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1. L'Epistola ai Romani

1.4 L’unità di Dio come speranza per la Chiesa

Ma in questo quadro tetro e tenebroso, Barth vede anche la possibilità di una speranza, quella che si apre proprio a partire dal fatto che l'elezione divina non dipende affatto dalle proprie opere, ma soltanto dalla fede, anzi dalla fedeltà di Dio stesso. Questa consapevolezza, se può essere inizialmente tragica per la Chiesa e per Israele, diventa infine anche l'unica via di scampo, costituita, nei termini barthiani, dall' “unità di Dio”. Per comprendere questo concetto dobbiamo situarci nel passaggio tra i capitoli 10 e 11 della lettera ai Romani, a partire dalla citazione che Paolo riprende da Isaia: “Tutto il giorno ho teso le mani verso un popolo disobbediente e contraddicente”, cui segue il commento dell'Apostolo: “Ora io dico: Dio avrebbe reietto il suo popolo? Impossibile! Perché anch'io sono un Israelita della progenie di Abramo, della tribù di Beniamino. Dio non ha reietto il suo popolo che ha conosciuto”291

E qui continua in Barth, a partire dalla sua interpretazione di Paolo, una difesa della comunità, dell'appartenenza, se pure si tratti, come si è visto, di un'appartenenza disperata e persino colpevole:

“Noi siamo dunque giudei, cattolici, luterani, riformati. Noi saliamo sopra ovvero sediamo ai piedi di ogni sorta di pulpiti, di cattedre […] Noi abbiamo sentito quello che Kierkegaard ha da obiettare a tutto questo e gli abbiamo dato ragione”, E tuttavia, “noi non possiamo liberarci dal Giudaismo se non come Giudei, dal fariseismo se non come farisei, dalla teologia se non come teologi”292

Il popolo eletto da Dio, Israele anzitutto, e poi la Chiesa, ogni chiesa, continua a conservare il proprio ruolo nella storia della salvezza, accanto ai pagani, a coloro che stanno fuori e che pure sono inaspettatamente eletti da Dio. Ciò che unifica questi due “popoli”, è il fatto che “gli uni e gli altri sono oggetti, portatori, strumenti, di un'unica azione divina. Come possibilità divina l'elezione è anche sempre la possibilità della reiezione”293:

“Se Dio tende le braccia tutto il giorno a un popolo disobbediente e contraddicente (10,21) e sei noi consideriamo questo così seriamente, così esistenzialmente da non sentire il bisogno di unirci a questo popolo perché sappiamo che in ogni caso ne facciamo parte, allora, appunto nel fatto che Dio è colui contro il quale veniamo ad infrangerci, noi troviamo l'invincibile, la vittoriosa speranza per questo popolo e per noi stessi”294

E questa speranza risiede appunto nell'unità di Dio, ovvero, nell' “identità del Dio adirato con il Dio misericordioso, del Deus absconditus con colui che resuscitò Gesù dai morti”295. La “chiave” di

questo ragionamento sta alla conclusione del capitolo 11 della Lettera ai Romani: “poiché Dio ha rinchiuso tutti sotto la disobbedienza per fare misericordia a tutti”296. Qui si perviene in effetti al

concetto di doppia predestinazione della dottrina calvinista per cui ogni uomo può essere egualmente redento o riprovato da Dio ed è esplicito il ritorno di Barth all'ortodossia protestante.

291 Ivi p. 373 292 Ivi pp. 374-75 293 Ivi p. 385 294 Ivi p. 375 295 Ivi p. 376 296 Ivi p. 404

Barth cerca e trova la congiunzione di Giudei e pagani, Israele e Chiesa, reiezione e redenzione, soltanto tramite l' “assolutamente altro” dall'uomo che il divino rappresenta. Anzi quello che sembra dire Barth é che proprio in virtù della lontananza e della disobbedienza, volte a marcare la distanza di ogni forma umana dal totalmente altro divino, è possibile pervenire alla redenzione, una redenzione che appunto in questo senso fa tutt'uno, certo costituendo un paradosso, con la reiezione. Fra giudei e gentili, fra coloro che stanno dentro e coloro che stanno fuori, non dovrebbe dunque persistere una perenne rivalità e divisione, ma semmai un rapporto di reciproca solidarietà, o quanto meno di reciproca testimonianza. Vanno in questo senso i versetti 12-15 del capitolo 11 di Paolo Romani: “Ma se la loro caduta è ricchezza per il mondo e la loro diminuzione è ricchezza per i pagani, quanto più lo sarà la loro pienezza! A voi pagani dico questo! Appunto in quanto io sono l'Apostolo dei pagani cerco la gloria del mio ministero nel muovere a gelosia quelli del mio sangue e salvarne alcuni. Poiché se la loro reiezione è la riconciliazione del mondo, che sarà la loro riammissione se non una vita dalla morte?”297.

La testimonianza dei pagani, che deve suscitare gelosia nei Giudei, deve riguardare dunque la speranza della salvezza per coloro che erano stati inizialmente rifiutati. Essi devono, con le parole di Barth, “riconoscere la loro alterità soltanto in ciò che giustifica anche i primi e non tarderà a salvare anche alcuni di loro, a strapparli dal loro indurimento, a trasformarli in una indicazione del fatto che anche per tutti loro il futuro eterno è la salvezza e non la perdizione”298.

D'altro canto Israele, assieme alla Chiesa, deve testimoniare l'altro versante di tale speranza, ovvero il fatto che in essa è insita anche la perdizione, il crollo di tutto ciò che è umanamente costituito di fronte all'alterità di Dio. Stando sempre al dettato de L'Epistola ai Romani: “L'umanità è in essi avvertita che vi è sempre un luogo ove vengono ricavate le estreme conseguenze delle possibilità che le sono date perché nella loro potente impossibilità si riveli la conseguenza della possibilità di Dio”299.

In questo senso è emblematica la figura di Paolo, il quale non può che essere apostolo dei pagani proprio nella misura in cui appartiene alla schiera dei giudei e si riconosce tale: “non sarebbe l'eletto di Dio, se persistesse nell'opinione che il Giudeo è come tale reietto e che la Chiesa ha esaurito il suo compito”300.

Si perviene dunque ad una paradossale unione/contrapposizione tra Giudei e pagani, rappresentata plasticamente dall'olivo nei versetti 16-18 di Paolo Romani, figura ripresa anche dalla dichiarazione

Nostra Aetate. In tale albero alcuni rami sono recisi ed altri innestati, così come nel disegno

imperscrutabile della salvezza di Dio alcuni popoli sono reietti e altri eletti. In questo processo, la “grassa radice” dell'ulivo non è costituita da nessuno di questi popoli: “tu non porti la radice, ma la radice porta te”301. Essa è costituita da Cristo, è la trascendenza di Dio, “la santità del Dio che abita

in una radice inaccessibile”; “Grande illusione il credere che potrebbe anche avvenire il contrario, che tu con la tua schiettezza, purezza, onestà laica potresti essere in qualche modo la radice, la fonte del divino”302. Israele e la Chiesa sono dunque legati dal comune torto, dalla comune nudità e 297 Ivi p. 385 298 Ivi p. 388 299 Ivi p. 389 300 Ivi p. 388 301 Ivi p. 390 302 Ibidem

povertà di spirito di fronte alla potenza di Dio: “dove si potrebbe trovare una paganità che non fosse solidamente una con Israele in questa 'inimicizia', in questo 'traboccare del peccato', nella totale perdizione di questa situazione?”303. Ma allora la Chiesa, un chiesa autentica, dovrebbe in effetti

costituirsi come “la comunità di coloro che cercano il perdono, e perciò sono santi, dei perduti e perciò salvati, dei morenti e perciò viventi”304. Ogni altro genere di intolleranza e irritazione, ma

anche di sicurezza, spiega Barth, risulta del tutto superflua di fronte a questo problema radicale del rapporto tra uomo e Dio. Di fronte a questa opposizione “nessuno è competente per disperare” e nessuno è “nella condizione di non sperare”305.

Nella prefazione alla seconda edizione, qui considerata, de L' Epistola ai romani, Karl Barth mette a inizio pagina la citazione in greco di Paolo Galati 1,17: “Senza andare a Gerusalemme … mi recai in Arabia”. Tale citazione, che riguarda i viaggi di Paolo, sta forse lì a rimarcare la distanza in cui ogni popolo, compreso Israele, si trova di fronte al giudizio di Dio.

Del resto, come chiarisce Giovanni Miegge nell'introduzione al testo barthiano:

“l'atteggiamento di radicale opposizione al cristianesimo giudaizzante assunto fin dall'inizio dall'apostolo Paolo era stato al tempo stesso l'effetto e la causa di un profondo processo di revisione religiosa, che investiva non soltanto i rapporti storici tra giudaismo e cristianesimo, ma le condizioni stesse del rapporto fondamentale tra l'uomo e il divino”306.

Quello che era in gioco era “l'essenza stessa del cristianesimo”, come religione interna o esterna all'ebraismo. Ciò che ne risulta in Paolo, sempre nella riflessione di Miegge, è “nella sua travolgente paradossalità, la fede nel crocifisso e nel risorto”, contrapposta alla Legge e al legalismo tipici della comunità di Israele.