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1. L'Epistola ai Romani

1.2 La fedeltà di Dio

Un nuovo e vivo interesse per l'ebraismo era stato, in effetti, suscitato, sia in ambiente cattolico che protestante, dal sorgere di una rinnovata attenzione storico-critica verso i testi biblici. L'analisi esegetica accurata delle Scritture, non poteva che evidenziare lo stretto legame tra Antico e Nuovo Testamento, facendo riscoprire la profonda “ebraicità” della figura di Gesù, delle sue parole e azioni, del suo ambiente di vita e dei suoi seguaci. Risulta però difficile cogliere in questa chiave la considerazione di Barth per Israele, dato che la sua teologia nasce da una radicale opposizione sia al diffuso storicismo teologico della teologia protestante liberale, sia al razionalismo della teologia naturale cattolica. Infine, Karl Barth, si era posto in netto contrasto al suo professore di Berlino, Adolf Von Harnack, che aveva fatto della severa critica ai testi biblici il centro della propria attività teologica e riteneva che la dogmatica della religione andasse ricollegata con la sua dimensione storica.

Teologia “dialettica” o “della crisi”, così è stato in generale definito il pensiero di Barth all'interno di una corrente che caratterizzò altri teologi del Novecento. Von Harnack nel 1923, rivolgendosi apertamente ai teologi della corrente dialettica li apostrofò in termini quasi accusatori: “quei teologi che disprezzano la teologia scientifica”251

Karl Barth prontamente rispose:

“chi fa un'obiezione alla forma della teologia scientifica protestante, che si è presentata come normativa, dai giorni del pietismo e dell'illuminismo, e in particolare negli ultimi cinquanta anni della storia tedesca, non è per questo necessariamente un 'dispregiatore' della 'teologia scientifica'. L'obiezione è che questa teologia potrebbe essersi allontanata più di quanto sia consentito dal suo tema”252

Il tema è anche il titolo di uno dei paragrafi centrali de L'Epistola ai romani in cui il commento si

rivolge al passo 1,16-17 della Lettera:

“Poiché io non mi vergogno dell'Evangelo. Perché esso è la potenza di Dio per la salvezza di ognuno che crede, per il Giudeo anzitutto e anche per il Greco. Poiché la giustizia di Dio si svela in esso: dalla fedeltà alla fede, come sta scritto: il giusto vivrà per la mia fedeltà”253

Il tema è la “fedeltà di Dio”, termine che, come spiega Barth nella prefazione, vuole esprimere “la poliedricità del concetto, che palesemente riesce così poco con la solita e monotona traduzione 'fede'”254. Infatti:

“Noi abbiamo imparato a conoscere la fede e la sua giustizia come qualche cosa di peculiare, di nuovo, diverso dalla realtà concreta della religione, come la verità di ogni religione, come il suo puro, trascendente inizio. Essa non è mai identica con l'evidenza storica e psicologica dell'esperienza religiosa. Essa non si inserisce mai nella continuità dello sviluppo di un essere, avere e fare umano”255

251 Cit. in J. MOLTMANN, Anfäge der dialektischen Theologie, 1966, trad. it. di M. C. Laurenzi, Le origini della Teologia dialettica, Brescia, Queriniana, 1976, p. 376

252 Ivi p. 379

253 KARL BARTH, L'Epistola ai Romani, cit., p. 11 254Ivi p. 149

Questo perché la fede, o meglio la fedeltà, appartiene essenzialmente, nella visione di Barth, non tanto all'uomo quanto piuttosto a Dio, e “Dio rimane libero di fronte ai dati oggettivi della 'legge', alle impronte di rivelazione umanamente visibili, per quanto sia certo che questi dati oggettivi sono testimonianze della sua fedeltà”256.

Del resto, la teologia di Barth partiva dalla concezione tipica della cultura protestante, che lui riprendeva in particolare del pensiero di Kierkegaard, il quale vedeva Dio come il “totalmente altro” dall'uomo e dal mondo: “Dio è il Dio sconosciuto. Come tale egli dà a tutti la vita, il fiato e ogni cosa. Perciò la sua potenza non è né una forza naturale né una forza dell'anima […] ma la crisi di tutte le forze, il Totalmente Altro, commisurate al quale esse sono qualche cosa e nulla, nulla e qualche cosa”257. Va certo specificato che questa è la visione di Barth in particolare negli anni '20, in

cui i termini di “dialettica” e di “crisi” si esplicano nel loro significato più pieno e la distanza fra l'umano e il divino si fa abissale: “esso lo tocca come la tangente tocca il cerchio, senza toccarlo, e appunto in quanto non lo tocca, lo tocca come la sua limitazione, come mondo nuovo”258. Nel

saggio Biblische Fragen (Questioni bibliche)259, scritto a cavallo tra la prima e la seconda edizione

de L'Epistola ai Romani, Barth si sofferma sull'unità della Bibbia, data dalla direzione comune degli uomini rivolta verso il divino:

“Dio ha attirato sopra di sé l'attenzione degli uomini della Bibbia. Dio esige da loro che ascoltino in modo unico e gli obbediscano in modo assoluto. Poiché vuol restare fedele egli vuol essere santo e rimanerlo. Non vuol essere captato, non vuol essere sfruttato né utilizzato, egli non vuol servire. Vuol regnare. Egli stesso vuole attirare a lui, afferrare, sfruttare, utilizzare […] Non vuol essere qualche cosa accanto ad altre cose, vuol essere ciò che è il tutt'altro, la totalità di tutte le altre cose che non sono che relative”260

Ciò che tematizza Barth in questo saggio è dunque la peculiarità dell'attenzione degli uomini della Bibbia, sempre costantemente rivolta in un'unica direzione, verso il cielo, verso Dio. E in questo un ruolo determinante spetta al popolo d'Israele, “presso il quale”, dice Barth, “non è mai cessata questa specie di attenzione fissata su qualcosa di assolutamente altro”261.

Presentare una tale concezione dell'umano e del divino a partire dalla Lettera ai Romani di Paolo poteva porre a Barth due ordini di problemi, secondo G. Miegge: da una parte si poteva valutare il pensiero barthiano nella propria coerenza interna e nella capacità di affrontare i problemi del suo tempo, dall'altra, e questo fu fatto dalla maggior parte dei critici, considerare l'aderenza di questa concezione di Barth al dettato paolino. In questo modo, a parere di Miegge, si andava contro lo spirito di Karl Barth, che aveva fatto propria: “l'esigenza di rompere il circolo delle ricostruzioni erudite, delle analisi filologiche, delle comparazioni storico-religiose, di affrontare semplicemente, direttamente, un testo classico del cristianesimo per interrogarlo sui problemi vivi del nostro tempo”262. Questa intenzione sembra espressa ancora una volta nel paragrafo che il pastore svizzero 256 Ibidem

257 Ivi p. 12 258 Ivi p. 6

259 In K. BARTH, Das Wort Gottes und die Theologie, München, Chr. Verlag, 1924

260K. BARTH, Das Wort Gottes und die Theologie, cit. in K. BARTH, Kirchliche Dogmatik (Auswahl un Einleitung von Helmut Gollwitzer), Frankfurt, 1957, trad. it di P. Pioppi, Dogmatica Ecclesiale (Antologia a cura di Helmut Gollwitzer), Bologna, Il Mulino, 1968 , p. XXXIX

261 Ivi p. XLI

dedica al “tema” de L'Epistola ai Romani, ponendo l'attenzione sulla radicalità del testo evangelico: “L'Evangelo non ha bisogno di cercare né di fuggire il conflitto delle religioni e delle visioni del mondo. […] Esso non è una verità accanto altre verità, esso pone in questione tutte le verità, esso è il cardine, non la porta. […] In quanto è la negazione e la fondazione di ogni dato, esso è la vittoria che piega il mondo”263, infine dunque, “l'Evangelo richiede fede. Soltanto per colui che crede esso è

potenza di Dio per la salvezza. La sua verità non si comunica dunque né si discerne direttamente. Cristo è stabilito figliuolo di Dio 'secondo lo Spirito'”264. E la sua verità è dunque Cristo, o meglio

“la potenza di Dio che stabilisce Gesù come Cristo”265.

Come infatti chiarisce Küng fin dall'introduzione della sua tesi su Barth: “Certo la dottrina sulla giustificazione è particolarmente importante, particolarmente difficile e particolarmente necessaria. Ma K. Barth la considera soltanto come un aspetto particolare del messaggio redentivo cristiano” e questo perché “la giustificazione è un evento temporale ma non è fortuito o arbitrario. Secondo K. Barth, come tutte le opere di Dio essa è fondata sull'eternità di Dio: nell'eterna scelta di grazia di Dio in Cristo”266. Come si sarà compreso, la radicalità del pensiero barthiano consiste dunque nel

riaffermare Dio nella sua potenza e nella sua eternità a partire dalla sua rivelazione in Gesù Cristo e tramite la Parola. In altri termini, come chiarisce bene il passo già citato di Küng: “Al di fuori di Gesù Cristo […] non esiste elezione né via né opera di Dio […] Soltanto nel Cristo viene eletto il popolo degli uomini, la comunità di Dio nella sua duplice forma – Israele e Chiesa”267