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13 Strutture e sovrastrutture

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 110-115)

Abbiamo visto che secondo il platonismo la struttura sonora contiene soprattutto le altezze articola- te ritmicamente, più altri parametri sonori così come si scrivono in partitura; mentre, per il nomina- lismo, solo ciò che c'è di notazionale in partitura è strutturale. Alla struttura sonora, secondo Levin- son, viene poi aggiunta un'altra struttura, quella dei mezzi performativi.

Vorrei però discutere brevemente la nozione di struttura sonora. Alla luce della distinzione proposta da tra opere sottili e spesse, Davies ritiene che ciò che è la struttura sonora dipende dai contesti. I contesti danno interpretazioni diverse e permeabili tra loro per quanto riguarda la struttura sonora. Faccio quattro ipotesi di definizione della struttura sonora; come vedremo, sono tutte ampiamente discutibili. Da ciò ne concludo che, appunto, per vedere ciò che è la struttura sonora bisogna im- mergersi nell'opera stessa e capire il suo contesto di produzione e il suo tipo di ricezione.

La prima ipotesi è che ce sosteniamo che una struttura sonora è una sequenza di note determinate in altezza e durata – più eventualmente colore timbrico o strumentale –, allora la nozione si dimostra inadeguato a spiegare il significato di elementi di più alto livello, come “melodie”, “esposizione”, “movimenti”. Non si può ridurre la struttura alla sintassi, ma bisogna anche estenderla alla semanti- ca. Non c'è un minimo comun denominatore né un massimo comune divisore per l'importanza della musica. Il più piccolo livello non è sempre lo stesso in ciascun'opera, né ciascun'opera contiene gli stessi elementi di ordine più alto (Davies 2007, 47 e segg.). Inoltre, in molte opere le altezze non sono specificate, né viene specificato il ritmo. Ad esempio nel partimento (basso figurato) sono specificati solo la funzione armonica delle note, ma non le note specifiche (vedi anche Bailey 2010, 45 e segg.). In altre opere, soprattutto di musica contemporanea, le note non sono altezze, ma suoni o rumori. Anche le altezze sono relative alle culture e alle epoche: il nostro la a 440Hz non corri- sponde al la dell'epoca di Bach, né al la di Beethoven, calante di circa un semitono. E le variazioni microtonali, all'interno dell'orchestra, sono tollerate: il violino solista stona leggermente dall'accor- datura complessiva per avere più risalto.

Davies fa poi un'osservazione interessante: descrivere i suoni come altezze fa parte di un presuppo- sto culturale. Nulla vieta di descrivere le note anche come intervalli o gradi di una scala. Una de- scrizione di questo genere farebbe concludere che esista anche un altro tipo di struttura sonora? Da-

vies, così come non ama la definizione di struttura in quanto altezze articolate, non ama nemmeno di parlare di essa in quanto intervalli. Infatti non si parla di un intervallo oltre alle due ottave di dif- ferenza, poi non abbiamo più numeri cardinali. Non si parla nemmeno di intervalli micro-tonali, come il quarto di tono. Davies preferisce vedere piuttosto le note come funzioni di una scala, ma ammette che le scale musicali sono relative ai contesti culturali e, si può dire, alle scelte poetiche dei singoli compositori, i quali selezionano dal materiale disponibile le loro scale – come sa cia- scun jazzista, su un accordo di settima minore possono insistere molte scale diverse.

La seconda ipotesi. Se diciamo che la struttura è data da una melodia o da un tema, cioè da un livel- lo sintattico più alto di quello delle altezze, Davies ha una risposta pronta per noi. Ci sono casi in cui il tema è ripetuto esattamente in tutte le performance (nell'ideale della Werktreue). Ci sono altri casi in cui il tema è trasposto in un'altra tonalità da una performance all'altra (nel rock, ad esempio). Ci sono casi in cui le performance presentano solo alcuni degli elementi della prima performance (tonalità, intervalli, metro, progressione armonica, ritmo, ecc.). Ci sono casi in cui i temi esposti sono derivati ma non mantengono nessuna connessione udibile al modello (come i retrogradi). Le relazioni tra il tema originale e i temi derivati procedono lungo un continuum di casi.

Qui Davies fa l'affermazione che ho riportato sopra e non sottoscrivo (Davies 2007, 57-58): a suo avviso l'inno americano di Jimi Hendrix è una versione dell'inno, ma ontologicamente, sostiene, non fa parte delle performance dell'inno; è un occorrenza a sé stante, senza type. Questa visione è avanzata da Davies correggendo Alperson, il quale sostiene che i pezzi improvvisati siano esempli- ficazioni singole di type. Sono convinto solo a metà: va bene insistere sulla specificità, sulla diffe- renza, sulla salienza estetica di ciascuna delle performance improvvisate, ma perché non affermare, contemporaneamente, anche il legame o il riferimento di queste performance a un modello?80 Ov-

viamente, basta sostenere che né la specificità delle versioni, né la loro relazione di riferimento sia “ontologica”, ma “storico-pratico” in cui gli elementi formali corrispondenti bilanciano tutte le al- tre differenze specifiche.81

Una terza ipotesi è che la struttura sonora sia, a prescindere da altezze e durate, incompleta senza l'indicazione di tempo. Secondo Goodman, no; la sua teoria notazionale dice che il tempo può esse- re costitutivo solo se è un'indicazione di metronomo, un valore scalare, e non una parola come “an- dante” o “allegro con brio”. Per Goodman il tempo è una proprietà della performance, non dell'ope- ra. Però Davies obietta: il tempo è invece influente per la nostra percezione dell'opera. Infatti, se pensiamo di eseguire un'opera per un anno intero, al rallentatore, sarà impossibile per l'ascoltatore

80 Questa tesi è invece avanzata da Young e Matheson, vedi sotto; e da Bartel (2011).

81 Benson (2003, 61) fa un esempio analogo con le ouverture “Leonore” del Fidelio, di cui ne esistono 4 versioni: contano come opere diverse o come la stessa opera?

cogliere la struttura dell'opera. (Davies 2007, 59)

La quarta ipotesi è quella della struttura sonora come indicazione con o senza la strumentazione. Il platonismo si è spaccato su questo punto. Alcuni, riprendendo Webster (1974), dicono che la strut- tura sonora è “puro sonicismo” senza timbro o colore strumentale. Kivy e Dodd, abbiamo visto, sono sostenitori di questa idea. Per questi Webster, Kivy e Dodd un pezzo rimane lo stesso anche se viene riarrangiato con altri strumenti. Essi considerano la scelta degli strumenti come una caratteri- stica performativa. Il loro assunto è confermato dalla prassi di composizione delle opere fino al ba- rocco o delle opere di matrice pop – a proposito delle quali Goehr negherebbe siano opere, e come lei anche io. In queste pratiche la strumentazione non è specificata: un sintomo della non-necessità dell'indicazione strumentale. Altri, come Levinson, considerano l'indicazione dei mezzi performati- vi come un lato essenziale della struttura sonora, qualsiasi sia la prassi in cui sta l'opera. Tuttavia, secondo Davies, gli argomenti contro l'essenzialità delle indicazioni performative non sono decisivi (2007, 60 e segg.). È possibile, infatti, che gli strumenti non siano indicati perché i pezzi sono stati scritti per destinatari che il compositore conosceva bene: un ensemble specifico, per un contesto specifico o per una pratica performativa specifica; oppure, anche se gli strumenti non sono determi- nati per essere lasciati a discrezione del performer, ciò non significa che la strumentazione sia irri- levante. Il compositore scriveva avendo un certo strumento in mente: sarebbe un non senso scrivere “pizzicato” per uno che non suoni il violino ma l'oboe, così come scrive anche Levinson.

Questo è il punto: nel normale corso degli eventi, i compositori fanno affidamento a dei musici- sti per l'esecuzione dei loro lavori. Anche se le prime notazioni spesso sembrano spoglie, le par- titure dei compositori non sono intese come raffigurazioni di strutture sonore astratte. Invece, esse sono offerte come istruzioni su ciò che deve essere suonato e come farlo. Questo è anche il modo in cui sono interpretate dai performer, che si aspettano istruzioni su cosa fare con gli stru- menti che hanno imparato. La musica è sempre stata completamente pratica e pragmatica in queste cose. (Davies 2007, 63)

La trascrizione per piano della Quinta Sinfonia di Beethoven, effettuata da Liszt, è per Davies non identica alla sinfonia, in un senso ovvio e banale. É un pezzo in sé, anche se legato intimamente alla sua fonte per altri aspetti strutturali che sono più importanti dell'orchestrazione. A mio avviso, invece – ed è la mia costante critica a Davies – benché sia necessario operare dei distinguo anche a seconda delle orchestrazioni previste dai compositori, non è possibile separare per via ontologica le cose; lo si può fare solo per via storico-pratica-contestuale. La trascrizione di Liszt sarà anche un'altra opera, avrà un diverso autore, in un diverso contesto – il che comporta anche l'assegnazione di diverse royalties – ma non conta forse come una trascrizione di qualcos'altro, più che come altra

opera? Ci sono dei legami formali evidenti, delle concatenazioni storiche ineliminabili, delle dipen- denze estetiche, ecc. Oltre al sonicismo puro di Webster, Kivy e Dodd c'è poi un'altra posizione sul- la strumentazione: il sonicismo timbrico, per cui è essenziale il timbro, ma non la strumentazione. In pratica conta il risultato, non i mezzi. Questa potrebbe essere la posizione di Scruton (2009, 1- 79). Secondo Scruton, infatti, ascoltiamo i suoni solo percettivamente, cioè attribuendo loro solo proprietà estetiche manifeste. Tutto ciò che è oltre alla cortina percettiva, ad esempio la causa mate- riale dei suoni, per Scruton sarebbe di disturbo all'apprezzamento estetico della musica. Ma, secon- do Davies (2007, 64), questo non è il modo in cui ascoltiamo la musica. Né è il modo in cui i musi- cisti pensano alla loro attività. Il punto non è che abbiamo difficoltà a separare i suoni dalle cause. Ma che le pratiche musicali comportano delle connessioni che in certi casi sono contingenti, in altri hanno uno status diverso, normativo o regolativo: in alcuni casi il merito tecnico è valutato tanto quanto l'impressione percettiva. E credo che Davies abbia ragione: nella performance, valutiamo anche gli elementi più teatrali, più tecnici e, perché no, più virtuosi. Se non vedessimo Barry Guy o Cecil Taylor mentre li ascoltiamo suonare, non sarebbe la stessa cosa. La posizione di Davies è in- teressante anche perché egli non è un convinto strumentalista come Levinson. Per chiarire la sua posizione, Davies dice che spesso non abbiamo conoscenza della produzione sonora, e spesso ci sbagliamo credendo che a certi suoni corrispondono certe azioni. Oltre a ciò in molti casi la pratica sostituisce lo strumento indicato dal compositore con un altro. Non ci sono sanzioni estetiche con- tro questa prassi. A meno che non si tratti di una performance secondo i canoni di Werktreue (Da- vies 2007, 67). Una proposta di fedeltà siffatta arriva da Levinson. Levinson sembra avere in mente un concetto di struttura sonora orientata esclusivamente sul compositore. In ciò concede poca atten- zione alle “convenzioni sociali della produzione musicale e gli effetti che esse hanno nel porre limi- ti su ciò che possono determinare le intenzioni e le istruzioni dei compositore” (Davies 2007, 68). Cosa e quanto il compositore è capace di controllare dipende dalle convenzioni del suo tempo. Al- lora, seguendo il ragionamento di Levinson, una performance con strumenti coevi sarebbe più au- tentica di un'altra con strumenti contemporanei? Per Davies questa sarebbe una condizione troppo esclusiva, tipica di un solo modo di eseguire. Gli ideali della Werktreue impongono, per congruenza storica, che la performance sia eseguita con strumenti coevi; ma che senso ha? Credo sia piuttosto un bisogno feticistico. Negli ultimi 200 anni l'evoluzione tecnologica degli strumenti è relativamen- te modesta. Per di più la strumentazione è talmente ampia e varia che gli stessi compositori poteva- no, a loro tempo, tollerare un ampia gamma di strumenti. Già Mozart, ad esempio, nell'indicare una certa voce orchestrale come “clarinetti” si aspettava che al loro posto suonassero oboi e flauti – un'eccezione molto all'avanguardia per il suo tempo è stata la composizione del Concerto per clari-

Quindi è generalmente difficile sostenere la tesi della necessità dell'indicazione strumentale nella composizione, poiché questa necessità viene mitigata dalle esecuzioni concrete della musica che ri- spettano perfino fedelmente il contesto produttivo coevo ai compositori (Davies 1991).

Concludendo, la definizione di “struttura sonora” è estremamente insicura. Ogni tentativo definito- rio non regge a un esame storico critico che produce esempi non conformi alla definizione. Un'ope- razione di confutazione di questo genere è messa in atto da Davies, e mi sembra estremamente inte- ressante e assolutamente difendibile. L'obiettivo argomentativo del suo lavoro è questo: il concetto

di opera è storico; quindi ciò che è la spina dorsale di un'opera – la struttura sonora – dipende sia da ciò che veicola l'opera stessa – le istruzioni – sia dal suo contesto di produzione che da quello in cui si trovano situati i suoi ascoltatori (Davies 2007, 94).

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 110-115)

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