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L'opera non è un type

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 80-84)

10 L'ontologia type/token e il platonismo musicale

10.5 Il platonismo è stato criticato ancor più del nominalismo

10.5.1 L'opera non è un type

Vediamo il primo punto. I critici del platonismo dicono che le opere non sono type. L'obiezione di questo tipo al platonismo consiste nel demolire l'idea che le opere siano in qualche modo eterne o immutabili. L'eternità è una proprietà che appartiene all'opera o perché è identificata con una strut- tura sonora (Kivy, Dodd), o perché si dice sia composta da una struttura di un qualche tipo (norma- tiva per Wolterstorff, sonora e indicante i mezzi performativi per Levinson). Questa struttura è l'u- nità che permane identica, secondo i platonisti, in tutte le occorrenze.

Specificatamente, l'affermazione che le opere musicali sono ripetibili è inerentemente orientata verso le ontologie realiste: affermare che le opere musicali sono ripetibili è semplicemente già assumere che esiste qualcosa di identificabile che può avere multiple istanziazioni. (Bartel 2011, 387)

Nell'identificazione opere-performance come specifico caso del problema one over many c'è già una petizione di principio.

Ma allora da dove viene questo claim? Da una ragione squisitamente logica. L'opera ha proprietà che la differenziano dalle performance, e tali proprietà sono quelle che danno identità ad ogni pos- sibile token. L'identità deve essere garantita nei confronti di ogni possibile realizzazione dell'opera; perciò l'opera diventa un astratto eterno. Un particolare astratto o un universale astratto?

(universalista), che è quella sostenuta dalla maggior parte del platonismo, potrebbe essere anche le- gittima.

L'universalismo astratto si inceppa tuttavia all'esame storico-pratico: occorre notare che “le struttu- re intervallari, e i linguaggi musicali più in generale, non esistono eternamente o a-storicamente, ma entro le pratiche musicali vive e cangianti” (Goehr 2007, 49). I linguaggi musicali, la tradizio- ne, il materiale disponibile vincolano la composizione della struttura sonora. “La maggior parte dei sistemi musicali sono artificiali e dinamici. Ne risulta che gli elementi sonori abbiano nuove e dif- ferenti implicazioni in differenti contesti storici” (Cox 1985, 373). Per Howell, vicino a Levinson, “tutti i type sono iniziati. Esistono solo una volta che esistono le pratiche in questione” (Howell 2002, 124); per fare un'analogia, il type di una parola esiste solo fintantoché esiste il suo significato nella pratica, cioè nella pratica si usano i token di quel type.

Questo è estremamente evidente con l'improvvisazione, che è legata al suo contesto e alla sua gene- si in modo ancora più intimo. È anzi la stessa espressione dell'attimo e del contesto di produzione musicale a essere rilevante, nell'improvvisazione. Lo vedremo in seguito.

Come scrivevo sopra, contro la tesi dell'eternità del type, non si può sostenere che ad esempio un pezzo seriale di Webern sia eterno: la scelta, l'estensione e l'organizzazione del materiale hanno precisi connotati storici, si inseriscono in un discorso di sviluppo della tradizione viennese, otten- gono un significato determinato entro al contesto sociale e culturale in cui nascono. Dire che la se- rie weberniana sia eterna è una tesi troppo esagerata. Non solo in senso critico, cioè l'ascolto della serie oggi è diverso dall'ascolto a Vienna negli anni '30. Ma anche nel senso più forte: la possibilità di produzione è contestualmente limitata. La stessa cosa la possiamo dire banalmente con il free

jazz: sono gli anni '60, è la storia del jazz verso l'emancipazione dei parametri melodici, armonici e ritmici, in coincidenza con il contesto (di emancipazione) degli Stati Uniti (Carles e Comolli 1973; Goldoni 2012).

Se l'alternativa degli universali astratti non funziona, proviamo quindi a prendere posizione per la prima alternativa, cioè: l'opera è un type inteso come particolare astratto. Così il discorso si fa mol- to più ragionevole. In questo caso, tuttavia, il type perde la sua astrattezza, perché condivide molte delle proprietà delle occorrenze e viceversa: le parti spazio-temporali, le qualità estetiche, espressi- ve, il contesto di produzione, l'individuazione del compositore ecc.

Trivedi (2002) prende questa via. A proposito di Dodd, Trivedi argomenta che il type non è mai, per definizione, un universale: condivide sempre le proprietà con i suoi token. Cioè il type “Bandiera Americana” è rettangolare e rosso bianco e blu. Dodd, per Trivedi, confonde i type con gli univer-

sali. Dodd (2002, 390 e segg.) non può rispondere a questa osservazione semplicemente dicendo che il type è un astratto tale da non avere parti spaziali, né temporali, né colori ecc. L'ontologia di Dodd presume che il type sia la funzione in cui compare il valore “essere un token di quel type”. Il

type così delineato da Dodd sembra più un'entità astratta escogitata per motivi meramente specula- tivi, più che un qualcosa che abbiamo incontrato nella nostra esperienza della realtà.

Anche Howell (2002) commenta la posizione di Dodd negando che la proprietà “essere un token di quel type” sia eterna. Infatti una proprietà di questo tipo sarebbe una relazione (da Russell), o una proprietà impura: una proprietà legata all'esistenza di altre entità, come “essere il figlio di Abramo Lincoln”; come può essere questa una proprietà eterna, esistente prima che lo stesso Abramo Lin- coln nasca? Come può esistere eternamente la proprietà “essere un token della Quinta Sinfonia pri- ma ancora dell'atto di Beethoven tra il 1804 e il 1808? Dodd dice che quello che viene ad esistere, a un certo tempo, è un token, cioè un particolare concreto; ma non un type, che invece per definizione deve essere astratto ed eterno. E un astratto non può essere un set di particolari concreti, cioè un astratto non può contenere dei concreti come costituenti. Questa visione Dodd la riprende diretta- mente da Frege, che distingueva tra proprietà insature e oggetti saturi; ma già Russell aveva a suo tempo smentito la posizione fregeana, utilizzando il concetto di “relazione”, in quanto distinto da quello di “proprietà”.

Secondo me ha ragione Howell: tutto il discorso di Dodd non è assolutamente simple e, anzi, molto contro-intuitivo.

Il ragionamento dell'individuale o particolare astratto ha un certo suo senso; ma ci pone l'onere di decidere se le opere sono entità o composti dal punto di vista della metafisica oppure dal punto del- la metafisica più quello dell'estetica e della storia. Perché, per esempio, per un sostenitore in pecto-

re dell'individuale astratto come Levinson, le opere, identificate o composte dalle strutture sonore e dei mezzi performativi, hanno proprietà contestuali costitutive. Quindi stiamo mettendo assieme proprietà metafisiche e storico-critiche, e questa è un'operazione che fa scavallare le categorie in modo tale che non sappiamo più se la metafisica guida la critica o viceversa (Goehr 2007, 51-55). E se la metafisica dice che l'opera ha o è una struttura eterna, la pratica non può essere d'accordo, perché la storia dell'estetica dice che “influenzata da Liszt” o “originale” sono proprietà dipendenti dai contesti, variabili secondo le epoche, spostate sulle modalità di ricezione e valutazione.

Per fare un esempio, consideriamo quello che dice Levinson: due compositori che producono la stessa struttura sonora. Abbiamo due opere o una sola? Per Levinson sono due (Levinson 1980, 10). La conclusione si basa su un'intuizione estetica del tipo che i due compositori e i due contesti diver- si trasmettono proprietà diverse alle due opere, quindi sono opere diverse – la legge di Leibniz su-

gli indiscernibili. Apprezzo veramente che la struttura sonora di Levinson, anche se eterna, esiste in virtù dell'essere indicata in un contesto da una persona. Questa è una visione metafisica che ingloba l'estetica. Il suo platonismo per me resta il più attento e il meno violento.

Ma il problema è che Levinson è purtuttavia realista riguardo alle proprietà estetiche (Levinson 1994). E questo, sebbene sia coerente con la sua impostazione platonista, e con la posizione fatta propria anche da altri platonisti come Kivy, è abbastanza difficile da sostenere dal punto di vista propriamente estetico. Cioè secondo Levinson (e Kivy) è un fatto che l'opera sia “originale” o che sia “influenzata da Liszt”, o che sia “composta da Beethoven”. Se fosse veramente un fatto, tutta- via, ci sarebbe un raggiungimento del consenso su tali proprietà; invece per la prassi critica è nor- male che uno dei critici in platea alzi la mano e dica “non sono d'accordo”. I mutamenti di giudizio estetici per Levinson sono giustificati come meri cambiamenti epistemici di accesso all'opera (“What a Musical Work Is, Again”, in Levinson 2011).

Ma tutto ciò mi pare assurdo: o le proprietà estetiche sono consustanziali all'identità eterna dell'o- pera, oppure se sono consustanziali e appaiono nella definizione di opera di Levinson, allora anche le strutture sono dipendenti dal contesto e bisogna correggere dicendo che l'identità dell'opera è un concetto mobile. Non c'è una via di mezzo.

Tale confusione non viene lasciata passare, nemmeno dagli stessi platonisti. Kivy (“Platonism in music: Another Defense” in Kivy 2003), Currie (1989, 62 e segg.) e Davies (2007, 76 e segg.) criti- cano l'appello alla legge di Leibniz, da parte di Levinson, con controesempi – rispettivamente: una fuga di Bach un tempo attribuita a Johann Sebastian, ora attribuita a suo cugino; Beethoven in una terra gemella in cui compone Hammerklavier prima del 1817; le opere composte assieme da Mc- Cartney e Lennon in studio, che non sappiamo se effettivamente sono dell'uno piuttosto che dell'al- tro. I tre controesempi mostrano che abbiamo l'intuizione che il compositore o il contesto non indi- viduano l'opera. Kivy poi adotta anche un argomento logico: la legge di Leibniz non distingue tra le proprietà necessarie e quelle accessorie per l'identità dell'opera; così, mentre la struttura sonora è essenziale, compositore contesto e strumentazione sono proprietà accessorie. Per Kivy, Currie e Davies anche se distinguiamo epistemologicamente e si ammettono per la stessa opera due compo- sitori diversi o due proprietà contestuali diverse, accediamo ontologicamente alla stessa opera. Come dice Davies, il telefono è stato inventato in contesti simili da persone diverse, ma sono la

stessa invenzione.56

Mi pare estremamente rivelatore il fatto che Levinson giustifichi l'aggiunta del contesto e della per-

56 Davies in realtà sposa il contestualismo, ma in una versione “mite”. Lo vedremo più avanti nel dettaglio, perché la sua posizione merita un approfondimento.

sona del compositore nella sua definizione di opera dicendo che così si dà un'assicurazione logica alla paternità di un'opera. Forse Levinson vuole dare più che una definizione ontologica, una rispo- sta a un problema pratico come quello del copyright? (Davies 2007, 79; Goehr 2007, 56). Tuttavia, stando alla pratica, vediamo che essa ci presenta casi difficili, ma mai risolvibili metafisicamente. É spinoso decidere nei casi di plagio per una parte in causa. In tali casi il contendere non è sulla pa- ternità dei diversi compositori in causa, ma sull'ipotesi che diversi compositori abbiano composto la stessa opera.

Si valuta, nella pratica. Nelle sentenze di plagio, non si tiene conto solo della struttura sonora – me- lodia, armonia, secondariamente ritmo e arrangiamento. Si tiene conto anche dei legami personali o contestuali tra le parti in causa. Ad esempio, se uno può rivendicare di avere creato qualcosa prima o indipendentemente dell'altro, e può dimostrare che l'altro abbia avuto un qualche rapporto con tale opera; pertanto, in questo caso, può imputare all'altro di avere copiato. Se però l'altro ha creato indipendentemente dal primo, e può dimostrarlo – succede per pattern sonori molto semplici –, al- lora l'accusa non è plagio, ma scarsa originalità (Benson 2003, 155 nota 41).

Dunque, concludendo, se il type è astratto, bisogna accogliere tutte le implicazioni di questo giudi- zio e eliminare ogni riferimento alla concretezza, violando il senso comune e adottando la mera speculazione. Se invece si includono anche proprietà concrete, nel type, allora bisogna assumere che questo non è poi così astratto come si postula. L'improvvisazione, che è una composizione con- testuale alla sua esecuzione, non può che stare dalla parte della concretezza.

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 80-84)

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