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14 L'improvvisazione nella musica “classica”

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 115-120)

Se la filosofia della musica considera come essenziali o costitutive dell'opera le proprietà notate, cioè soprattutto altezza e durata delle note, allora che ne è di tutti gli altri parametri non notati con cui la musica è effettivamente eseguita? Tutto ciò che è esornativo e che si manifesta nella perfor- mance ha un carattere necessario – perché il suono concreto è fatto così –, ma non essenziale se- condo tale filosofia. Per esempio: gli abbellimenti, le acciaccature, gli attacchi, le dinamiche non specificate, i fraseggi, i legati, ecc.

Questa tesi di necessità senza essenzialità tuttavia non regge ad una disamina storico-critica. Alcuni filosofi hanno voluto argomentare il fatto che il non-notato (l'espressivo o l'interpretativo) sia es- senziale per le opere musicali – di musica “classica” – quanto lo è l'osservazione pedissequa di ca- ratteri notazionali concernenti altezza e durata (Gould e Keaton 2000; Goehr 2007). Nella tradizio- ne musicale occidentale, che giunge al massimo livello di notazione con Beethoven – secondo la tesi di Goehr che ho riportato –, esistono comunque zone di incompletezza o di vaghezza nella no- tazione che danno un minimo spazio all'improvvisazione (Darbellay 2005; Benson 2003, 77 e segg.; Azaïs et al. 2010, 230-231). Questo è un fatto storico: prima ho ricordato le performance del- le sinfonie di Beethoven dirette da Chally. Che si possa dare a questo fatto il nome di improvvisa- zione, è una questione che lascio in sospeso, ma per il momento l'accetto.82 Una spinta per usare

tale nome è accettare che la vaghezza viene risolta una volta per tutte allorquando la musica si ese- gue di fronte a un pubblico. Anche se la risoluzione deriva da una tradizione performativa “orale” di lunga durata, è comunque una decisione che appartiene al momento della performance. In questo paragrafo sostengo che si può ragionevolmente definire l'interpretativo/esornativo, stabilito nel mo- mento performativo, come improvvisazione.83

Si arriva facilmente a dire che l'improvvisazione è essenziale per l'opera della musica “classica” precedente alla nascita del concetto di “opera” – relativo, dice Goehr, a Beethoven. L'improvvisa- zione nella classica precedente a Beethoven – e forse anche in quella del secondo dopoguerra – è concessa addirittura a intere sezioni delle composizioni. Ad esempio L'incoronazione di Poppea di

82 Sharpe (1979) ad esempio la chiama “interpretazione”. Nel caso di Sharpe credo sia sensato identificare “improvvi- sazione” con “interpretazione”.

83 Konitz, in Berliner (1994, 221), invece sostiene che l'improvvisazione deve essere un cambiamento radicale nella melodia. Ma che differenza c'è tra un cambiamento radicale e uno un po' meno radicale? Una definizione del genere fa cadere in un paradosso come quello del sorite.

Monteverdi, ha di notato solo il canto e il basso figurato. Come interpretare la numerazione del bas- so figurato? La notazione lascia spazio all'inventiva dell'esecutore: alla sua improvvisazione. Rinal-

do di Händel (1711) contiene delle indicazioni in partitura con la semplice parola “cembalo”: il cembalista, che era lo stesso Händel nella prima esecuzione dell'opera, doveva improvvisare il pas- saggio.

Ora abbiamo la trascrizione dell'improvvisazione di Händel approntata dal suo contemporaneo Wil- liam Babel (Alperson 2010, 275), e in generale abbiamo tutta una serie di sedimentazioni delle im- provvisazioni – fughe, basso figurato, estemporizzazioni, cadenze, uso del vibrato, ecc. – in virtù della quale si sono istituite vere e proprie tradizioni performative.

Treitler (1993) smentisce la visione metafisica dell'opera “classica” identificata con la partitura gra- zie ad un'analisi delle partiture di Chopin: spesso queste non sono finite, lasciando delle indicazioni verbali all'esecutore su come doveva continuare il pezzo. Così la tradizione performativa di Chopin è ricca di esemplificazioni contrastanti, divergenti l'una con l'altra e talvolta con la partitura stessa. Cone (1995), riguardo a Chopin, ribadisce il concetto e nega che si possa essere fedeli ad una sua partitura, dal momento che le partiture differiscono in modo sostanziale a seconda delle edizioni. Solomon (in Childs, Hobbs et al. 1982, 73) spiega perché le partiture di Chopin differiscono così tanto: perché in realtà sono spesso trascrizioni delle sue improvvisazioni rapsodiche.

Per di più, anche nello stesso paradigma beethoveniano esiste la tradizione della cadenza, arte in cui gli esecutori contemporanei si esercitano sempre meno, ma che doveva costituire una grandissi- ma prova di valore nei primi anni del diciannovesimo secolo: la cadenza doveva essere improvvisa- ta e ricalcare lo stile della composizione.84

Basso figurato o continuo, fughe, cadenze e indicazioni verbali richiedono di per sé un atto improv- visativo nella performance. Un filosofo però potrebbe ribattere e dire: se sono solo sparuti momenti all'interno di una struttura fissata in larga misura, allora non è ancora detto che siano momenti es- senziali appartenenti alla struttura sonora.85

Inoltre, se prendiamo le grandi sinfonie di Beethoven costui potrebbe dire che l'improvvisazione non è che, al massimo, un esornativo, un abbellimento, un ornamento che si inserisce in un'opera astratta. L'interpretativo/esornativo non sarebbe che il modo di darsi delle occorrenze dell'opera, il modo che abbiamo noi di accedere ad esse, il modo più bello e piacevole. L'improvvisazione sareb-

84 E magari trascritta in seguito, come quelle del concerto per piano e orchestra n. 5, L'imperatore. Beethoven stesso trascrisse le cadenze improvvisate dell'opera, così da vincolare l'esecutore al materiale trascritto – probabilmente già ai suoi tempi l'improvvisazione era meno esercitata di quanto sarebbe stato necessario. Vedi anche Berkowitz (2010, 153 e segg.).

be solo un male necessario “estetico” (Bailey 2010, 51).

Ma io credo ci sia altro da dire. Credo che ci sia sempre un aspetto ineliminabile di improvvisazio- ne in qualsiasi performance di una opera “classica”; anche se non è essenziale – ma come si fa a stabilirlo una volta per tutte? – è comunque sempre presente (Solomon in Childs, Hobbs et al. 1982, 71 e segg.). Do ragione a Gould e Keaton che scrivono: “l’improvvisazione non emerge da come si interpreta o si compone; ma è una relazione tra la partitura e l'evento della performance” (2000, 145). La tesi della normatività della partitura è sostenibile se si pongono dei limiti. La scrit- tura notazionale fissa delle condizioni di identità per la performance che non sono finite, conchiuse, definitive; benché la scrittura vi tenda. Se il concetto di opera prevede che la partitura renda ripeti- bile perfettamente e esattamente l'opera stessa, allora non è ammissibile, nemmeno se si tratta della notazione beethoveniana (Benson 2003, 84-85).

La partitura è incompleta per alcuni aspetti – come possono essere giocoforza abbellimenti, basso figurato, cadenze –, e si può affermare che sia vaga per altri – come l'indicazione di agogica, l'arti- colazione, l'indicazione di tempo (Davies 2007, 93). A mio avviso occorre discutere la tesi della normatività della partitura, così come viene sostenuta ad esempio da Wolterstorff o Goodman. Cre- do che sia una tesi limitante. Secondo Wolterstorff la scrittura notazionale fissa delle condizioni normative di identità per la performance: se una performance non le rispetta è un fatto che la fa ap- parire come un'esecuzione scorretta. Io invece credo che tali condizioni non siano propriamente

normative: non c'è una forza normativa tale da ammettere l'esecuzione di tutte le note così come sono scritte e vietare di cambiarle, parafrasarle, improvvisarle. Piuttosto, questa è una forza pratica: in virtù di una certa storia della pratica esecutiva, è giusto eseguire queste note così come indicate ed è scorretta un'esecuzione irrispettosa delle indicazioni partiturali.

Io ritengo che, a causa dell'incompletezza e della vaghezza, la partitura non dice cosa si deve ese-

guire, ma cosa eseguire entro una certa zona di tolleranza più o meno angusta. Di conseguenza, il performer è un artista che è chiamato ad interpretare la partitura. L'interpretazione è preliminar- mente una selezione: nella performance vengono selezionate le proprietà essenziali da quelle non essenziali. Il performer sceglie di dare risalto a certi aspetti della partitura piuttosto che ad altri; op- pure sceglie di dare risalto ad aspetti non-notati piuttosto che a quelli notati, oppure ancora sceglie di non rispettare la notazione e di andare per la propria strada. Il compositore non può rimproverar- gli che le cose suonate non stanno così come le ha scritte.86 Piuttosto egli sarà sanzionato da quel-

l'uditorio che si aspettava una resa fedele.

Vediamo cosa succede nella pratica (Benson 2003, 90 e segg.). La partitura è letta, quindi interpre-

tata. Anche in una scrittura dettagliatissima manca per esempio l'indicazione accentuale (e l'accento non è di poco conto, come ha dimostrato Glenn Gould). Spesso vengono eliminate dal performer le ripetizioni strofiche. Le note di abbellimento vengono aggiunte o eliminate, così come i trilli e i vi- brati. Le voci armoniche possono essere distribuite con un certo margine di arbitrarietà a seconda dell'organico disponibile. E così via.87

L'esecuzione della musica “classica”, soprattutto l'esecuzione maggiormente valutata dalla critica, ha un certo qual spazio di manovra. Sicché valutiamo non solo l'opera, ma anche le performance per ciò che sono, non semplicemente per essere performance-di-quell'opera; ne valutiamo l'energia, la fluidità, l'intensità nervosa ed emotiva. Anzi, posso ritenere che la valutazione di correttezza o di scorrettezza, cioè l'identità, è secondaria, e forse riservata a un uditorio espertissimo. Se l'opera è un concetto che ci aiuta a distinguere le performance-di-quell'opera, e a stabilire un'identità comun- que tollerante per le performance, allora ben venga. Ma se questo concetto viene fissato in quanto entità cui deve normativamente conformarsi la performance, allora non sono d'accodo.

Benson, ad esempio, nega che stabilire l'identità di un'opera la faccia diventare un'entità discreta, diversa da altre opere. I contesti stabiliscono quanto le opere si avvicinino e si differenzino: ad esempio la musica classica viennese si somiglia tutta per quanto riguarda i modi performativi, lo scopo d'uso e le forme. Fino a che punto un pezzo è diverso dall'altro (Benson 2003, 61)? Forse fino al punto in cui il materiale è determinante per il contesto di analisi e di apprezzamento, secon- do gli ideali di Werktreue. O forse, fino a che

il vibrato non anticipato, la variazione di tempo, una sala riverberante o semplicemente troppo caffè cambiano la nostra impressione di un'opera verosimilmente più di quanto fanno le irrego- larità di carta, inchiostro o notazione in una partitura. (Ashby 2010, 28)

Sostengo che la rilevazione delle proprietà dell'opera e delle condizioni d'identità delle performan- ce di musica “classica” non rivelano l'essenza della musica, ma sono concetti aperti, relazionali, di- pendenti dalle menti e dai contesti produttivi e ricettivi.

Gould e Keaton (2000) argomentano che nelle performance di musica classica il musicista spesso e volentieri improvvisa. Improvvisare in questo contesto vuol dire: altezze durate e sono prestabilite; ma le dinamiche, alcuni aspetti ritmici, i timbri, le intonazioni e le articolazioni sorgono nel mo-

87 Derek Bailey riporta quest'affermazione del noto direttore di ensemble di musica barocca, Lionel Salter: “In parti- colare quando si tratta di brani lenti, ed è logico, si trova che le note scritte rappresentano uno schema molto sem- plificato e se qualcuno prova a suonare... diciamo le sonate di Händel, seguendo strettamente il testo, si trova alla fine con qualcosa di cui Händel stesso avrebbe probabilmente riso a crepapelle, perché non era proprio nelle sue in- tenzioni che la partitura fosse eseguita a quel modo, diciamo a sangue freddo. In quei tempi era normale che fossero i compositori a eseguire le proprie opere e talvolta, causa l'assoluta mancanza di tempo, essi non scrivevano ogni particolare sullo spartito, fissavano sulla carta giusto qualcosa per ricordarsi che a un determinato punto dovevano fare qualcosa che in qualche modo usciva dalla norma” (Bailey 2010, 47).

mento stesso della performance, variano da performance a performance, e non possono essere pre- stabilite se non con una certa tolleranza.

Goehr ad un certo punto fa un'affermazione ambigua e scrive che, essendo il concetto di opera un concetto regolativo che sanziona certi suoi usi inappropriati, non potremmo improvvisare in una performance del Concerto in re di Beethoven (2007, 105). Gould e Keaton invece riportano il caso della violinista Lynn Harrell che ha improvvisato delle note aggiuntive su un altro Concerto in re, quello di Haydn (2000, 146). Dipende, chiaramente, dalla pratica: in alcuni contesti anche il mini- mo errore di compitazione è capitale; in altri contesti ci si passa volentieri sopra, a fronte di una va- lutazione critica più impegnata a sottolineare gli aspetti performativi. In un'esecuzione che si pro- pone come filologicamente esatta è ovvio che c'è una specie di impegno formale al rispetto preciso della partitura; ma nella nostra epoca in cui la creatività e l'originalità sono tenute in larga conside- razione, questo impegno viene sempre meno. Anche per questa ragione sono sempre più valorizzati elementi improvvisati nella musica classica: interpretazioni della partitura, deviazioni dal notato, abbellimenti, cadenze, ecc.

Sicché, la mia idea è che le differenze estetiche delle esecuzioni contano in una maniera che non può essere facilmente separata dalle differenze ontologiche. Non possiamo dire mai definitivamen- te se un aspetto della musica costituisce un abbellimento anziché una proprietà essenziale. Non ab- biamo mai un accesso empirico alla struttura sonora, cioè allo scheletro essenziale della musica

senza avere la musica con tutta la sua polpa (Bruno 2013, 70);88 né abbiamo accesso alla perfetta

congruenza di esecuzione e partitura, poiché quest'ultima non è chiara ed esauriente. Allora che ce ne facciamo delle proprietà espresse in partitura? Anche se sono possedute dall'esemplare così come prescritto dalla partitura-type-opera, l'esemplificazione è sempre molto più sfaccettata di così. Se riduciamo l'esemplificazione a tali proprietà, forse la perdiamo. Ancora Benson:

Praticamente, le performance musicali possono esibire un alto grado di identità senza essere

identiche. Così, senza dubbio i pezzi cambiano, ma spesso mantengono un'identità, certamente sufficiente per lo scopo pratico dell'identificazione. Infatti, ciò che forse è più divertente è quanto può essere alterato un pezzo – deliberatamente o meno – e comunque rimanere più o meno riconoscibile. (Benson 2003, 158)

Il filosofo della musica realista vuole essenzializzare per determinare le condizioni di identità: ma ci sono veramente dei casi di dubbio che non possono essere risolti dall'analisi? Abbiamo bisogno di un lavoro preliminare di questo tipo? O non è meglio conoscere le cose a fondo, empiricamente, più di conoscerle per via logica? Astrarre l'essenza dei concreti è un'operazione che ci permette solo

88 Non solo la musica ha più polpa della struttura indicata nella partitura. La filosofia direbbe che c'è un evidente salto categoriale tra partitura e performance, cioè quello che va dallo scritto all'udito.

un'approssimazione grossolana della musica che normalmente ascoltiamo. La pura opera sarebbe qualcosa come una traccia midi rispetto alla musica eseguita (Grossmann 1994, 262): qualcosa di cui Haydn riderebbe a crepapelle.

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 115-120)

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