindi l'opera jazz può fare a meno dell'armonia, e quindi tutte le performance senza armonia sono istanziazioni della stes- sa opera (lo scrive Cochrane 2000), oppure bisogna considerare i lavori di Coleman come opere con una sola performance, così come dice Alperson? La seconda ipotesi è meno ridicola, per Young e Matheson, ciononostante abbiamo l'intuizione che molte performance di Coleman si riferiscano alle stesse opere: c'è la stessa congruenza di motivi in diverse performance.

Altro caso interessante è quello di jazzisti che omettono il testo dalle canzoni tipo Tin Pan Alley, come in My Favorite Things (1961) di Coltrane. E ancora peggio è il caso di musica strumentale a

90 Young e Matheson scrivono addirittura che non è essenziale. 91 L'argomento è una ripresa da Levinson (1980).

cui vengono aggiunte le parole: sono queste occorrenze correttamente formate dello stesso tune? Ripeto, sono tutti controesempi prodotti dagli stessi autori. La loro risposta è intelligente:

Anche se il modello canonico non dà un resoconto soddisfacente di come molte performance jazz esemplificano la stessa opera, non funziona per tutti i casi. Un resoconto completo e gene- rale delle istruzioni che definiscono le opere jazz non è possibile. Variano da genere jazz a ge- nere jazz. In qualche genere, come il free jazz, le istruzioni che definiscono lo standard possono non esistere. (Young e Matheson 2000, 131)

Se il criterio è quello della verifica di conformità alle regole e dell'esame delle intenzioni e delle circostanze, occorre discernimento per riconoscere la stessa opera esemplificata in diverse perfor- mance.92 Questa tesi è simile a quella di Stephen Davies che ho discusso prima.

Quindi, concludendo, per Young e Matheson ci sono tipi diversi di opera nel jazz, a seconda dei ge- neri. Cionondimeno essi sostengono che ci sono opere nel jazz, identificate con lo standard o il

tune. Il loro argomento però mi sembra strano: hanno dimostrato che ci sono tipi diversi di produ- zione nel jazz, non che questi tipi sono “opere”.

Kania (2011, 394 e segg.) ha criticato l'articolo di Young e Matheson, innanzitutto facendo appello al principio di vincolo pragmatico dal punto di vista dei musicisti: a quali jazzisti, dopotutto, im- porta davvero se esistono “opere” nel jazz? Spesso nelle performance jazz il riconoscimento dei brani sembra più un gioco del pubblico e della critica, che un cruccio dei musicisti; spesso i musici- sti nemmeno li presentano (vedi anche Sparti 2010, 105 e segg.).

Kania vuole dimostrare che non esistono opere nel jazz. La sua argomentazione consiste di 4 punti. Il primo è la confutazione della proposta di Young e Matheson. Essi parlano di type identificato con una struttura grossolana, un’armonia e una melodia, con un orientamento regolativo. Ma, rimprove- ra Kania, è ancora un type un'opera delineata in questa maniera? La nozione di opera adottata da Young e Matheson, secondo Kania, è la nozione di opera “classica”, cioè un oggetto fisso e ripeti- bile in virtù delle regole di massima che impone alle performance. Il problema è che la tradizione più comune del jazz dà un'importanza strutturale all'improvvisazione (Kania 2011, 395), non è qualcosa di “inessenziale” come scrivono Young e Matheson: per me è difficile sostenerlo perfino della tradizione “classica” in assoluto.93 È arduo stabilire il grado di tolleranza dalle improvvisazio-

92 Anche i titoli possono aiutare. Per esempio Levinson (1985) ha sostenuto l'idea che i titoli siano proprietà costituti- ve delle opere, quasi sempre essenziali e che il modo in cui si relazionano ai rispettivi contenuti sia esteticamente ri- levante.

93 Anche se in generale c'è poco spazio all'improvvisazione nella “classica”, alcuni controesempi come L'offerta musi-

cale di Bach, opere di Stockhausen, di Maderna, ecc. dimostrano che l'improvvisazione può diventare fondamenta- le. Per Kania questi esempi non sono centrali nella tradizione; ma ciò dipende dalla considerazione della centralità di una pratica. Kania ammette che la distinzione tra proprietà strutturali e proprietà espressive non è sufficiente per negare l'improvvisazione nella “classica”, esercitata appunto sulle proprietà espressive (2011, 396).

ni della struttura melodica, armonica di un'opera jazz, secondo Kania. Pertanto, se due performance di Sophisticated Lady, una prodotta dall'orchestra di Duke Ellington e l'altra prodotta da Chick Co- rea, hanno qualcosa in comune, al di là delle differenze improvvisative, perché dovremmo giungere alla conclusione che si tratti proprio dell'opera in quanto entità astratta e ripetibile (Kania 2011, 394)? Tali differenze improvvisative, per Kania, smantellano la visione “classica” dell'opera: sono troppo rilevanti.

Né ciò che è notato nella tradizione jazz, né il mero fatto che c'è improvvisazione nella perfor- mance jazz prova che non ci sono opere durevoli nella tradizione jazz che sono istanziate nelle performance. Tuttavia il puro ammontare dell'improvvisazione in una tipica performance jazz e la centralità dell'improvvisazione nella tradizione sembra indicare che i candidati proposti per essere le opere durevoli nel jazz, gli standard, sono un aiuto per la creatività in tempo reale dei performer […] più che un'opera da essere istanziata in performance multiple […]. (Kania 2011, 396)

Il secondo punto argomentativo di Kania è smentire la visione di chi sostiene che anche se l'opera nel jazz non è qualcosa di metafisico, abbiamo ciononostante a che fare con “opere d'arte” nel jazz intese come entità per l’apprezzamento estetico – o per qualsiasi altra cosa servono le opere d’arte (2011, 397). Questa è una visione sostenuta da Alperson e Stephen Davies. Così l'opera collassa con il suo evento performativo: cioè l’opera d'arte è l’evento della performance. Kania non ha obie- zioni al fatto che nel jazz le performance siano di primaria importanza estetica; però rigetta l'idea che siano opere, poiché le opere sono entità durevoli, universali e ripetibili. Goehr sarebbe d'accor- do dal punto di vista della storia del concetto di opera. Sono d'accordo a metà con Kania: infatti, sono convinto che nel jazz non ci siano opere così come nella musica classica. Penso però che no- nostante Kania cerchi l'opera in senso classico e non la trovi nel jazz, ciononostante nel linguaggio comune chiamiamo opere d'arte anche i fuochi d'artificio, gli happening, i mandala, le improvvisa- zioni e altre cose che non hanno una certa durata. Kania dice che se l'opera è semplicemente dove cade il focus estetico, potremmo dire che anche nella “classica” l'opera (d'arte) è la performance, visto che possiamo valutarle autonomamente dall'opera-di-cui-sono-performance; ma, obietta, nella “classica” distinguiamo nettamente opera e performance. Perciò non è assolutamente necessario postulare che ciò che valutiamo esteticamente debba, in fin dei conti, essere comunque un'opera: il concetto di opera non è necessario alle arti per essere arti. Certo, dico: ma chi l'ha detto che un'ope- ra d'arte deve essere per forza durevole e ripetibile? Rispondo: solo la tradizione “classica”. Ripren- do questa mia tesi nel paragrafo successivo.

rock, le registrazioni delle performance. I dischi infatti sono oggetti durevoli, ripetibili e candidati all’apprezzamento estetico. Questa proposta ontologica però fallisce ancora laddove incontra l'este- tica: nel jazz contano le decisioni in tempo reale, e il fatto che siano registrate e conservate rovina l'apprezzamento. Manca la sorpresa. Inoltre, da un punto di vista logico, potremmo asserire che ugualmente nella musica classica il disco o lo spartito sono l'opera.94 Goehr, parlando di afferma-

zioni di questo tipo, le giudica delle riduzioni passibili di terapia psicoanalitica. Come per il fetici- smo, si prende la cosalità per il tutto. Anche qui, do ragione a Kania.

Allora, quarto punto, quali conclusioni trae Kania? Che nel jazz non ci siano opere. É una conclu- sione bizzarra? Penso di no. Nessuno ha mai dimostrato la necessità di maneggiare opere, oggetti, per etichettare come arte una certa pratica. Un’arte con solo performance non è inferiore ad un’arte con solo opere concrete stabili e ripetibili – come la scultura – o con opere e performance – come la musica classica.

Prima ho sostenuto l'idea di chiamare ogni musica “composizione”, ma non ogni composizione “opera”. L'opera infatti per me è solo quel prodotto che appartiene a una produzione soprattutto viennese e ottocentesca. La composizione invece è qualsiasi tipo di produzione musicale. “Compo- sizione” è un concetto che non fa riferimento a notazione, durata, modo di produzione, ripetibilità; non implica nessuna di queste cose. Non avrei nulla in contrario se qualcuno dicesse che Round

Midnight suonata da Monk e Round Midnight suonata da Davis sono composizioni diverse che fan-

no riferimento alla stessa composizione (lo standard). Le due cose vanno assieme, ed è quando, per timore di contraddizione, che si prende un corno piuttosto dell'altro, che l'ontologia non funziona più.

16 L'improvvisazione come opera d'arte (oggetto di apprezzamento)

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 120-125)

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