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24 L'improvvisazione è spontanea?

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 178-183)

L'appello alla spontaneità sembra obbligatorio per molti filosofi dell'improvvisazione: Alperson (1984), Nachmanovitch (1990), Benson (2003, 133), Hamilton (2007b); Gioia (2007, 47), Sawyer (2000), Rothenberg (2001), Pétard (2010).

Cosa vuol dire essere spontanei? Mi pare di capire che la spontaneità abbia almeno due significati strettamente legati: 1. il soggetto “spontaneo” non è costretto da altri a fare ciò che fa; è sincero e conduce la sua azione senza ipocrisie né inibizione; 2. il soggetto “spontaneo” non ha esempi da imitare o antecedenti da emulare; parla, agisce e fa musica a partire da se stesso.

Il problema della spontaneità, quindi, mi pare che sia un doppio problema. Nella letteratura però viene di solito trattato come fosse uno solo. Sostengo che il primo significato di “spontaneo” possa essere un buon ideale regolativo: ci dice come dovremmo affrontare la produzione musicale. Tutta- via concordo con chi afferma che il secondo significato sia illusorio (Benson 2003, 137; Sparti 2010, 10; Hamilton 2000, 182 e segg.). Una tesi che propongo è che la spontaneità come auto-poie- si individuale e indipendente sia uno stereotipo che la critica dell'improvvisazione abbia ripreso di- rettamente dall'ideologia romantica. Tale ideologia emerge fin dal suo precursore, Beethoven: “po- treste chiedermi da dove ottengo le idee (per un tema). Non posso rispondervi con certezza: mi giungono spontaneamente” (in Sloboda 1988, 189).

Mi interessa di più esaminare la spontaneità nel primo significato, in modo tale da confutarne il se- condo. Nel primo significato la spontaneità significa “voglia di lanciarsi, senza paure”. Sparti ritie-

ne che più che alla creatività individuale, l'improvvisazione “è invece legata alla paura, alla paura dei luoghi privi di marcatori, timore dell'ignoto, terrore del non previsto, imbarazzo del fallimento, rischio del ridicolo” (2010, 51).

La rimozione degli ostacoli emotivi per questo scopo è ottenibile mediante la pratica (Niesenson 2000, 9). Uno più sale sul palco più si abitua a non lasciarsi intimorire, e più non si lascia intimori- re e più si sente sicuro di fare ciò che fa. E più uno si sente sicuro, più sarà facile che non si intimo- risca (Sparti 2010, 51). La sicurezza viene fuori anche dal bagaglio di frasi, lick o cliché di cui cia- scun musicista è verosimilmente provvisto. Quando uno sa che può contare su un materiale i cui ef- fetti sono già stati collaudati, può affrontare il palco con meno timore. Ovviamente per costruire tale repertorio ci vuole molto tempo e molto impegno.

Alla fine il bagaglio di ciascuno può risultare, nella sua combinazione, estremamente personale, qualcosa definibile come “stile”,129 anche quando i debiti con gli altri musicisti o con la tradizione

sono già stati saldati.

Per quanto strano possa sembrare, il musicista che è più preparato – non solo per aver pensato a cosa suonare ma anche per aver suonato varie possibilità – è il più capace di essere spontaneo. È quando uno è già preparato che si sente libero di andare oltre i confini del preparato (con l'assi- curazione che uno può sempre tornare indietro ad essi). (Benson 2003, 142-143)

Per rendersi conto di queste dinamiche, basta compiere un ascolto comparativo dello stesso brano dello stesso artista, in un lasso di tempo relativamente breve. Penso sia comune l'esperienza: una delusione. Ascoltando i grandi improvvisatori come Coltrane abbiamo l'impressione che la musica sia, come dicono molti filosofi e musicologi, assolutamente spontanea e originale. Poi capita che ascoltiamo una seconda versione dell'improvvisazione; di solito, la variazione dal primo ascolto non è così ampia come ci saremmo aspettati da una musica assolutamente spontanea e originale. Sarebbe divertente fare l'ascolto comparativo e la trascrizione di My Favorite Things dal 1961 (al- bum) alle registrazioni live del '63 a Newport, del 65 all'Half Note, del '66 al Village Vanguard e del'66 in Giappone. Non cambia molto: alcune frasi, alcune connessioni tra esse, alcuni suoni...ma il bagaglio resta sempre quello, straordinario. Certe volte cambia l'energia: cambia la situazione. Non è solo la combinazione della preparazione a rendere “spontanea” l'improvvisazione. È anche la combinazione della preparazione con la situazione.

Ben diversamente, se si analizza l'acquisizione dell'habitus jazzistico, si scopre che la spontanei- tà è frutto di un lungo tirocinio di tipo relazionale, che ha iscritto un sapere (e un saper fare) nel

129 La nozione di “stile” è del tutto dipendente dall'iscrizione, su carta o sul sistema nervo-motorio di impressioni esterne. Lo “stile” rimanda allo stylus latino. Vedi Goldoni (2012; 2013)

corpo del musicista. (Sparti 2010, 10)

Pensa solo alla compiaciuta confidenza del virtuoso con una tecnica scintillante sulla superficie di forme estetiche che sono assunte, riesumate e consumate come pezzi prefabbricati di un capi- tale culturale performativo, sempre pronte ad essere dominate ripetutamente dal maestro. O pensa al dubbio automatismo che è troppo facile e troppo spesso promosso come una forza qua- si spirituale che sgorga dalle vene dell'improvvisatore, senza riguardo per il modo in cui l'auto- matico è, in verità, il prodotto dell'educazione, dell'apprendimento meccanico, e dell'assoluto radicamento nel dato, al punto che diventa dimenticanza di esso. Pensa anche alla comunità co- municativa che sorge sia entro che attorno al mondo dell'improvvisazione, una comunità piena della sua comunanza e della sua comunicabilità, traboccante di un'apertura dialogica all'altro che è concepibile solo come tacita assunzione che quest'alterità è sempre ridotta all'identico. (Peters 2009, 118)

Sotto la luce dei riflettori, la preparazione è condizionante, soprattutto per la self-confiance del mu- sicista. Ma il condizionamento non è totale; non c'è determinismo. Steve Lacy (in Weiss 2006, 51) dichiara: “quando vai fuori e hai i tuoi anni di preparazione e tutte le tue sensibilità e i tuoi mezzi preparati, ma è un salto nell'ignoto”. Konitz ammette: “lo faccio a modo mio, ma è il mio modo di di preparazione – non essere preparato. E questo richiede un sacco di preparazione!” (in Hamilton 2007b, 110). Rollins: “Il modo in cui preparo è mantenermi in buona forma. I tuoi mezzi devono essere forti. Dopodiché dipende da te o dagli elementi o da chissà che far venir fuori la musica. Ma la mia preparazione arriva fin lì” (in Niesenson 2000, 9).

Lee Konitz, a colloquio con il filosofo Andy Hamilton, sostiene la tesi dell'intuizionismo. Per Koni- tz la spontaneità è una forma di intuizionismo. Clare Fischer ricorda che Konitz una volta abbia aspettato 27 misure prima di cominciare l'improvvisazione: aspettava l'intuizione giusta (Hamilton 2007b, 66). Con questa aneddoto, si vuole mostrare che Konitz somigli a un artista “romantico”, il quale di solito aspetta di lasciarsi rapire dal concetto oscuro di “ispirazione”. Ma Konitz riabilita il concetto di intuizione con l'ammissione che essa sia il frutto di un impegno quotidiano. Bisogna es- sere molto preparati per non essere preparati sul palco.

“Intuitivo” significa che non hai veramente un piano – cominci a suonare, e con intensa concen- trazione metti una nota dopo l'altra. Voglio fare chiarezza nel mio approccio a questa musica. Poiché certe volte è imbarazzante per me ammetterlo, ma di solito non ho un piano. È diventato così abituale, penso, prendere il mio strumento ogni giorno e cominciare a suonare. E il processo di suonare suggerisce le cose, e procedo da qui. (Hamilton 2007b, 30)

L'intuizionismo, quindi, può essere relativo a come si affronta giorno per giorno la pratica musica- le. Non è un momento di pura spontaneità, in cui il soggetto che improvvisa è lasciato agire in as-

senza completa di vincoli, strutture, contesti, stili. Questa sarebbe una visione molto stereotipata e falsamente ideologica di come si svolge l'arte. Ci possiamo banalmente chiedere, “dove sta l'intel- letto nei momenti di ispirazione?” (Gioia 2007, 46-47). Berliner scrive: “le definizioni popolari del- l'improvvisazione che enfatizzano unilateralmente la sua natura spontanea e intuitiva – caratteriz- zandola come un «creare dal nulla» sono incredibilmente incomplete” (1994, 492).

Sonny Rollins, d'accordo con Konitz, dichiara la sua contrarietà all'improvvisazione preparata, in cui il solo è completamente preparato prima; tuttavia ammette il “precedente” in ogni improvvisa- zione:

C'è una differenza tra la competenza e suonare a un livello oltre la competenza (in Nie- senson 2000, 81).

Impari l'armonia e tutta quella roba, e poi la spingi in fondo alla tua mente quando suoni perché devi essere spontaneo. Devi solo digerire tutta quella roba così verrà fuori intuitivamente e spontaneamente. (in Niesenson 2000, 134)

Tutti hanno certi lick che possono suonare talvolta, ma la musica accade così rapidamente, così veloce che appena interrompo il treno dei miei pensieri per provare e ricordare cosa suonare in un certo momento, il momento è passato. Così provo a tenere la mia mente sgombra. All'occa- sione un lick mi entra, ma il 95% del tempo sto solo suonando cosa mi viene in mente, ma non ci sto pensando. Faccio pratica a casa per trovare la struttura del pezzo, e dopo la voglio dimen- ticare quando suono sul palco. Non voglio stare in uno stato attivo di pensiero su cosa suonare dopo – non funziona. (Rollins in Hamilton 2007b, 95)130

Rollins confessa una differenza tra una conoscenza tacita e una conoscenza esplicita, oppure tra memoria procedurale e memoria esplicita. Ma il fatto che la coscienza esplicita possa, normativa- mente ed esteticamente,131 mancare, non equivale a dichiarare il vuoto pneumatico nella coscienza

– altrimenti come facciamo a dire, come Alperson, che l'improvvisazione apre la mente del compo- sitore all'analisi critica?132 Vedo ingenuità in affermazioni come quella di Doc Cheatham: “Quando

suono un assolo, non so mai cosa andrò a suonare più di quanto lo sai te” (Berliner 1994, 2). Postu- lare questo vuoto è un'ingenuità del concetto di improvvisazione musicale. Che ci sia una mancan- za di controllo cosciente può essere vero, ma non può essere vero invece che manchi la presenza mentale. La coscienza non serve solo a controllare ciò che facciamo; la coscienza è anche ciò che porta a emergenza, nell'improvvisazione, quanto portiamo iscritto nella memoria, compresa quella muscolare. La coscienza guida le nostre utterances, prodotte sul momento, in accordo con il nostro

130Vedi anche Hamilton (2007b, 102 e segg.).

131 Cioè la conoscenza esplicita può essere: 1. un tabù normativo dato dalla pratica o 2. la minaccia di una secca da ri- fuggire al fine di improvvisare buona musica.

gusto. Quando intavoliamo una discussione, senza esserci preparati prima, improvvisiamo gli argo- menti, la sintassi, il vocabolario...ma conosciamo già la lingua in cui ci esprimiamo. Verosimilmen- te abbiamo già dei pregiudizi su ciò che andiamo a dire, siano essi consci o subconsci. L'improvvi- sazione ci può anche educare a portare alla coscienza ciò che è latente, così da sottoporlo (possibil- mente) a critica. Prati scrive:

L'azione improvvisativa agisce nei confronti di un soggetto terzo e non certo di chi la compie, altrimenti sarebbe come dire che chi compie l'azione non si rende conto di cosa stia facendo, agendo così in modo slegato dai propri processi mentali. Questo non appare possibile nemmeno nel caso in cui il musicista si creda “trascinato” dall'impeto creativo. In questo senso rimarco la certezza che ciò che viene generato dall'immaginazione è già residente nell'esperienza stessa, magari non in modo razionale o cosciente rispetto all'istante, ma comunque presente come po- tenziale, con possibilità di incremento grazie a un'azione razionale e perseguita nel tempo. (Prati 2010, 15-16)

Perché allora critica e musicisti credono nella spontaneità come forma di ispirazione di stampo ro- mantico? La spiegazione che mi do è che questa sia una funzione “difensiva” dell'improvvisazione. Come forma di produzione artistica, l'improvvisazione è stata accusata di essere inferiore rispetto all'arte “composta” dalla critica tradizionale occidentale. Perciò, per rivendicare un posto uguale alla composizione scritta, l'improvvisazione si è appropriata del suo apparato concettuale. Vediamo questo esempio. Ornette Coleman ha sviluppato una tecnica di improvvisazione che ha chiamato “armolodica”(vedi Gioia 2007, 51-61; Hamilton 2007a, 206). Il concetto di improvvisazione “ar- molodica” non è per niente chiaro; questa è la definizione apparsa dapprima in Downbeat e poi in tutti i saggi sull'argomento, e addirittura in Wikipedia:

L'armolodia è l'uso dell'aspetto fisico e mentale della propria logica sotto forma di espressione sonora con il fine di generare la sensazione musicale di unisono eseguita da un singolo o da un gruppo. (citato da Gioia 2007, 60)

Coleman ha elaborato una ricca ideologia della creazione artistica, piena di concetti come l'ispira- zione, ma usati in modo poco comprensibile. Il suo intento, secondo Gioia, è stato quello di scac- ciare di dosso l'accusa di essere un musicista che non sapeva suonare o che suonava anti-jazz. Cole- man ha scritto il proprio manifesto per una funzione, appunto, difensiva. Nonostante l'impaccio teorico, la musica di Coleman – e quella di Jamaladeem Tacuma e James Blood Ulmer – fa parte di un sistema teorico serio, non è certo l'opera di un ciarlatano. Ma è il linguaggio impiegato a essere fuori contesto.

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 178-183)

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