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Goodman ha sollevato un vespaio di polemiche

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 37-41)

5 Goodman ha avuto l'idea filosofica di separare composizioni e per formance

5.1 Goodman ha sollevato un vespaio di polemiche

Che Goodman sia stato l'iniziatore degli argomenti ontologici è un fatto; ma che pochi l'abbiano se- guito è un altro fatto. Le sue tesi hanno ricevuto vari emendamenti (da parte nominalista) oppure totali rifiuti, anche se encomiate per i problemi che hanno posto (da parte platonista o storico-con- testualista). Vengo quindi alla presentazione delle obiezioni, passando da quelle di matrice nomina- lista a quelle platoniste, e infine quelle storico-contestuali (anti-ontologiche). In particolare le obie- zioni di ultimo tipo (ma anche le prime) daranno il via al problema dell'essenzialità (o “costitutivi- tà”) o della contingenza delle proprietà.

Pertanto, anche se questo capitolo rappresenta una piccola deviazione per le tesi sull'improvvisazio- ne, ci può comunque tornare utile. Arriveremo infatti a dire che l'improvvisazione, per

5.1.1 Obiezioni nominalistiche

Le correzioni più rilevanti da parte nominalista mi sembrano essere quelle mosse da Stefano Pre- delli. Predelli ha dedicato due articoli alle teorie di Goodman: il primo critica la visione ristretta che Goodman ha della partitura (Predelli 1999a), il secondo il paradosso goodmaniano della nota sbagliata (Predelli 1999b).

Riguardo alla partitura, Predelli fa notare che Goodman richieda ad essa che sia notazionale. I mo- tivi sono in fondo chiari: la notazione evita le ambiguità, la ridondanza, l'indecifrabilità. Ma Predel- li critica l'identificazione della notazione solo con i parametri musicali dell'altezza e della durata. Perché, si chiede Predelli, l'indicazione di strumentazione – tipica del platonismo di Levinson, ve- dremo – ne è esclusa? Sembra che Goodman escluda l'indicazione di strumentazione perché tale in- dicazione identifica le caratteristiche timbriche del suono, le quali non hanno carattere notazionale; in più, indicando la strumentazione, si violerebbe il principio posto come condizione dell'arte allo- grafica, secondo cui l'identità dell'opera con i suoi esemplari è data solo dall'esatta compitazione, e ogni parametro storico-causale che esula dalla logica è accessorio. Ma secondo Predelli l'indicazio- ne di strumentazione è molto di più che l'indicazione timbrica: se un compositore scrive che certi suoni sono riservati alla produzione con uno strumento come l'oboe, egli sta chiedendo di più che il timbro di tali suoni sia corrispondente a quello dell'oboe; sta chiedendo che tali suoni vengano pro- dotti proprio con l'oboe e non con altri strumenti dalla timbrica affine. Sicché l'indicazione di stru- mentazione può essere considerata notazionale: non c'è misura per l'ambiguità o l'indecifrabilità, una volta che si specifica lo strumento musicale.

L'obiezione concernente il paradosso della nota sbagliata (Predelli 1999b) afferma che la distinzio- ne proposta da Goodman tra proprietà costitutive e accessorie della musica non è giustificata. È un'intuizione pre-teoretica. Allora perché dovremmo accettare la sua conclusione fortemente con- tro-intuitiva, cioè che solo una nota sbagliata guasta l'identificazione dell'esemplare con l'opera? Il paradosso – che non è altro che la versione musicale del paradosso del sorite – consiste appunto in quest'oscillazione della teoria tra conformità e contrasto al senso comune. Predelli sostiene che nel- la determinazione della conformità di una performance alla partitura entrino in gioco altri fattori che non la compitazione esatta: ad esempio le intenzioni dell'esecutore, il quale se sbaglia una nota sola ha comunque inteso rendere una performance corretta dell'opera, e non di un'altra opera.19

Goodman in effetti si mostra ansioso di dare la sua idea di congruenza per un pericolo che in realtà non esiste. Lo dice Goodman nell'esempio riportato sopra: di performance in performance, con una singola nota errata alla volta potremmo passare dalla Quinta di Beethoven a Three Blind Mice, “Tre

topi ciechi”. Ma davvero c'è questo rischio? Davvero gli ascoltatori o i performer non saprebbero distinguere tra i due lavori nelle loro pratiche di ascolto e di esecuzione? Essi non saprebbero rico- noscere la Quinta se il performer, o l'intera orchestra, sbaglia una singola nota, poi due ecc.? O co- mincerebbero invece a dubitare che al posto della Quinta, così come scritto sul programma da con- certo, la performance riguarda Tre topi ciechi? Il giudizio di Goodman sembra francamente troppo allarmistico.

5.1.2 Obiezioni platoniste

Da parte platonista, un motivo di cruccio è proprio lo sfacciato nominalismo di Goodman. Sentia- mo gli antichi echi della disputa sugli universali. Vedremo nel dettaglio le posizioni platoniste più avanti, anche perché su certi punti non sono così compatte; comunque, al di là delle sfumature il platonismo musicale continua a incontrare buoni favori nella letteratura. Qui mi limito a qualche osservazione che un platonista di razza, o come si auto-definisce, un “platonista duro” come Peter Kivy rivolge a Goodman. Kivy rimprovera a Goodman di aver cercato di ridurre la questione del- l'opera e della sua esecuzione agli oggetti fisici concreti (Kivy 2007a, 243-269). Il lamento del pla- tonista (in altri contesti filosofici si chiama “realista”) contro il nominalista è sempre quello: non è sempre possibile parafrasare l'astratto con dei termini concreti.20

Certo abbiamo partiture su carta delle opere, e, aggiunge Kivy, i suoni delle performance sono “og- getti fisici” – anche se temo che un fisico sia piuttosto contrariato nel definire come “oggetto” un'onda sonora. Ma dicendo che l'opera è la classe di congruenza, non ci rendiamo le cose più con-

19 La stessa obiezione è avanzata da Davies (2007, 152 e segg.). 20 La via della parafrasi è quella proposta da Quine (1997).

crete: di quanti individui è formata la classe delle esecuzioni, visto che racchiude anche quelle che devono ancora essere eseguite? Webster – che non è un platonista, ma piuttosto un realista di tipo aristotelico – nota pure che, seguendo Goodman, se un'opera non avesse nessuna esecuzione allora non sarebbe un'opera, cioè sarebbe una classe nulla (Webster 1974).21

Inoltre secondo Kivy ci sono proprietà attribuite all'opera che, se questa fosse una classe, non po- trebbero invece essere attribuite. Ad esempio la proprietà “terminata nel 1807” appartiene alla

Quinta; ma se questa fosse una classe di congruenti, nessuno di questi era terminato nel 1807. Altri esempi di questo tipo sono con le proprietà estetiche, come “inespressiva”; lo si può dire di un'ese- cuzione, non dell'opera in sé.22 Oppure con ipotesi controfattuali: se una sinfonia, magari tenuta se-

greta dal suo autore, non ha mai ricevuto un'esecuzione pubblica, è assurdo dire che non esiste. Ovviamente qui mi sono contenuto nel riportare le critiche platoniste a Goodman. Non intendo giu- stificarle, sostenerle e farle mie, poiché credo si poggino su un abbaglio teorico piuttosto evidente, cioè la confusione tra concetti mentali assolutamente contestuali e entità ontologiche – ma per le mie osservazioni rimando al paragrafo dedicato al platonismo.

5.1.3 Obiezioni storico-contestuali

Le obiezioni storico-contestuali si concentrano sulla distinzione goodmaniana tra proprietà costitu- tive e proprietà contingenti dell'opera. Solo le proprietà costitutive identificano l'opera per quella che è, cioè la classe di esecuzioni correttamente formate. Ma quali sono tali proprietà costitutive? E quali sono le proprietà contingenti? Mi pare oltretutto che contingenti qui non vuol dire solo che in un modo o nell'altro ci devono comunque essere; ma che ci possono anche non essere e quindi sono proprietà accessorie. Dunque abbiamo: le proprietà costitutive, cioè quelle notazionali come tonali- tà, altezza e durata da cui ricaviamo melodia, armonia e ritmo; quelle contingenti ma necessarie, come tempo, dinamica, timbro; quelle ancora più contingenti o accessorie come gli abbellimenti e i rumori incidentali (Benson 2003, 86 e segg.; Goehr distingue tra le proprietà notazionalmente con- tingenti e quelle accidentali, Goehr 2007, 39; Davies 2007, 151-197).

Prevedibilmente, la mossa di chi si appoggia ad argomentazioni storico-culturali è quella di dubita- re della distinzione data da Goodman (che ho leggermente aggiornato). Paul Ziff lo fa riferendosi all'esempio del Trillo del diavolo di Tartini: qui il trillo, che considereremmo come proprietà acces- soria seguendo Goodman, è invece una proprietà essenziale, dettata non dalla partitura, ma dal

21 Stephen Davies difende Goodman da questo tipo di obiezioni, con un argomento modale. Secondo Davies, Good- man avrebbe in mente la classe delle possibili performance congruenti alla partitura, e non la classe delle perfor- mance attualmente realizzate (Davies 2007, 41).

modo di eseguire opere provenienti da quel contesto – cioè la “tradizione performativa” – (Ziff 1971, 514). Lydia Goehr prende le distanze dall'obiezione di Ziff. Infatti, se il problema posto da Ziff riguardo alla sonata di Tartini è che nella sua partitura non c'è indicazione del trillo, o in altre per il vibrato, o per la sincope ecc. e che il trillo del titolo veniva eseguito piuttosto seguendo le convenzioni performative così come venivano tramandate con l'ascolto dal vivo, allora la Goehr li- quida tale problema dicendo che basterebbe solo tradurre la partitura di Tartini in un linguaggio no- tazionale più evoluto come quello tardo ottocentesco, in cui gli abbellimenti si scrivevano tutti (Goehr 2007, 26-30).23 Ma perfino laddove la notazione è ultra-determinata c'è sempre uno spira-

glio di arbitrarietà nel momento della performance, data dal fatto che la notazione è giocoforza vaga.

Tormey (1974) ha asserito che l'arbitrarietà è data dal fatto che il compositore, nella partitura, indi- ca non dei simboli con dei referenti, ma delle regole pratiche da seguire. I caratteri non sono condi- zioni dell'identità dell'opera, bensì dei desiderata. Sicché seguire le regole della partitura dà dei cri- teri non-notazionali per l'identità dell'opera, bensì dei criteri eminentemente pratici. L'idea è stata ripresa da Cochrane (2000). Egli sostiene che una partitura esprime delle regole da rispettare obbli- gatoriamente nella performance (la parte notazionale della partitura), e implica delle regole tacite di interpretazione delle prime, che hanno maggiore variabilità, maggiore convenzionalità; ma anche queste ultime hanno comunque il loro grado di necessità. Le prime sono costitutive dell'identità dell'opera, mentre le seconde distinguono le varie performance tra di loro; se infatti non ci fossero, le performance sarebbero uguali e intercambiabili, quindi sarebbero infine l'opera, secondo la legge di Leibniz sugli indiscernibili (Stephen Davies 2007, 40 e nota 30). Tuttavia, scrive Sharpe (1979), le performance non sono intercambiabili: non si può ipotizzare di avere una performance della stes- sa opera se il primo movimento di una sinfonia viene suonato dalla London Symphony, il secondo dalla Berliner Philarmoniker e così via, con stili interpretativi divergenti. Le performance non “stanno per” altre performance, ma per un'opera .

Cochrane afferma che le regole consegnate dal compositore tramite la partitura sono inderogabili, mentre ammette che le convenzioni performative sono dipendenti dalle circostanze storico-cultura- li. Per un filosofo questa situazione è confusa: da una parte si hanno criteri oggettivi per stabilire se una certa performance X conta come una performance corretta dell'opera Y, dall'altra lo si può fare

23 Goodman parla sicuramente di quel tipo di notazione ultra specificato come quello utilizzato dal 1800 in avanti; ma mi sembra troppo ardita l'affermazione della Goehr che la sonata di Tartini, del 1749 circa, non è un'opera musicale perché non risponde ai requisiti della notazionalità individuati da Goodman. Per la stessa ragione la Goehr, come Goodman, non ammette che nemmeno alcune composizioni contemporanee, come quelle aleatorie, siano opere: mi sembra eccessivo, e in generale contrario alla proposta della stessa Goehr. Infatti la notazione non è un criterio suf- ficiente, da sola, per l'identità dell'opera; la Goehr parla anche di condizioni sociali, economiche, legislative, cultu- rali in senso lato.

solo in riferimento al contesto della comunità storico-culturale.

Il pensiero contestualista e pragmatico reputa le opere musicali e le loro performance non in quanto entità oggettive, bensì attività legate a una pratica in un contesto. Un’opera è un set di stipulazioni, proibizioni e rinvii che sono costruiti solo in un ambiente di convenzioni che ne determinano il si- gnificato e il grado di vaghezza. Questa idea è molto utile per discutere il platonismo di Wolter- storff e, in generale, l'improvvisazione. Goehr critica sia il modello notazionale di Goodman, che quello rule-based di Tormey/Cochrane, sulla base del fatto che entrambe sono idealizzazioni. Dal punto di vista storico e pragmatico non hanno un gran valore. La sua argomentazione si chiede: nel- la pratica d'ascolto sapremmo dire se un'esecuzione ha compitato esattamente una partitura, oppure quale regola ha seguito? Difficilmente l'ascolto riesce a percepire le “regole” (Cavell 1976; Da- hlhaus 1979).

Le rimostranze storico-culturali di Goehr verso Goodman riabilitano una visione non edulcorata, non idealizzata della prassi. Goodman, secondo Goehr, ci consegna un ideale di come le cose do- vrebbero andare; queste ci si possono avvicinare, ma non possiamo pretendere, come requisito del- le condizioni d'identità, qualcosa che non si realizzerà mai nella pratica. Nessuna esecuzione sarà mai fedele per ogni singola nota. Nessuna esecuzione si limita alla sola notazione. C'è una differen- za categoriale evidente tra la notazione e il suono.

La Goehr non fa altro che esibire il vincolo pragmatico: la teoria di Goodman è tanto bella quanto asettica. È un laboratorio che non ammette imperfezioni di sorta. Eppure, fuori dall'ambiente asetti- co, tali imperfezioni esistono. In quanto idealità, la teoria di Goodman non è, secondo Goehr, indi- fendibile o contraddittoria. È semplicemente lontana dal mondo concreto della produzione e della ricezione artistica; il principio, per me sacrosanto, è che sia meglio fare i conti con questo mondo, piuttosto che costruire vetrini da laboratorio.

6 La teoria dell'interdipendenza di Alperson e le obiezioni di Spade

Nel documento Che cos'è l'improvvisazione musicale? (pagine 37-41)

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