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3. Una confessione per la chiesa

3.6 Un debito di Barth verso gli ebrei?

Certo si può notare anche che rimangono ancora alcune questioni inevase: che ne è, anzitutto della questione ebraica? Il rapporto di Barth con l'ebraismo, risulta infatti non del tutto chiaro a partire dagli eventi finora considerati, soprattutto alla luce di tale dichiarazione. Se per Bonhoeffer quello degli ebrei costituiva uno dei problemi centrali, legato alla questione del paragrafo ariano, la riflessione di Barth, d'altra parte, pur prendendo in considerazione la condizione ebraica sotto il nazismo, sembra il più delle volte orientata in particolare verso la riaffermazione della fede evangelica.

La complicata posizione di Barth nei confronti del giudaismo emerge in tutta la sua ampiezza nel saggio di Mark C. Lindsay del 2007 Barth, Israel and Jesus, che cerca di dare una visione degli eventi sostanzialmente favorevole nei confronti del pastore di Safenwil, senza però evitare di prendere in considerazione anche le posizioni fortemente critiche.

La più recente e severa critica in questo senso è espressa da Cathrine Sonderegger, con il testo del 1992 That Jesus Christ was born a Jew371, in cui Barth viene accusato di una scarsa conoscenza

dell'ebraismo nei suoi sviluppi storici e contemporanei. Secondo Eberard Busch, tale impressione deriva in effetti dall'essenziale cristocentrismo dell'opera barthiana che sembra emergere chiaramente anche dalla confessione di Barmen. Il teologo e diplomatico ebreo Pinchas Lapide, in un'articolo su The ecumenical Review definisce i fatti di Barmen “a jewish debit account”372

accusando la chiesa confessante di reticenza verso la persecuzione ebraica portata avanti dal regime di Hitler. Secondo Michael Wyschogrod, l'antisemitismo era qualcosa contro cui Barth combatteva prima di tutto a livello interiore, “fighting against his Gentile nature that demands antipathy to the people of election”373

Due documenti sono in effetti decisamente significativi in questo senso. Nel 1967 Barth scrisse una lettera a Eberhard Bethge, per esprimere grande apprezzamento per la sua recente pubblicazione delle lettere dal carcere di Dietrich Bonhoeffer, nel volume poi divenuto celebre con il titolo “Resistenza e Resa”. Qui colpisce un'affermazione che riguarda il tema dell'antisemitismo: “I have long since regarded it as a fault on my part that I did not make this question a decisive issue”374.

Si tratta di una confessione autentica?

In un'altra lettera dello stesso anno, questa volta al teologo esperto di ebraismo F. W. Marquardt, Barth ammette: “‘in personal encounters with living Jews...I have always, so long as I can remember, had to suppress a totally irrational avversion.”375

371 Vedi: K. SONDEREGGER, That Jesus Christ was Born a Jew: Karl Barth’s ‘Doctrine of Israel’, Pennsylvania University Press, 1992

372 P. LAPIDE, No Balm in – Barmen? A jewish debit account, in The Ecumenical Review, Vol. 36, Issue 4, Ottobre 1984, pp. 423-436

373 Cit. in M. R. LINDSAY, Barth, Israel and Jesus: Karl Barth's Theology of Israel, Aldershot, Ashgate Publishing, 2007, p. 43: “doveva combattere contro la sua natura di gentile, che richiedeva [di provare] antipatia per il popolo eletto”

374 Ivi p. 35: “ho sempre considerato un errore da parte mia di non aver fatto di tale questione il problema centrale” 375 Ivi p. 38: “ Negli incontri personali con gli ebrei ho sempre dovuto, per quanto potevo, sopprimere un'irrazionale

Indagare l'interiorità di un pensatore e teologo così complesso non è un compito facile, e gli unici strumenti per farlo, sono effettivamente la sua vita e le sue opere, ed eventualmente il legame che si crea fra questi due aspetti. Per quanto riguarda i fatti, a dispetto delle personali confessioni di Barth, non si può negare il suo grande impegno nelle battaglie contro il nazismo, con un'attenzione rivolta anche agli ebrei. Possiamo citare ancora due eventi, oltre a quelli già considerati, che vengono riportati da M. Lindsay. Nell'avvento del 1933 tenne un sermone in cui mise in evidenza l'ebraicità di Gesù e di conseguenza, affermò che i credenti in Cristo: “simply cannot be involved in the contempt for Jews and ill-treatment of them which is now the order of the day”376. Lo stesso spirito

sembra guidare una lettera di quell'anno in cui Barth definisce la questione degli ebrei “the symbol of all events of our time”377, a partire dal quale si coglie la necessita di fermarsi e comprendere che

qui si è compiuto decisamente un tradimento del Vangelo.

Nel 1935 Karl Barth, professore all'università di Bonn, si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al

Führer, venne così licenziato dall'insegnamento e dovette fare ritorno a Basilea, dove fu fatto dal

governo cantonale commissario per i rifugiati, e svolse così un importante ruolo nell'accoglienza dei profughi ebrei in svizzera, prendendone alcuni anche personalmente presso la propria casa. Importante fu anche il ruolo della sua segretaria dell'epoca, Charlotte Von Kirschbaum che era in contatto con la resistenza ebraica e cristiana in Germania. Significativa in questo senso è la vicenda di Helmut Hesse, pastore luterano di Elberfeld, imprigionato e morto nel campo di Dachau a causa di un proclama in cui affermava: “As Christians we can no longer tolerate the silence of the Church on the persecution of the Jews. What leads us to this conclusion is the simple commandment to love one’s neighbour”378. Come riferisce M. Lindsay, forte del parere del biografo di Barth E. Busch, tale

dichiarazione sarebbe opera di Karl Barth, giunta a Hesse tramite Kurt Müller, un amico di Charlotte. Ancora Lindsay riferisce delle complicate mediazioni che fecero pervenire a Barth, nel 1944, un rapporto dettagliato sulle condizioni del campo di Auschwitz redatto da Rudolf Vrba e Alfred Wetzler, due ebrei slovacchi riusciti a fuggire. Fu il Rabbi Zwi Taubes di Zurigo a consegnare una copia di questo documento a Karl Barth, che subito allertò il consiglio federale e successivamente coinvolse altri amici, Paul Vogt, Emil Brunner e Willem Visser't Hooft, che mandarono una nuova lettera al governo facendo presente la massiccia deportazione degli ebrei nei campi di concentramento, particolarmente grave in specie nei paesi dell'est Europa, soprattutto l'Ungheria. Purtroppo, a tali sollecitazioni non susseguirono azioni decisive e queste terre rimasero tra le più devastate dallo stermino nazista.

Come emerge da questi fatti, è estremamente difficile comprendere in modo univoco il rapporto di Barth con l'ebraismo. Possiamo condividere il pensiero di G. Hunsinger: “nothing would be more welcome than a single conception to unlock the whole...However, such a conception is unlikely to be found”379. Questo interprete del pensiero barthiano, ne mette in evidenza la natura labirintica,

costituita da diverse dicotomie.

376 Ivi p. 36: “semplicemente non può lasciarsi coinvolgere dal disprezzo e dal trattamento malato che oggigiorno è cosa ordinaria nei confronti degli ebrei” - come riferisce Lindsay questo sermone fu tenuto da Barth il 10 dicembre 1933 presso la Schloßkirche di Bonn

377 Ibidem: “il simbolo degli eventi del nostro tempo” - lettera di Barth a Frau Dalmann del 1 settemebre 1933 378 Ivi p. 78: “Come cristiani non possiamo più tollerare il silenzio della chiesa sulla persecuzione degli ebrei. Ciò che

ci porta a questa conclusione è il semplice comandamento di amare il proprio prossimo”

379 Ivi p. 27: “niente sarebbe più ben accetto di un'unica spiegazione per chiudere il cerchio... tuttavia, una tale spiegazione è lungi dall'essere trovata”

L'opera di Mark Lindsay, analizza gli scritti di quegli anni, in particolare gli ultimi due volumi della dogmatica sulla creazione e la riconciliazione di Dio, cercando di trovare dei paralleli e dei rimandi alla situazione storico-politica del tempo, ovvero gli anni 40 del '900. Prima di fare ciò tuttavia, l'autore ne chiarisce il principale ostacolo: l'avversione di Barth per ogni forma di teologia naturale, per ogni forma di avvicinamento dell'umano al divino, tramite il ricorso a espedienti storici e psicologici. Riflettendo, a distanza di anni, sulla dichiarazione di Barmen, il suo autore scriverà: “rappresenta il primo documento di un confronto confessante della chiesa evangelica con il problema della teologia naturale...Infatti quando a Barmen si affermava che Gesù Cristo, quale è attestato dalla Sacra Scrittura, è la sola parola di Dio, quando si rigettava l'idea che la predicazione della Chiesa potesse avere una fonte diversa da questa […] si enunciava una proposizione la cui portata superava di molto le teorie dei poveri cristaino-tedeschi […] nella misura in cui era elaborata seriamente, questa proposizione implicava la volontà di purificare la chiesa non soltanto dalla nuova teologia naturale che allora veniva concretamente discussa, ma da ogni teologia naturalmente presente nel suo seno”380

Annota a questo proposito E. Busch che: “soltanto una cosa Barth si imputerà più tardi come una colpa: il non aver introdotto la questione ebraica”, come si giustificò egli stesso, infatti, “un testo, nel quale avessi recepito questo punto, con le condizioni spirituali allora imperversanti... nel 1934 non sarebbe stato accettabile neppure per i 'confessanti'... Ma ciò non mi scusa dal non essermi allora impegnato in ogni forma su questa questione”381.

“Durante le vacanze estive”, continua Busch, “Barth trasse la conclusione radicale della decisione pratica che era stata presa con l'accettazione della Dichiarazione di Barmen”. Il biografo fa qui riferimento allo scritto dal significativo titolo “Nein!” con il quale il teologo dialettico rispondeva all'amico e collega Emil Brunner, che aveva da poco teorizzato, nel testo “Natura e Grazia”, l'eventualità di un ritorno “a una corretta theologia naturalis"382.

Come evidenzia M. Lindsay, nella mente dell'autore della dichiarazione di Barmen, il termine “theologia naturalis” veniva accostato a quello di volkische theologie alla base della convinzione dei Cristiani Tedeschi e dei movimenti neo-pagani legati al nazismo di poter vedere nel popolo tedesco ariano l'autentico destinatario del messaggio di Cristo. No! La rivelazione e la storia dovevano rimanere due piani distinti, per evitare il pericoloso rischio di confondere il livello degli eventi umani con quello dell'azione di Dio. Certo, l'interessante quesito che si pone a questo punto Mark Lindsay é se così facendo Karl Barth non sia divenuto indifferente, nella sua riflessione teologica, anche al terribile avvenimento dell'Olocausto, un evento che secondo molti pensatori sia cattolici che ebraici, non può non avere un'effettiva e determinante portata teologica: “The corresponding question posed by this premise thus becomes whether or not Barth’s rejection of natural theology disempowered him from adjusting his theology and therefore politics in the wake of the Holocaust”383, e se dunque, potremmo concludere, quelli che Busch presentava come la massima 380 E. BUSCH, Karl Barths Lebenslauf, Zürich, 1977, trad. it. di G. Moretto, Brescia, Karl Barth, biografia,

Queriniana, 1977, p. 217 381 Ibidem

382 Ivi p. 218

383 M. R. LINDSAY, Barth, Israel and Jesus, cit., p. 64: “La domanda che consegue da questa premessa è dunque se il rifiuto di Barth per la teologia naturale gli impedì o meno di aggiustare la sua teologia, e quindi la sua visione politica, sull'onda dell'Olocausto”

soddisfazione e il maggiore rimprovero del teologo a fronte della dichiarazione di Barmen, non siano in effetti l'uno la conseguenza dell'altro.

4. La Dogmatica e la storia