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24.1 oppure è vincolata?

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 183-188)

Alperson ritiene fondamentale distinguere la spontaneità dalla creatio ex nihilo:

Possiamo partecipare al disegno di una struttura sonora improvvisata e sperare di scoprire lo stesso genere di unità formale e di qualità regionali che spereremmo di trovare manifeste in ogni opera musicale convenzionale. Possiamo anche apprezzare l'uso creativo di materiali musicali presi da altre tradizioni. Questo punto è spesso perso di vista, forse perché l'evidente spontaneità dell'improvvisazione incoraggia l'impressione che qualcosa viene creato dal nulla. La verità, certo, è che anche il più libero improvvisatore, lungi dal creare ex nihilo, improvvisa su un qual- che tipo di contesto musicale. (Alperson 1984, 21-22)

È il contesto per Alperson a trasmettere tutte quelle formule, quei materiali, quelle procedure stan- dardizzate che, agli occhi di un formalista, sembrano stanche, ritrite e monotone. Per Adorno, un immanentista “dialettico” e consapevole dell'azione dell'industria culturale, le costruzioni frastiche “riprese” costituiscono una seduzione operata a fini commerciali:

Gli elementi nel jazz in cui sembra sia presente l’immediatezza, i presunti momenti improvvisa- ti, fra cui la sincope è menzionata come forma elementare, sono aggiunti, nella loro vuota routi- ne imparata a memoria, allo standardizzato carattere di merce, rendendolo ancora più standar- dizzato al fine di mascherarlo, senza però mai avere potere su di esso, neanche per un secondo. Attraverso le sue intenzioni, siano esse il richiamo ad uno “stile” elevato, o siano anche quelle della spontaneità individuale, il jazz vuole migliorare il suo mercato, e veicolare il proprio carat- tere di merce che, coerentemente con una delle fondamentali contraddizioni del sistema, mette- rebbe a rischio il successo se apparisse sul mercato non camuffato. (Adorno 1982, 78)

Dahlhaus, che ha studiato con Adorno, aggiunge:

Sarebbe tuttavia discutibile comprendere la spontaneità – o solo la sua apparenza estetica, poi- ché alla fine è questo che importa – come il principale criterio di definizione, poiché l’originali- tà e la novità, che sono legate al concetto di spontaneità nell’estetica del XIX e XX secolo, en- trano in contraddizione con delle caratteristiche proprie a tutte quelle pratiche che si lasciano difficilmente escludere dal concetto di improvvisazione: ad esempio, il ricorso a dei modelli o l’utilizzo di formule. (Dahlhaus 1979, 10)

Il timore del cliché è ciò che Brown (2000a, 113) chiama “lamenti formalisti”. La musica improvvi- sata, per i formalisti, è confusa, disorganizzata, disunita, dispersiva, vernacolare. Essa non si co- struisce certo come un “pensiero musicale” (Dahlhaus), ma come un soverchiamento dei mezzi mu- sicali espressivi – intensità, timbro, colore, i gesti – sul pensiero musicale stesso. A una forma fatta di formule, si rimprovera quindi di essere senza “contenuto” musicale. Adorno scrive:

Anche la tanto invocata improvvisazione, i passaggi hot e i break, hanno un significato mera- mente ornamentale, e mai uno costruttivo o determinante per la forma. Non solamente per la loro posizione assegnata in maniera stereotipa verso le battute finali del pezzo; non solamente per la loro durata e per la loro struttura armonica come effetti dominanti già completamente pre- determinati; anche la loro forma melodica e il loro potenziale combinatorio si basano su un mi- nimo di forme base: possono essere ricondotte a parafrasi della cadenza, del contrappunto figu- rato armonico. (Adorno 1982, 82-83)

Gioia (2007, 81-84) elabora una teoria interessante sulla “forma”: se per la musica “classica” la for- ma è il disegno iniziale, o ciò che Dahlhaus chiama “pensiero musicale”, cui il decorso musicale deve corrispondere, per la musica improvvisata la “forma” è una visione retrospettiva per cui il mu- sicista inizia a improvvisare quasi “a caso”, e l'azione deve accordarsi in modo estetico – cioè se- condo unità, coerenza, contrasto, ecc. – a ciò che precede (vedi anche Goldoni 2013, 143). Sloboda (1988, 221 e segg.) conferma dal punto di vista cognitivo: “[l'improvvisatore] si può appoggiare ai vincoli propri della forma, nonché al suo «stile», per giungere a un'unitarietà musicale” (1988, 221).

Brown ha rafforzato la proposta di Gioia. La visione retrospettiva deve essere declinata secondo tre parametri: 1. situazione; 2. scelta forzata; 3. no script. Il primo parametro dice che il musicista im- provvisatore è situato e non può cancellare ciò che è venuto prima, come può fare invece il compo- sitore. Il secondo parametro dice che l'improvvisatore non può prendersi una pausa e non suonare;

deve suonare qualcosa. Il terzo parametro dice che l'improvvisatore non può seguire la direzione consegnata da una partitura.

Mettendo insieme i tre parametri, l'improvvisatore si trova continuamente ad affrontare delle de- cisioni che sono forzate su di lui, non prescritte per lui, e non emendabili una volta fatte. […] Deve produrre risposte sul momento a qualcosa di inalterabile, soprattutto la musica già fatta; e le sue risposte forzano continuamente le scelte ulteriori. (Brown 2000a, 114)

Sicché il vincolo posto sull'improvvisatore non è qualcosa di deterministico. Anzi, l'improvvisatore è chiamato al rispetto a dei vincoli auto-imposti, cioè a quelli che egli valuta degni. Berkowitz (2010) propone una divisione dei vincoli che guidano l'improvvisazione: da una parte ci sono i vin- coli psicologici e fisici del musicista (ad esempio il tempo ristretto), dall'altra i vincoli culturali rap- presentati dallo “stile”. In entrambi i casi i vincoli sono scelti, non subiti.

Pertanto i vincoli non stabiliscono i confini entro i quali si deve tenere l'improvvisazione; rendono invece possibile l'improvvisazione, perché se non ci fosse qualcosa come un vincolo non sapremmo mai su cosa l'improvvisazione agisce. Cavell è d'accordo, e scrive che “è entro contesti pienamente

definiti da formule condivise che la possibilità di una piena, esplicita improvvisazione esiste tradi- zionalmente” (1976, 201). Il contesto in cui esiste la massima condivisione di formule, in cui tutto sembra prevedibile, è quello che evidenzia con tratto maggiore ogni imprevisto dalle formule. Quando si conosce il contesto e si sa come gestire, con una formula, il discorso musicale, allora ac- cade che “l'intera impresa dell'azione e della comunicazione è diventata problematica” (Cavell 1976, 201). L'improvvisazione è un modo per risolvere questo problema.

Ora, se prendiamo l'esempio del cosiddetto “free jazz” […] ci sono relativamente pochi “mate- riali” e “norme”. […] Ma chiaramente la maggior parte dei musicisti jazz opera con qualche tipo di vincolo, qualche tipo di cornice – ancorché lasca, ancorché soggetta a cambiamento, an- corché tacita – che fornisce le linee per i colori jazz. In qualche forma di jazz (come quella nata a New Orleans), questa cornice è comparativamente rigida. Ma anche nei tipi di jazz più “aper- ti” questa cornice non è mancante: può essere una tipica forma in 32 battute, una forma blues standard, una collezione di motivi musicali, o semplicemente un accordo verbale precedente. (Benson 2003, 135)

Nel free jazz la libertà non è qualcosa del tipo: anything goes. È piuttosto la libertà di scegliersi, da soli, i propri vincoli, di solito in relazione a ciò che accade nella musica. “I vincoli possono essere magnificamente liberatori”, scrive Benson (2003, 50). I materiali che mettiamo dentro alla “memo- ria muscolare”, e che richiamiamo all'occasione giusta, possono avere flessibilità tale da restituire loro una freschezza (Konitz in Hamilton 2007b, 109). Secondo Small “l'artista manipola materiali che sono stati ricevuti dall'idioma attraverso un'immersione prolungata, al punto che diventa parte della sua propria natura” (1998b, 298-299). Ma questa è solo una faccia della medaglia. La restitu- zione mnemonica di pattern incorporati, dopo ore di studio nei muscoli e nel cervello, può essere altrettanto “liberatoria” o fresca della prima nota mai suonata. I meccanismi rodati, le consuetudini muscolari e le attitudini diventano anche una barriera da abbattere se presi in quanto tali. La secon- da natura, rappresentata dalla cristallizzazione degli automatismi, può essere oggetto di riflessione cosciente: ci si accorge del pattern, e coscientemente lo si cambia. Ovviamente, sto facendo que- stione del grado di consapevolezza necessario (Johnson-Laird 1991; 2002).

I cliché non inibiscono e non rappresentano il contrario dell'improvvisazione: la rendono possibile. L'improvvisazione è il non fisso del fisso. Cardew, dal suo punto di vista di improvvisatore free, conferma:

“Qual è l'importanza del contesto naturale [dove viene prodotta la musica]? Esso fornisce una partitura che i musicisti interpretano inconsciamente, una partitura la cui esistenza è inseparabile da quella della musica che da essa è accompagnata e sostenuta” (in Bailey 2010, 145)

Ritornando ad Adorno, egli – se l'avesse intesa così – la chiamerebbe il non-identico.

Invece di usare un grimaldello critico contro l'improvvisazione, come fa Adorno, è forse più co- struttivo considerare come l'improvvisatore è capace di occupare strutture fisse particolari, pre- stare attenzione alla loro fissità e alla contingenza della loro origine, e allo stesso tempo model- larle in un'opera d'arte di vera intensità comunicativa ed espressiva. (Peters 2009, 97)

È un’autocritica dell’improvvisazione, ma in senso decostruttivo. Derrida (1967) sarebbe d'accordo nell'affermare che l'improvvisazione esprime un desiderio per lo spontaneo e l’impromptu, ma allo

stesso tempo essa afferma la rete di strutture che sembra prevenire e proteggere. È possibile conce- pire un tipo di improvvisazione che è coscientemente situato entro la rete che sembra asfissiarlo. Per Derrida la presenza si dà solo come differimento (différance) temporale tra segni che rimanda- no l'un l'altro.

La tesi della filosofia derridiana è questa: il cortocircuito tra coscienza, parola orale e significato produce l'illusione di una presenza immediata del significato nel pensiero, quando invece il modo in cui un significato si dà alla coscienza è giocoforza mediato da segni di natura diversa, cioè “scritti” o “iscritti” nel corpo.

Se “scrittura” significa iscrizione e da principio istituzione durevole di un segno (e que- sto è il solo livello irriducibile del concetto di scrittura), la scrittura in generale copre tutto il campo dei segni linguistici. In questo campo può apparire in seguito una certa specie di signifi- canti istituiti, “grafici” al senso stretto e derivato di questa parola, regolati da un certo rapporto ad altri significanti istituiti, dunque “scritti” anche se sono “fonici”. (Derrida 1967, 65)

Questo è il motivo per cui essere scettici verso la spontaneità: “l'improvvisazione non può esternare la singolarità di una voce espressiva, superando le influenze di mediazione dei piani strutturali, de- gli idiomi stabiliti, degli spartiti musicali, o della "scrittura" in un senso molto generale (come ela- borato in De la Grammatologie)” (Gallope in corso di stampa).133

Lo scetticismo di Derrida nei confronti dell'improvvisazione non è altro che la riaffermazione dei vincoli ineliminabili posti sull'improvvisazione stessa. In un'intervista non pubblicata, Derrida af- ferma:

Non è facile improvvisare, è la cosa più difficile da fare ... uno ventriloqua o lascia un altro a parlare al proprio posto gli schemi e i linguaggi che sono già lì. Ci sono già un gran numero di prescrizioni che vengono prescritte nella nostra memoria e nella nostra cultura ... Uno non può dire ciò che vuole, si è costretti più o meno di riprodurre il discorso stereotipato. E così credo nella improvvisazione e combatto per l'improvvisazione. Ma sempre con la convinzione che è

impossibile ... io sono cieco a me stesso ...(citato in Ramshaw 2006, 8).

Derrida ha provato anche a esporre il suo pensiero durante una performance assieme a Ornette Co- leman (Parigi, giugno del '97). La jazz-community non gli ha perdonato la decostruzione dell'im- provvisazione jazz; Derrida è sceso dal palco tra i fischi.

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 183-188)

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