• Non ci sono risultati.

1. L'Epistola ai Romani

1.3 La Chiesa di Esaù e la Chiesa di Giacobbe

Riguardo al rapporto Chiesa - Israele, nella concezione de L'Epistola ai Romani di Barth, sembra apparire come priva di problemi la continuità e la comune visione di Dio di “giudei” e “pagani”. Del resto si tratta in entrambi i casi di costituzioni umane e dunque relative, al cospetto dell'assoluta alterità del giudizio divino: “nessuno è mai sicuro nei confronti di questa possibilità: ancora una volta il Giudeo e il Greco, l'uomo di Dio e l'uomo del mondo, stanno nei suoi riguardi sulla stessa linea, sotto la stessa minaccia”268. Certo, più avanti Barth ravvisa chiaramente nell'elezione dei

pagani e nella non-elezione di gran parte degli ebrei, secondo lo schema di Paolo Romani, un terribile avvertimento: “Una scandalosa, stupefacente, incredibile esemplificazione delle prospettive che si offrono quando Dio viene inteso come il giudice: uomini che non hanno rivelazione stanno davanti a Dio come coloro che hanno una rivelazione”269.

Il procedere de L'Epistola ai Romani è, a parere di Italo Mancini, indebitamente definito dialettico, se tale intendiamo un processo di risoluzione di un'antitesi iniziale in una finale sintesi conciliativa dei due termini. Nel testo del '22 vi è certo, come rileva Mancini, la presentazione del movimento del divino nei confronti dell'umano, che si compone di tre momenti: “La Notte” della lontananza assoluta da Dio, “La Fede”, nel senso che si intendeva innanzi come l'avvento della potenza redentrice divina, e infine, “L'uomo nuovo”, oggetto della grazia, che passa dalla riprovazione

263 Ivi p. 11 264 Ivi p. 14 265 Ivi p. 12

266 H. KÜNG, La Giustificazione, cit., p. 25 267 Ivi pp. 29-30

268 K. BARTH, L'Epistola ai Romani, cit., p. 38 269 Ivi p. 40

all'elezione in Cristo come dall'ombra alla luce. Tuttavia, “con questa radicazione alla volontà di Dio torniamo alla radice calvinista che spiega tutto il barthismo eliminando definitivamente la dialettica come forza autonoma”270. Del resto, vi è un'opposizione che ne L'Epistola ai Romani non

trova risoluzione e che emerge a partire dal capitolo VII, in cui vengono messi in luce i limiti della religione, e ancor più nel capitolo IX in cui viene tematizzata il fallimento della Chiesa.

Qui e nei due capitoli successivi, corrispondenti al commento della lettera di Paolo ai Romani 9-11, l’argomento è la Chiesa, secondo tre conseguenti caratterizzazioni: la distretta della Chiesa, la colpa della Chiesa e infine la speranza della Chiesa. Ma viene messo a tema anche Israele che, del resto, sembra posto significativamente sullo stesso piano della Chiesa, in una luce che tuttavia non è affatto esaltante e celebrativa. Barth distingue infatti semmai tra una “chiesa di Esaù” e una “Chiesa di Giacobbe”, in riferimento ai due fratelli di cui narra la Genesi, figli di Isacco e Rebecca, dei quali Esaù era il primogenito e Giacobbe il secondo. Tramite un inganno ordito assieme alla madre, il secondogenito riesce a carpire al padre, ormai anziano, cieco e in punto di morte, la benedizione, segno dell'elezione ad erede, del padre, sottraendola al primo cui sarebbe spettata.

A partire da questo racconto, la conclusione di Karl Barth è che la Chiesa, così come la conosciamo, è al pari di Esaù, “la personificazione dell'ultima possibilità umana al di qua della impossibile possibilità di Dio. [...] La Chiesa è il tentativo più o meno vasto ed energico di umanizzare, temporalizzare, oggettivizzare, mondanizzare il divino”271. Ma considerato tutto quanto abbiamo

detto finora, un tale tentativo non può che essere fallimentare, non può che costituire una “distretta” per la Chiesa, in netto contrasto con quella fede che è situata nella fedeltà di Dio, e che, in senso decisamente kierkegaardiano, vede l'uomo stare da solo di fronte a Dio nella infinita differenza fra i due:

“Tu non devi, di necessità, voler aver ragione di fronte a Dio, solo in tal modo tu dovrai, di necessità, indirizzare la tua querela contro di Lui, che tu impari d'aver torto! [...] Allorquando ti si vieta di venire a contesa con Dio, allora con ciò si indica la tua perfezione, e non affatto che si dica che tu sei un essere da poco, senza alcuna importanza per Lui. Il passerotto cade a terra, esso ha in certo qual modo ragione di fronte a Dio, il giglio si secca, esso ha in certo qual modo ragione di fronte a Dio, … solo l'uomo ha torto, a lui unicamente è riservato ciò che venne negato a tutto, d'aver torto di fronte a Dio”272

Si potrebbe davvero riassumere in queste poche righe della conclusione di Enten Eller l'intero insegnamento di Barth sulla Chiesa. Per Kierkegaard, la dignità ultima dell'uomo, rispetto a tutti gli altri esseri naturali, sta dunque nella possibilità di avere torto nei confronti di Dio. Questa concezione giunge alla fine di una lunga presentazione delle possibilità umane di realizzazione, nell'immediatezza del piacere estetico da una parte, nella severità dell'auto-regolazione etica dall'altra. In nessuno dei due ambiti l'uomo porterà a compimento la propria personalità in autonomia: avvertirà dunque in ultima battuta l'esigenza di affidarsi a Dio, di riconoscere al cospetto di Dio il proprio “aver torto” e affidare a lui, alla sua volontà, la propria singolarità, affinchè la realizzi. In altre parole, stando al testo di Barth, “il punto di vista di Dio viene preservato

270 I. MANCINI, Il pensiero teologico di Barth nel suo sviluppo, in K. BARTH, Dogmatica Ecclesiale. Antologia a cura di Helmut Gollwitzer, Introduzione di Italo Mancini, cit., p. LXII

271 Ivi p. 314

di fronte a tutti i nostri punti di vista. Egli ha ragione e noi tutti abbiamo torto”273.

Ma se la soluzione di Kierkegaard è quella della solitudine del cavaliere della fede, di Abramo sul monte Moira, avvolto nel silenzio della propria condizione paradossale, in Karl Barth rimane importante invece il ruolo della comunità, appunto del “noi”, nel disegno dell'elezione divina. Per Kierkegaard la differenza essenziale tra il cavaliere della fede e l'eroe tragico consisteva proprio nella possibilità di quest'ultimo di trovare infine consolazione e pacificazione nella propria comunità, avendo obbedito al volere degli dei: Agamennone uccide Ifigenia per ottemperare al dovere religioso e comunemente accettato di propiziare il viaggio verso Troia. Abramo, d'altra parte, viene chiamato da Dio a compiere il gesto, al di fuori di ogni giustificazione religiosa ed etica, di uccidere il proprio figlio.

“Il cavaliere della fede dispone solamente e unicamente di se stesso ed è in questo che consiste la cosa spaventosa. I più vivono l'obbligazione etica in modo da lasciare a ogni giorno la sua pena, ma essi così non arrivano mai a questa concentrazione infinita, a questa coscienza energica”274

Barth si erige invece decisamente a favore di colui che permane all'interno della comunità, che mantiene la propria posizione:

“la conseguenza di uscire dalla Chiesa o dalla funzione pastorale è anche meno assennata che quella di togliersi la vita. In presenza della catastrofe inevitabile nella quale la Chiesa si trova, egli non cercherà di salire sul canotto di salvataggio, ma ringraziato o non ringraziato rimarrà al suo posto, nella sala delle macchine o sul ponte di comando. Egli non occuperà alcuna posizione senza la segreta intenzione di abbandonarla non appena sarà raggiunto il fine tattico”275

Questa è stata la condotta, non tanto di Abramo, quanto di Paolo, che come evidenzia Barth, afferma di voler essere egli stesso anatema al posto dei propri fratelli ebrei. Ecco dove sta la relazione tra Chiesa e Israele: nella solidarietà con cui Paolo non rinnega i propri “parenti”, nel superamento della “polemica di 'noi' contro 'loro'”.

“Egli vede che appunto dove la Chiesa raggiunge il suo scopo come servizio reso dall'uomo, essa fallisce al fine di Dio e il giudizio è alla porta. Egli sta dunque, triste, pensieroso, pieno di interrogativi e di timore nella Chiesa […] Ma egli sta nella Chiesa”276

E questo perché “Cristo si trova dove l'uomo sconsolatamente sa che è bandito e lontano da Cristo; non mai dove l'uomo pensa di essersi assicurato contro l'angoscia di questa conoscenza”277. Il senso

dunque di Israele, e della Chiesa, sta nel costituire appunto l'ultima possibilità umana di fronte a Dio, che in quanto umana, sarà comunque sempre infinitamente differente dal divino. Sta, in altre parole, nell' “aver sempre torto davanti a Dio”, non più come Singolo, ma come Comunità. Nei

273 K. BARTH, L'Epistola ai Romani, cit., p. 316

274 S. KIERKEGAARD, Frygt og Bæven, Copenaghen, 1843 trad. it. a cura di C. Fabro, Timore e tremore, Milano, Rizzoli, 1972, ed. 2010, p.95

275K. BARTH, Lepistola ai Romani, cit., p. 318 276 Ivi p. 317

termini della Dogmatica ecclesiale:

“Israël est le peuple juif qui s'oppose à l'élection divine. C'est le peuple de Dieu qui doit manifester la mauvaise volonté, l'incapacité et l'indignité humaines face à l'amour de Dieu […] Mais Israël, le peuple juif qui s'oppose à l'élection divine, est secrètemente la source de l'Eglise – de cette Eglise qui exalte la seule miséricorde divine par la seule foi au seul et même Dieu”278

Ma quella che qui diviene chiaramente l'opposizione tra Chiesa e Israele a livello de L'Epistola ai

Romani rimane la differenza fra la Chiesa di Esaù e la Chiesa di Giacobbe, rendendo ancora più

forte il rapporto tra il popolo dell'antica e quello della nuova Alleanza.

“Poiché il tema felice e terribile della Chiesa, la parola di Dio in cui la relazione dell'uomo con Dio si verifica è questo: Dio è vero, ogni uomo è bugiardo (Rom. 3,4). E per questo suo tema la Chiesa si divide sempre di nuovo nella Chiesa di Esaù, nella quale il miracolo non avviene e nella quale perciò ogni udire e parlare di Dio può soltanto rendere manifesto che l'uomo è bugiardo, e nella Chiesa di Giacobbe, nella quale si compie il miracolo e la verità di Dio diventa visibile al di sopra della menzogna dell'uomo”279

Inoltre, chiarisce Barth, “la chiesa di Esaù è la sola chiesa possibile, visibile e conosciuta e comprende in sé Gerusalemme, Wittemberg, Ginevra e tutti i luoghi santi passati e futuri senza eccezione”280 . Possiamo correlare questa posizione con quanto espresso da Barth a commento del

versetto 3,4 sulla “mendacità” dell'uomo rispetto alla verità di Dio:

“Dio è verace; Dio è la risposta, l'aiuto, il Giudice, il Salvatore: non l'uomo, né l'orientale, né l'occidentale, né l'uomo tedesco e neppure l'uomo biblico, né il pio, né l'eroe, né il savio, né colui che aspetta, né colui che opera, e neppure il superuomo; ma Dio solo, Dio stesso! […] la fedeltà di Dio permane sopra il salire e il calare delle onde della storia, nonostante la infedeltà umana, anzi nella infedeltà umana. Permane il 'peculiare' (3,1) che il Giudeo non ha mai ricevuto”281

Quello di Karl Barth è decisamente uno sguardo dall'alto, una visione che, come nota giustamente Küng, “ha fatto propria l'intera evoluzione dell'idealismo da Kant a Hegel, passando per Fichte e Schelling”, ma proprio per questo, proprio perché “K. Barth pensa e parla altrimenti” e il suo linguaggio non è quello della “ben definita scolastica aristotelica”282, i suoi contenuti non possono

che delineare una sorta di “teologia negativa”, dialettica, che vede emergere il “Si” di Dio, la sua elezione, soltanto a partire dal radicale “No” di tutto ciò che è umano, ivi compresi la Chiesa e Israele. Ancora nel capitolo III de L'Epistola egli afferma che la storia non è altro che un susseguirsi di lotte per la supremazia, e che il giudizio di Dio non può essere che “la fine della storia”283,

quell'evento peculiare che è rimasto sconosciuto al “Giudeo”. Anche la storia, Geschichte, viene

278 K. BARTH, Dogmatique, V. II tomo 2, cit., p. 208: "Israele è il popolo ebraico che si oppone all'elezione divina. È il popolo di Dio che deve manifestare la cattiva volontà, l'incapacità e l'indegnità umane di fronte all'amore di Dio […] ma Israele, il popolo ebraico che si oppone all'elezione divina, è segretamente la fonte della Chiesa – di questa Chiesa che esalta la sola misericordia divina attraverso la sola fede al solo e al medesimo Dio"

279 Ivi p. 323 280 Ibidem 281 Ivi p. 54

282 H. KÜNG, La Giustificazione, cit., p. 21 283 K. BARTH L'Epistola ai Romani, cit., p. 51

dunque a contrapporsi, ne L'Epistola ai Romani, alla Urgeschichte, alla storia originaria della manifestazione di Dio in Cristo, che viene a costituire l'unico evento storico determinante.

Se dunque vi è qualcosa in comune tra la Chiesa e Israele, questo è il fallimento a cui è destinato ogni tentativo umano di raggiungere il divino. E tale “distretta” è dimostrata tragicamente dal fatto che, con le parole di Paolo: “i pagani che non procacciavano la giustizia hanno conseguito la giustizia”. In altre parole, Dio sceglie Giacobbe e non Esaù, “Israele che andava a caccia di una legge della giustizia, non ha raggiunto una tale legge”284. Questa imprevedibilità dell'elezione divina

porta secondo Barth ad una “crisi della conoscenza” che diviene “colpa” della Chiesa, data dalla sua ostinazione a voler andare a caccia di un “fantasma”, a voler conoscere il Dio sconosciuto: “Essa non vuole essere straniera nel mondo”285,

“Essa non dovrebbe morire se non lottasse così aspramente per la sua vita. Essa udirebbe e predicherebbe la parola di Dio, se si preoccupasse unicamente della verità di questa parola […] essa potrebbe essere il luogo della conoscenza se volesse essere un luogo di adorazione appunto del Dio inconcepibile, davanti al quale nessuna carne è giusta”286

La colpa della chiesa consiste sostanzialmente nel restare chiusa in sé stessa: “una chiesa veramente seria non può rimanere chiusa in sè”287, senza restare aperta al miracolo dell'elezione divina,

perpetuando se stessa piuttosto che quella parola rivelata da Dio di cui deve farsi testimone. D'altra parte, conviene Barth, non può fare altrimenti. Difendere e perpetuare se stessa è qualcosa che sta nella sua natura, come un istinto vitale:

“se si riconosce questo, se si calcola la possibilità che la salus sia anche extra ecclesiam, che Esaù possa anche essere Giacobbe, l'eletto, dove rimane la spina dorsale della Chiesa, la sua fiducia nella sua propria missione? Non è forse evidente che la Chiesa Romana, con la sua pretesa, difende in fondo soltanto i legittimi interessi di ogni Chiesa? Che avviene della affannosa ricerca di giustizia da parte di Israele, del suo zelo per Dio, se deve convenire che appunto gli 'altri' che non cercano e che non hanno zelo hanno già raggiunto il loro scopo?”288

Constatato dunque che la Chiesa con Israele è colpevole di non voler ammettere il proprio fallimento, un fallimento che del resto le è destinato in quanto appartenente alla sfera umana, Barth conclude con un'affermazione importante e significativa: “Né dimentichiamo il sintomo dei sintomi: la Chiesa – non il mondo, la Chiesa – ha crocifisso Cristo”289, e ne è dunque anche colpevole, nella

misura in cui non ne assume consapevolezza, non prende coscienza di essere di ostacolo nel momento in cui tenta di porsi in mezzo tra l'uomo e Dio, di essere una via umana verso Dio, invece di essere “completamente orientata al Dio sconosciuto, vivente e libero, una Chiesa tutta concentrata sulla predicazione della croce”290.

284 Ivi p. 344 285 Ivi p. 350 286 Ivi p. 349 287 Ivi p. 349 288 Ivi p. 347 289 Ivi p. 371 290 Ivi p. 350