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IV. TEMI DELL'EVOLUZIONISMO, TRA NATURA E SOCIETÀ

21. Clima, biologia e geografia

Osservare la natura con un occhio oggettivo, astrarla – o forse meglio sarebbe dire “materializzarla” – dalla dimensione religiosa, approcciare anche la questione umana con piglio naturalistico, non erano prassi inedite. L'evoluzionismo aveva semplicemente dato una precisione scientifica assente nei modelli dei secoli passati, cui corrispondeva un quadro teorico – questo sì – dissimile da tutti quelli precedenti. Rispetto alle altre dottrine materialiste e immanentiste, esso collocava in maniera un po' differente i tre grandi elementi della storia naturale: la vita, il clima e lo spazio. Le teorie di stampo ippocratico, egemoni prima dell'evoluzionismo e influenti anche sul lamarckismo, assegnavano al clima un ruolo predominante. A esso era solitamente riconosciuta la capacità di

determinare molte se non tutte le qualità degli organismi che vi soggiacevano. Il

darwinismo rivedeva tale paradigma, assegnando alla genetica un ruolo attivo. Darwin, infatti, a differenza di Lamarck e ancor più dei neo-lamarckiani separava la variazione dalla selezione: la prima come processo puramente biologico, interno all'organismo, casuale e per nulla o solo minimamente influenzato dalle condizioni esterne; la seconda assegnata invece alla natura. In questa natura rientrava il clima, ma non solo: essa includeva pure gli altri organismi, la cui interazione Darwin considerava massimamente importante. La geografia vedeva anch'essa il proprio ruolo rivalutato, non più solo come semplice collocazione rispetto alle aree climatiche del mondo. Geografia nel darwinismo significava pure spazio, posizionamento relativo rispetto agli altri organismi (in primis della medesima specie) nonché superficie a disposizione per l'estensione della vita. Come si è osservato in precedenza, la possibilità e capacità d'espandersi su un'area più o meno estesa influiva sensibilmente per Darwin sull'efficacia delle variazioni genetiche e, in ultima analisi, sul successo d'una specie o varietà nella lotta per l'esistenza. La lezione darwiniana lasciò un'impronta rilevante sulla forma mentis dei geopolitici, rendendoli molto sospettosi – a dispetto della vulgata comune – verso gli approcci più deterministi e ambientalisti, nonché particolarmente sensibili all'importanza dei grandi spazi. Vale perciò la pena di ripercorrerla più nel dettaglio.

Darwin nell'abbozzo del 1844 spiegava che le barriere naturali sono più importanti del clima nel determinare la diffusione delle specie terrestri1 e che l'affinità dipende più dalla discendenza che dal clima (in due luoghi dissimili ma vicini si troveranno più somiglianze biologiche che in due luoghi simili ma lontani)2. In Origin confermava l'idea che gli organismi affini non si ritrovano in regioni col medesimo clima, bensì in regioni collegate tra loro senza barriere intermedie3. Ciò affermando, Darwin negava la tesi di un'azione plasmante del clima sugli esseri viventi: a prevalere è la genealogia, ossia la genetica, e per suo tramite la semplice conformazione geografica che agevola o impedisce il movimento degli organismi (e del loro patrimonio genetico con essi). Le barriere d'ogni tipo hanno 1 Ivi, pp. 180-181.

2 C.R. DARWIN, The foundations of the Origin of species, cit., p. 190. 3 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1859, cit., pp. 346-350.

una «grande e impressionante influenza»4.

In una lettera a Asa Gray del 1857 stabiliva che anche l'interazione con gli altri organismi è assai più importante dell'influenza climatica5: un concetto ribadito due anni più tardi in Origin6. Il clima può distruggere intere specie solo in aree estreme per condizioni; in tutti gli altri luoghi è la concorrenza tra organismi a prevalere nella selezione naturale7. Stante ciò, non sorprende che per Darwin fosse non il clima o l'altitudine, ma l'interazione con altri organismi la principale determinante del raggio di diffusione d'una specie8. Cambiamenti geografici o climatici possono interagire con la diffusione d'una specie o varietà dominante, ma sul lungo periodo sono generalmente queste schiatte dominanti a prevalere: proprio perché il loro essere più numerose e diffuse in diversi ambienti conferisce loro una maggiore probabilità statistica di variare geneticamente9.

Non solo a livello di selezione naturale, ma anche di variabilità, l'ambiente aveva per Darwin un'influenza minore. A clima e alimentazione era disposto a riconoscere nulla più che una piccola influenza sull'insorgere di specifiche variazioni genetiche: le condizioni esterne possono avere un ruolo indiretto nell'indurre genericamente la variabilità, una «variabilità fluttuante, da cui l'intero organismo è reso in qualche modo plastico»; ma questo ruolo è sempre inferiore rispetto alle abitudini ed è la selezione naturale a decidere quali variazioni si conservano e quali no10. La variabilità è governata da tre fattori, di cui due intrinsechi all'organismo – la correlazione di sviluppo e l'uso/disuso delle parti – e solo il terzo inerente all'azione diretta delle condizioni fisiche di vita11. A riprova che le condizioni interne pesino più delle esterne nella variabilità, v'è pure il fatto che gli organismi superiori mutino in maniera differente (più rapida) degli inferiori12. Anche quando, in Descent, Darwin ipotizzò un ruolo meno omnicomprensivo per la selezione naturale, ci tenne a precisare che le ineffabili cause procatartiche delle differenze tra individui «riguardano molto più strettamente la costituzione dell'organismo variante piuttosto che la natura delle condizioni cui è soggetto»13.

Le convinzioni del naturalista inglese furono rafforzate dagli studi di August Weismann: se in condizioni differenti si osservano variazioni analoghe e in condizioni analoghe variazioni differenti, argomentava ricollegandosi alle ricerche del tedesco, andava dedotto che la natura dell'organismo sia un fattore di gran lunga più importante nel determinare le variazioni genetiche14. Una volta sorta la differenziazione, il passaggio a uno stadio più marcato di essa dipenderebbe non dall'azione protratta delle condizioni 4 Ivi, p. 353.

5 C.R. DARWIN, A.R. WALLACE, On the tendency of species to form varieties, cit., p. 52. 6 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1859, cit., p. 279.

7 Ivi, pp. 77-79. 8 Ivi, p. 175. 9 Ivi, pp. 325-326.

10 Ivi, pp. 132-134 e pp. 167-168; la citazione diretta è tratta invece da C.R. DARWIN, The descent of man, vol. 1, cit., p. 114.

11 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1859, cit., p. 466. 12 Ivi, p. 313.

13 C.R. DARWIN, The descent of man, 1871, vol. 1, cit., p. 154. 14 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1876, cit., pp. 5-6.

fisiche di due distinte regioni naturali, bensì dall'accumularsi di differenze strutturali per effetto della selezione naturale15. Tuttavia, posto di fronte a un calcolo statistico circa le possibilità di tramandarsi d'una variazione favorevole sorta in un singolo individuo, Darwin teorizzò che le variazioni favorevoli dovessero sorgere in un certo numero di individui contemporaneamente: ciò si verificherebbe quando organismi simili sono sottoposti ad azioni simili, in grado di imprimere se non una variazione una tendenza a variare in una certa direzione16. Le condizioni esterne agli organismi erano dunque riconosciute come un fattore indiretto, capace di indurre la variabilità creando gli spazi per nuove specie e varietà all'interno di una regione17. Questi cedimenti di Darwin erano indotti da obiezioni alla sua teoria che le conoscenze dell'epoca non gli permettevano di superare altrimenti, ma non andavano a incrinare le sue convinzioni profonde.

15 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1859, cit., p. 52. Il passaggio cui si fa riferimento fu modificato nella sesta edizione: Darwin ammise la possibilità che la lunga esposizione a specifiche condizioni fisiche, o la natura

dell'organismo stesso, potessero provocare questo marcarsi delle differenze; ma riservava il passaggio da uno stadio all'altro dei caratteri più importanti ed adattativi all'azione cumulativa della selezione naturale e all'uso/disuso di parti (C.R. DARWIN, On the origin of species, 1876, cit., p. 42).

16 C.R. DARWIN, On the origin of species, 1876, cit., pp. 71-73. 17 Ivi, p. 270.