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27 Formule, cliché, modelli e materiali di riempimento

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 196-200)

La nozione di “formula”, nel contesto dell'improvvisazione, fa chiaro riferimento ai lavori di Mil- man Parry (vedi Adam Parry 1971), Albert Lord (1965) e Walter J. Ong (1986) sull'origine dei grandi testi epici. La teoria, che può essere mutuata per la musica (Tirro 1974; Gillespie 1991; Mo- lino 2005), sostiene che, in certi tipi di composizioni in cui non c'è una traccia scritta, si montano delle frasi prefissate (Mackenzie 2000). Questa è la definizione di “formula” data da Lord: “un gruppo di parole che è regolarmente impiegato sotto le stesse condizioni metriche per esprimere una data idea essenziale” (Lord 1965, 4).

Il montaggio delle formule può assumere caratteristiche cangianti, ma non del tutto: le condizioni metriche devono essere le stesse. L'uso regolare delle formule così ha una speciale valenza cogniti- va, tanto per il cantore quanto per il pubblico: aiuta l'apprendimento “a memoria” e la trasmissione del materiale orale (Turquier 2010; Sloboda 1988, 225 e segg.). La formula conosce un tipo di va- riazione molto limitato all'interno della struttura complessiva del discorso. Questa è l'improvvisa- zione formulaica, la quale si basa sulla ripetizione di un materiale frastico costruito in precedenza, limitato nella gamma di vocaboli, ma tollerante nella variazione e combinazione metrico-sintatti- che. Peters (2009, 17-19) a tal proposito parla di un deposito rottami:

traverso un processo di riappropriazione che promuove l'improvvisazione più come un mezzo di salvamento e redenzione che creazione: re-innovamento. (2009, 18)

Ryle (1976, 77) scrive che è un “mettere nuovo vino in bottiglie vecchie”.

Ritengo oltremodo riduttivo escludere, dalla categoria di improvvisazione genuina, la musica im- provvisata che fa ricorso a formule. Per esempio Bonnerave rifiuta l'improvvisazione jazz come va- riazione a partire da formule perché manca la fissità nel jazz:

Come il poeta disporrebbe di piccoli segmenti verbali, di associazioni stereotipate comparabili agli epiteti omerici, il jazzman padroneggerebbe a sufficienza delle cellule melodiche, armoni- che e ritmiche per costruire in mille possibili configurazioni delle progressioni musicali rinno- vate costantemente […]. Bisogna intendersi sul termine di formula. La formula è spesso perce- pita come una sorta di modello fisso in cui ogni occorrenza sarebbe una variazione adattata alla situazione. Ma nell'improvvisazione, cosa sarebbe un modello senza occorrenza? Forse una ri- sorsa cognitiva molto difficile da identificare; forse una chimera grafocentrista, il che mi sem- bra verosimile. È per questo, piuttosto che di variazioni su un modello, preferisco parlare di formule come di variabili continue, senza riferimento alla fissità che è […] un valore prima di tutto scritturale. (Bonnerave 2010, 94)

Le critiche di Bonnerave mi sembrano immotivate. Infatti, come scrive Mackenzie, anche nel lin- guaggio la produzione di frasi “è consentita dall'internalizzazione di un vasto numero di frasi istitu- zionalizzate, o frasi lessicali, o espressioni fissate o semi-fissate” (2000, 173). Parliamo, scriviamo e suoniamo da un serbatoio di migliaia di item interiorizzati sotto forma di “regole”. Questo mecca- nismo libera la concentrazione dalle parole specifiche, o dalle note specifiche, verso l'organizzazio- ne complessiva del discorso.

Prima usiamo pezzetti lessicali di linguaggio non analizzati, interiorizzati, prefabbricati in situa- zioni prevedibili; poi cominciamo a segmentare questi pezzetti, che servono come dati grezzi da cui percepiamo i pattern, la morfologia e le strutture grammaticali. Piuttosto di essere prodotti di regole, la maggior parte del linguaggio è acquisito lessicamente e poi demolito e riassemblato in nuove combinazioni. (Mackenzie 2000, 174)

Nell'improvvisazione jazz esistono delle regole interiorizzate simili alle regole che il cantore epico impara a memoria:

L'improvvisazione consiste negli atti simultanei di composizione e performance di una nuova opera basata su uno schema stabilito dalla tradizione – una cornice accordale chiamata “chan-

ge”. L'improvvisatore jazz lavora a partire da un repertorio standard di change derivati dalle canzoni popolari, dai riff blues, canzoni dello spettacolo e pochi pezzi “originali” jazz. Così come una melodia tonale ben costruita implica la sua armonia, questi schemi accordali implica-

no le loro melodie preesistenti. L'implicazione è specifica ad ogni punto nel progresso del pez- zo, e conseguentemente gli ascoltatori educati e sensibili sono orientati in ogni momento in re- lazione al decorso temporale del pezzo. E così è il performer, sia che stia suonando in solo o in gruppo, sia che stia suonando accordi, ritmo, melodia o contro-melodia. (Tirro 1974, 287)

Perfino nel free jazz, aggiungo, ragionare in termini di formule non è infruttuoso: se nel jazz tradi- zionale sono evidenti, nel free esse corrispondono al repertorio di procedure consolidate che il mu- sicista sa impiegare ad ogni momento della performance: effetti come suoni non temperati, vicino al rumore; arpeggi; uso delle dinamiche, degli accenti e degli attacchi...sono tutti effetti ricorsivi. Magari essi fondano uno “stile individuale” e non una tradizione; ma somigliano alla nozione di formula così come è data da Lord.

La nozione di formula, vista al negativo, diventa cliché. Per Adorno (1982; 1984; 2004b) gli im- provvisatori non fanno che restituire materiali già digeriti e assemblati; sicché la vera capacità di scoperta di questa musica è nulla. Boulez (1975)141 è d'accordo con questa visione: per Boulez l'im-

provvisatore può solo riproporre degli stanchi cliché, poiché lavora solo di memoria “orale” e non ha la possibilità di usare la carta per fissare dei punti d'appoggio stilistici per una spinta verso il progresso musicale. L'improvvisazione, soprattutto la più libera, può facilmente e rischiosamente diventare stantia e monotona, può girare intorno e non andare avanti. Quando gli automatismi di- ventano circolari e il meccanismo troppo oliato, allora l'improvvisazione si sublima in qualcosa al- tro, che ha più a che fare con un tipo di composizione performativa non-improvvisata (Peters 2009, 82; Carles e Comolli 1973, 252-253). Nell'improvvisazione jazz, il cliché si chiama lick. Konitz dà questa definizione di lick e cliché: “diventa un lick o un cliché quando non c'è più un'emozione die- tro la frase. Ma devi suonare delle cose” (Konitz in Hamilton 2007b, 104).

Uno scalino sopra alla nozione di formula, troviamo la nozione di modello (Nettl 1974, 11-12; Lor- tat-Jacob 1987 54-57): “una serie di eventi musicali obbligatori che devono essere osservati o asso- lutamente o con un certo grado di frequenza affinché il modello resti intatto” (Nettl 1974, 12). Per Turino (2008) la formula concretamente realizzata sta alla formula-modello astratto come un token sta a un type. Il modello è un pattern melodico, ritmico o armonico che è stato assimilato dal musi- cista: esso è ciò su cui si costruisce l'improvvisazione e ciò con cui si costruisce l'improvvisazione. Come sinonimo a modello, Nettl (1974, 13) parla anche di “mattoni di costruzione”.

Konitz elabora la nozione di “materiale di riempimento” (filler material), che sembra corrispondere sia a quella di formula che a quella di modello. Il materiale di riempimento è quel materiale di lick imparati a memoria, sulla base di una certa progressione dell'armonia funzionale (ad esempio una

cadenza II-V-I), i quali aiutano l'improvvisatore a congiungere le frasi in cui c'è meno controllo co- sciente. I riempimenti sono frasi il cui effetto è già sperimentato e definito per quel contesto armo- nico, mentre ciò che viene prima e ciò che segue è più “intuitivo”, secondo la terminologia di Ko- nitz (Hamilton 2007b, 104-106). Il materiale di riempimento è flessibile per quanto riguarda la to- nalità armonica e l'articolazione; ma al di là di questa flessibilità, il materiale è sempre quello: un motivo incorporato.

Improvvisatori come Barry Galbraith, James Moody e Oscar Peterson per il jazz, Danny Gatton e Johnny Hiland per il country, i guitar hero Eddie Van Halen e Guthrie Govan, Brian Setzer per il rockabilly, hanno costruito le loro carriere improvvisative su formule talmente oliate da essere cli- ché. Il materiale trito per loro diventa centrale, mentre tutto il materiale meno sicuro, meno elabo- rato, diventa al contrario riempitivo. Ascoltando le improvvisazioni di questi musicisti si nota poca insicurezza, poca “riflessione”. Nelle loro improvvisazioni non c'è quell'arresto coscienziale, quel- l'incertezza che possono essere il sintomo di questo dubbio: “cosa faccio dopo?”

Tale dubbio può mancare anche in un mostro sacro come Parker. La sicurezza di Parker non è solo la manifestazione della sua straordinaria abilità esecutiva; è anche l'effetto dell'uso sapiente di certi

lick che ritornano più volte nel corso della sua carriera (Brown 2000a, 115). Ascoltando Konitz ri- spetto a Charlier Parker – è lo stesso Konitz a instaurare questo paragone in Hamilton (2007b) –, possiamo avere l'impressione che il primo non stia riproducendo dei lick, perché non c'è la stessa tensione nelle frasi, la stessa precisione, la stessa velocità, ecc.

Non ne farei una questione di spontaneità, piuttosto distinguerei stili improvvisativi che sviluppano una narrativa oppure no. Alcuni stili sono più semplici, altri più tortuosi e cerebrali. L'uso dei moti- vi serve anche a questo: a dare una direzione netta. Come ho scritto prima, l'uso delle formule può aiutare l'improvvisatore a liberare energia cognitiva dalla scelta della grammatica e della sintassi in favore dell'organizzazione del discorso. Sloboda pensa così:

Il musicista deve possedere un repertorio di figure, e di modi di agire con esse, che può richia- mare a volontà; ma nel caso dell'improvvisazione, il fattore cruciale è la velocità a cui possono essere mantenute le invenzioni, e la disponibilità delle azioni da compiere, che non possono so- verchiare le risorse cognitive del musicista. Nella composizione la fluidità è meno importante, mentre ha maggior rilevanza avere sempre presenti le mete a lungo termine, e l'unificazione del materiale attualmente presente con quello prodotto in precedenza. […] Quel che consente al- l'improvvisatore di fare a meno di valutare quel che sta facendo, e di fare dei piani a lungo ter- mine, è la “cornice” formale relativamente rigida entro cui ha luogo la sua improvvisazione, cornice che impone la struttura più ampia alla sua esecuzione. Dato che si tratta di una cornice

che permane per molte improvvisazioni, l'esecutore si crea un repertorio di “cose che han fun- zionato bene in passato”. (Sloboda 1988, 236)

Dahlhaus (1979) ritiene addirittura che l'improvvisazione formulaica non sia interessata alla spontaneità, tende anzi a rimuoverla: le formule servono appunto a riproporre, sotto nuovi make-up, qualcosa il cui effetto è già sperimentato. La ragione, appunto, è che le cose che hanno funzionato bene, messe assieme, hanno una certa tensione al narrativo e al rituale. Nel- la performance formulaica un pezzo è considerato una piattaforma per l’interazione del grup- po piuttosto che un oggetto da riprodurre fedelmente: lo scopo estetico è quello di proporre un rituale, più che un oggetto di godimento solitario come la musica occidentale (vedi anche Turino 2009). Anche il “repertorio”, inteso come un materiale facilmente condivisibile da parte di tutto il gruppo, ha questo senso rituale (Hamilton 2007b, 200-1).

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 196-200)

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